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01
Maggio 2010

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Senescenza (del) Capitale

L'EURO IN CRISI

Relazione sul governo dell’economia, tenuta per la Scuola Critica nella sede della biblioteca Brau di Napoli il 4 giugno 2010

Luigi Bergantino

 

Mi sembra importante pensare a questi incontri – che vanno avanti da ormai 8 mesi – come il tentativo che ognuno di noi fa per contribuire ad uno sforzo collettivo. Nessun uomo potrebbe da solo bilanciare le brutture e le sofferenze di questo momento, solo un collettivo, consapevole della sua funzione, può resistere e preparare il terreno per qualcosa di nuovo ed è per questo che considero questa mia piccola ricerca come un modesto contributo al tentativo di chiarimento di una realtà che, anche nei momenti più tragici, si presenta in modo surreale.

 

Così surreale che forse solo Ionesco potrebbe aiutare a riguardarla in tutta la sua falsa genericità e assurdità.

E allora vi presento due personaggi: uno di nome Avere_apparire e l’altro Apparire_avere.

Avere_apparire è ben vestito, giacca, cravatta, molto compassato e lentamente compare ed esordisce dicendo:

- C’è la crisi dell’euro.

Apparire_avere, che gli sta dinanzi, più casual e distratto, esclama:

- Ma no! Mica è grave?

E Avere_apparire ribatte:

- Sì, invece, assolutamente.

E l’altro:

- Oddio. Allora, si salvi chi può!

E il primo:

- Bhe. No. Salviamoci insieme.

E l’altro, frastornato:

- Ah, sì!, ma come?!

- Bhe, – dice Avere_apparire – bisogna tagliare…

e poi, quasi in contemplazione, dice:

- La Germania, la Germania

 

Questo è il succo dell’informazione prevalente che somministrano ad un continente che in preda al panico assiste alla caduta libera della propria economia, come l’atto finale della disgregazione dell’Europa.

Cerchiamo di partire proprio dalla Germania che ha, si dice, i conti in ordine. Così in ordine che ha addirittura messo nella Costituzione il vincolo di azzerare il deficit pubblico entro il 2016 (il cui tetto massimo in termini strutturali non dovrà eccedere lo 0,35 per cento del Pil)[1]. Quindi adesso che è fallita la Grecia e che a ruota rischiano almeno il Portogallo, la Spagna e l’Italia, bisogna fare come la Germania[2]: tagliare la spesa sociale prima di qualunque altra cosa; provare un coordinamento europeo, ma senza troppa convinzione; aprire le porte al Fondo Monetario Internazionale, sperando di poter controllare i suoi disastrosi standard che impongono piani di rientro a base di tagli allo Stato sociale, privatizzazioni e repressione armata della povertà.

L’Italia segue la linea europea con una manovra finanziaria da 25 miliardi di euro di tagli in un paio d’anni. Tenendo presente che cancellando l'impegno per la tratta Tav «Torino-Lione» e del ponte di Messina si arriverebbe a circa tre quarti dell'intera operazione, c’è da dire che il 40% della manovra è composta da nuove entrate che si spera siano il frutto della lotta all’evasione fiscale che il Governo ha intenzione – dopo lo scudo fiscale e dopo i vari condoni – di attuare. Secondo un dossier del sito «www.lavoce.info» la manovra finanziaria «serve più che altro a dare un segnale ai mercati. Non è detto che sia credibile perché rinvia ai posteri gli aggiustamenti strutturali di spesa ed entrate […] e chi paga davvero sono, una volta di più, i giovani colpiti dal taglio dei contratti a tempo determinato e dal blocco delle assunzioni e delle carriere nel pubblico impiego (che penalizza soprattutto chi è entrato con salari molti bassi contando sugli scatti di anzianità)»[3]

Senza avere la prima economia del mondo, l’Italia ha un debito pubblico che supera, e di molto, il proprio prodotto interno lordo: verso i mille e ottocento miliardi di euro, pari al 120% del Pil, al momento il secondo o il terzo debito pubblico più alto al mondo! Questo implica che ogni anno dalle entrate – già molto decurtate dall’evasione fiscale (100 miliardi circa) – bisogna prende un’ottantina di miliardi di euro e darli, come interesse maturato, a coloro che hanno comprato i nostri titoli di Stato (detenuto al 50% da investitori istituzionali) la cui vendita da sola ormai, che soli ormai, a causa di quell’alto livello di evasione fiscale (dentro cui c’è l’economia criminale, il lavoro nero e il costo della corruzione), ci permette di mandare avanti lo Stato: pensioni, sanità, scuola, università, ricerca, opere pubbliche, beni culturali, tutela dell’ambiente, servizi, informazione, partiti, Parlamento, Governo, Magistratura, amministrazione, sicurezza, spese militari, ecc.

Per poter essere ammessi nella «zona euro» l’Italia ha condotto una politica di tagli in funzione del rientro del debito pubblico in limiti accettabili dal trattato di Maastricht (1992). Questa politica di risanamento dei conti pubblici, che è stata sicuramente salvifica per il nostro sgangherato Paese che fuori dall’euro si sarebbe frantumato sotto il peso della corruzione e della «moral suasion» internazionale, non ha comunque niente a che vedere con l’unica vera operazione di riordino dei conti pubblici che l’Italia ricordi: 1861-1875. Allora il neonato Paese, uscito dalla guerra di liberazione e unificazione, procedette contemporaneamente al riordino dell’amministrazione, alla costruzione del sistema di istruzione e dei trasporti pubblico, alla riforma/costruzione del sistema tributario, riuscendo in circa dieci anni a portare i conti pubblici al pareggio (entrate e uscite si bilanciavano) per poter sostenere le spese per la costruzione delle urgenti infrastrutture moderne. Di fronte a tutto questo lo storico Golo Mann poté dire che il Risorgimento italiano fu il colpo più duro assestato al feudalesimo europeo, superiore anche – pensate un po’ – alla Rivoluzione francese. Altri tempi[4], che però è bene tener presente in situazioni di crisi totale come quella attuale.

L’Italia riesce, quindi, ad entrare nell’euro disperdendo, però, un immenso patrimonio di proprietà mobili e immobili pubblico di inestimabile valore: l’Imi (Istituto mobiliare italiano) e l’Iri (Istituto per la rinascita industriale).

Una volta diventato europeo il debito pubblico ha ricominciato a salire a ritmi forsennati sulla groppa di spese emergenziali e falsi lavori pubblici. Si è attraversata molto rapidamente la parentesi di Tangentopoli e si è proceduto alla manomissione del sistema fiscale, abolendo, per esempio, la tassa sulle successioni – caposaldo, per Luigi Einaudi, dei sistemi fiscali moderni –, e sconvolgendo la legislazione sui lavori pubblici (Legge Obiettivo, 2001), con la riesumazione di una legge fascista del 1929 che concedeva i lavori pubblici a trattativa privata (cioè, senza gara di evidenza pubblica) a cui si aggiunse la concessione di anticipazioni di soldi pubblici sui lavori anche quando non ancora progettati.

Parallelamente, tutta la struttura amministrativa ereditata dal Risorgimento e rinforzata dalla Costituzione veniva progressivamente smantellata con la cancellazione dei controlli interni alla pubblica amministrazione e con la creazione di strumenti amministrativi per andare in deroga alla pianificazione territoriale (leggi Bassanini dal 1993 al 2001), poi con la creazione della Protezione civile e delle relative Ordinanze di protezione civile del Presidente del Consiglio dei ministri (1992) e, infine, con la riforma del Titolo V della Costituzione e più in generale la riforma «federale» dello Stato (2001-2010).

È a valle di tutto questo che oggi assistiamo ad un attacco senza precedenti all’informazione – definita «troppo libera» – e alla magistratura già intasata per effetto della cancellazione dei controlli interni alla pubblica amministrazione (cosiddetti controlli a monte) e che, malgrado questo, è stata progressivamente sotto-finanziata e lasciata aggrappata all’ultimo strumento delle intercettazioni telefoniche e ambientali per poter continuare a perseguire i reati di una certa rilevanza. Tutto questo non poteva che avvenire in un Paese dove la scuole fosse già stata distrutta, la ricerca dispersa e impermeabile alla realtà, l’alta cultura messa all’angolo e l’università morta già da molto tempo.

Ma questa non è una caratteristica solo italiana, come abbiamo avuto modo di apprendere dal recente dossier di Le Monde Diplomatique del Febbraio 2010 (versione italiana) dedicato alla trasformazione degli Stati europei in Stati manager. Teniamo presente che negli ultimi dieci anni di crescita europea il tasso di povertà è rimasto invariato e poi ha iniziato a crescere[5].

Ma oggi un rinoceronte attraversa l’Europa: tagliare per uscire dalla crisi! Ma se si presta attenzione anche alle voci competenti fuori dal coro si scopre che questi tagli non serviranno, non dico a niente, ma non di certo ad uscire dalla crisi dell’euro che sta velocemente perdendo di valore rispetto al dollaro. Cosa dice per esempio Michael Spence[6], economista americano e premio Nobel «noto per le sue posizioni equidistanti fra Europa e Usa», innanzitutto che la «tempesta finanziaria è inevitabile», sia in Europa che in America[7], perché «i brutali programmi di finanza pubblica che tutti i Paesi europei, non solo quelli della sponda Sud, stanno adottando in fretta, taglia le gambe a qualsiasi prospettiva di ripresa dei consumi e delle imprese». Il primo punto critico, va avanti Spence, è «l’entità dei successi nella ristrutturazione dei debiti pubblici», cioè avverte che i tagli si risolveranno o in ingenti sprechi di denaro pubblico oppure rimarranno solo «misure-tampone di breve vita e totalmente insignificanti sul lungo termine», vantaggiosi «solo per alcune banche». Il secondo punto è che «non è stata ancora intrapresa nessuna misura convincente per rafforzare la struttura comunitaria e quella dell’euro. Finché non si risolverà la stridente dicotomia tra centralità della politica monetaria e decentramento delle politiche fiscali, l’architettura europea resterà debole»[8]. Il terzo punto è che nella recente riforma finanziaria degli Usa «si elude il problema numero uno: i conflitti di interesse che hanno provocato la crisi, fra le banche d’investimento che da un lato creano i titoli e dall’altro consigliano ai risparmiatori di comprarli, e le agenzie di rating che vengono pagate proprio da chi devono giudicare».

Ecco il vero problema!

Ma allora i conti non tornano. Perché si è proceduti compatti, sindacati compresi, verso la decisione di tagliare la spesa pubblica se l’unica cosa che è cambiata è stata un parare negativo di quelle stesse agenzia di rating che hanno contribuito a creare la crisi, sul debito pubblico di Grecia, Portogallo e Spagna?

Secondo Jacques Attali, economista, scrittore e banchiere francese di origine algerina e consigliere speciale del presidente Mitterrand, «il debito europeo è più piccolo di quello americano, giapponese e inglese, ma noi non disponiamo di una capacità di politica budgetaria comune. Coloro che concedono i prestiti – questo il vero nome di quello che tutti chiamano mercati – hanno più dubbi sulla possibilità che l’Europa ripaghi i prestiti che per gli USA e per il Giappone. (I 600 miliardi non sono realmente disponibili: chi crede che la Polonia finanzi il Portogallo?) Bisogna dotarsi dei mezzi per ottenere dei prestiti a livello europeo, con dei buoni del Tesoro europeo e un’Agenzia europea del Tesoro per concedere prestiti agli Stati. Bisogna passare dalla moneta unica al bilancio unico». «L’euro – prosegue Attali – non può avere altri dieci anni di vita senza un governo europeo democratico e un ministero delle finanze democraticamente controllato dal Parlamento europeo, un budget credibile in termini di tasse, di buoni del tesoro e di capacità di innescare una politica industriale come quella di cui dispongono gli Stati Uniti, insieme ad una politica della difesa, perché la politica industriale comprende anche la politica militare». E conclude: «se non disponiamo di questi mezzi gli Stati Uniti che hanno la moneta di riferimento e la Cina che ha dalla sua la crescita, avranno la meglio su di noi»[9].

Ma non bastano le agenzie di rating a creare scompiglio, ci si mette anche il «Financial Times» di Londra il 26 maggio 2010 scrive: «Il debito europeo spaventa l’Asia». Il quotidiano economico spiega che «Giappone e Cina non sono soltanto diffidenti nei confronti del debito di Portogallo, Italia, Irlanda e Grecia, ma – secondo un'indagine della banca inglese Barclays Capital – sembrano abbastanza sospettosi anche verso i bond tedeschi». Ad allarmare più di ogni altra cosa è «l’inquietante residuo lasciato nei meccanismi dell’eurozona dai cdo (obbligazioni di debito collateralizzato), spinti dalle banche ai tempi del boom del credito». Per aiutare a capire l’importanza di questi annunci del «Financial Times» va detto che dal crollo dei cds (credit default swaps), le assicurazioni che le banche avevano per non fallire, sono rappresentate dalla dissimulazione, la rassicurazione e il silenzio per riuscire ad arrestare la valanga, in attesa che le regole vengano cambiate e che gli Stati paghino il necessario per evitare il fallimento.

Ricercando informazioni su queste obbligazioni tanto negative per la stabilità dell’euro trovo che sono «la categoria più labile di questi derivati sul credito»[10]. I derivati cdo, come anche i csa «capital structure arbitrage», sono le ultime innovazioni sul mercato dei derivati e altro non sono che scommesse sul debito delle imprese, o derivati su quel debito.

Ma cerchiamo di capire cosa sono quello che oggi sembrano costituire il maggiore problema dell’euro. I cdo sono stati il mezzo con cui le banche, i fondi comuni e i fondi speculativi hanno trasferito il rischio ai sottoscrittori (la massa dei risparmiatori e dei piccoli azionisti). Spiega Luciano Gallino che ciò avviene

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«Per mezzo di strumenti finanziari complessi che essi costruiscono e si scambiano tra loro, spesso con la mediazione di società-veicolo appositamente create, ma che alla fine sono venduti quali titoli o quote di un fondo a singoli risparmiatori. Tra questi strumenti si collocano in primo piano le obbligazioni «sintetiche», aventi come sottostante uno o più contratti anti-insolvenza i […] Credit Default Swaps. Ragion per cui essi prendono il nome di synthetic Collateralized Debt Obligations, o synthetic cdo. Sono titoli inventati solo nel 1987»[11].

 

Gallino – che mi risparmio di presentare, (chi non lo conoscesse, oltre ai suoi libri, può cercare i suoi articoli pubblicati solitamente su la Repubblica e Liberazione) – sostiene anche che non solo i sottoscrittori, ma neanche gli stessi enti investitori prima dell’ultima crisi «non avevano compreso come tali obbligazioni funzionassero» e a quali enormi rischi li avrebbero condotti. Citando il sociologo della scienza Mackenzie – «I modelli finanziari sono un motore primo dell’economia globale non una macchina fotografica»[12] – sembra voler mettere in primo piano le responsabilità di chi questi modelli li ha pensati, o fatti pensare, rispetto alle responsabilità delle imprese e, in un certo senso, delle stesse banche che questi fondi e derivati hanno nel tempo prodotti.

Il continuo scambio di questi titoli derivati ha fatto sì che tutto il sistema finanziario mondiale si collegasse reciprocamente giungendo fino a controllare la stessa economia reale.

I soggetti principali di questa attività finanziaria globalizzata sono gli Investitoti istituzionali – società di intermediazione finanziaria che raccolgono i soldi dei risparmiatori del mondo da un lato per farli fruttare a beneficio dei sottoscrittori dei loro fondi, dall’altro per investirli prevalentemente nelle imprese quotate in Borsa[13] – che hanno come obiettivo comune quello di «aumentare quanto più possibile il volume dei capitali loro affidati e i ricavi lordi attraendo incessantemente nuovi sottoscrittori»[14].

Da qui, spiega Gallino, arriva

 

«L’onda di privatizzazioni di aziende pubbliche che ha avuto luogo in Europa tra il 1990 e il 1997, seguita nel primo decennio del 2000 dalla spinta alla privatizzazione dei servizi collettivi locali – l’acqua come i trasporti, l’energia come lo smaltimento dei rifiuti – per arrivare a investire anche il sistema sanitario e la scuola pubblica»[15].

 

Il potere di questi investitori istituzionali sulla società si comprende meglio tenendo presente che questo «attacco è stato portato congiuntamente da politici, accademici, società di consulenza, media, centri studi, giornalisti»[16].

Usiamo di nuovo le parole di Gallino per orientarci in queste enormi cifre e tra i vari istituti che le gestiscono:

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«I derivati in circolazione, tradizionali come i futures[17] o complessi come i contratti che assicurano un soggetto contro il rischio di insolvenza di una controparte, ovvero contro la mancata riscossione d’un credito alla data di scadenza (credit default swaps, cds), a metà 2008 ammontavano a 765 trilioni di dollari, pari 14 volte il pil del mondo, stando al loro valore nominale. Di questi, solamente 80 trilioni erano scambiati tramite le borse, mentre i restanti 680 e oltre erano scambiati esclusivamente «al banco» (otc, ossia over the counter) senza intermediazione tra i contraenti. Il solo mercato dei cds si calcola ammontasse a 62 trilioni di dollari. Tuttavia, essendo soggetti a una regolazione affatto blanda in quanto considerati contratti tra privati, non è possibile stabilirne né l’esatto ammontare, né quanti di essi siano effettivamente gestiti da investitori istituzionali. Formano un mercato ombra. Per la loro entità e l’assenza di regolazione, uno dei maggiori finanzieri del mondo, Warren Buffet, ebbe a definire già nel 2003 i derivati «gli equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa». Va ricordato al riguardo che il tracollo dei derivati del credito è stato una delle cause principali della crisi finanziaria del 2008. Però è bene precisare che il valore lordo di mercato di un derivato è di solito assai inferiore al suo valore nozionale o nominale. Il primo si riferisce alle somme che si possono guadagnare o perdere in funzione dell’andamento dell’entità sottostante; il secondo rappresenta la quantità di questa che al termine del contratto dovrebbe venire scambiata. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima, ad esempio, che a metà 2008 tutti i tipi di derivati otc valessero sul mercato 20,4 trilioni di dollari. Cifra lontana dai 680 trilioni e più di valore nominale. (Ma resta il fatto che) quanto più alto è il valore del sottostante, maggiore è il rischio che alla scadenza del contratto chi dovrebbe versarlo risulti insolvente»[18].

 

Un crescente spazio negli ultimi anni è stato occupato, oltre che dai private equity founds (fondi che acquistano imprese private non quotate allo scopo di ristrutturarle e rivenderle poi in borsa di regola dopo averle suddivise in vari pezzi) e dai fondi sovrani (costituiti a fini sia speculativi che previdenziali dai governi con capitali che possono provenire tanto dall’eccedenza degli scambi commerciali e monetari – come per la Cina – quanto dal petrolio), dai famosi hedge funds, cosiddetti fondi di copertura del rischio. Questi fondi,

 

«Diversamente dai fondi comuni, accolgono un numero ridotto di sottoscrittori, richiedono quote di ingresso dell’ordine di milioni di euro e hanno una vocazione marcatamente speculativa»[19].

 

Gli hedge funds hanno un potere finanziario

 

«Assai più grande di quanto non sembri poiché essi usano a più livelli il cosiddetto «effetto leva»: ossia ottengono prestiti di molto superiori al capitale di cui inizialmente dispongono, per mezzo dei quali acquistano titoli sul tipo, supponiamo, delle obbligazioni aventi per collaterale un debito (dopo i disastri del 2008, le ormai note cdo) il cui valore a loro volta si basa su un effetto leva che può arrivare a 8-10:1. Di conseguenza i fondi speculativi muovono capitali, in tempi ordinari, che risultano parecchie volte superiori a quelli che hanno realmente in portafoglio. In altre parole il trilione di dollari dei primi 50 fondi speculativi del mondo […] era presumibilmente in grado di muovere almeno altri 20-25 trilioni e forse più. L’effetto leva permette operazioni finanziarie altamente redditizie; tuttavia può finire in un disastro allorché la punta di questa sorta di piramide rovesciata non si dimostra più capace di reggere il peso della massa sovrastante. Se la punta su cui gravano decine di miliardi di debito è formata da solo 1 miliardo di dollari di attivi, basta che qualcuno chieda indietro anche solo mezzo miliardo, o si scopra che le cdo soprastanti non valgono più nulla, per far crollare la piramide nella polvere»[20].

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Detto questo torniamo all’Europa.

Le banche europee hanno potuto acquistare abs (prodotti «salsiccia») e cdo (le obbligazioni cartolarizzate con dentro mutui subprime,) portandoli fuori bilancio tramite società veicolo (siv o Conduit) con il beneplacito delle norme ias che però impongono il «presumibile valore di realizzo» che, con lo scoppio della bolla immobiliare 2007-2008, è arrivato quasi vicino a zero[21].

I rischi per l'Europa sono notevoli, giacché il 50% dei cdo sono denominati in euro (mentre il 44% è denominato in dollari e il resto in altre monete). rbs e Deutsche Bank sono le banche messe peggio in Europa.

Già il 17 maggio 2005, in occasione dell’improvvisa ripresa di una grave crisi che aveva investito General Motors e Ford  e che provocò un crollo dei cdo, la Merrill Lynch pubblicò un rapporto per «far notare» che la Deutsche Bank aveva probabilmente subito grosse perdite negli sviluppi di questi due colossi dell’auto americani. Il rapporto è stato diffuso proprio il giorno prima dell'assemblea degli azionisti della banca di Francoforte. Secondo Merrill Lynch circa il 17% dei clienti di Deutsche Bank, nelle attività di trading e vendite di bonds, sono hedge funds. Il primo responsabile finanziario della banca Clemens Boersing è stato costretto ad affermare, in una conferenza stampa a New York, che la banca non ha posizioni scoperte, ma che tutte le operazioni – nel rapporto annuale 2004 di Deutsche Bank figurano posizioni in derivati (soprattutto derivati sui cambi) per un volume nominale pari a 21.500 miliardi di dollari, quasi venti volte il volume del pil italiano – sono «pienamente collateralizzate»[22]. Come avviamo visto questo significa che il debito – ammesso che queste dichiarazioni siano vere – è stato già distribuito tra piccoli azionisti e sottoscrittori di fondi della banca stessa.

Qualora i derivati poco trasparenti in Europa siano tutti «collateralizzati» a pagare le conseguenze della crisi sono e saranno la grande massa di risparmiatori e piccoli azionisti e sottoscrittori di fondi. Per scongiurare questa evenienza e le conseguenti rivolte sociali anche nei paesi «ricchi» in cui la disoccupazione cresce costantemente, i Governi non possono che intervenire prestando denaro a basso tasso tramite le banche centrali o, come è avvenuto di recente, acquistando titoli di stato di paesi a rischio fallimento, tagliando la spesa pubblica per avere liquidità sufficiente ad avviare tali operazioni. Ma se si verificasse il fallimento di qualche istituto di credito le cose cambierebbero molto a causa dei cds, che costituiscono le «polizze assicurative» in caso di fallimenti di istituti di credito, che dovrebbero liquidare per somme altissime gli investitori.

L’unico rifugio per gli investitori in questa situazione di instabilità sistemica dovrebbero essere i titoli di Stato, ma il paradosso assurdo è che i cds, che misurano anche il rischio default (fallimento) di un’azienda o di un Paese, si sono notevolmente apprezzati per gli Stati[23], stabilizzandosi per alcune banche. Lo scenario ridicolo che i maghi della finanza paventano è che interventi di Stati sovrani a protezione di banche rendano più probabile il fallimento dello Stato che aiuta rispetto a quello della banca aiutata.

Il Ministro italiano dell’economia e della finanza, in un’intervista sul «Corriere della sera» del 31 maggio 2010, incalzato dal giornalista sul punto dell’assenza, nella recente manovra straordinaria, di provvedimenti a favore della crescita, ha risposto: «Primum vivere. […] La politica che è stata decisa e alla quale, giusta o sbagliata, nessuno ha volto o potuto sottrarsi, è la stabilità finanziaria come condizione stessa di esistenza dell’euro e dell’Europa. Non tanto perché lo concordiamo noi, o perché lo consiglia la Commissione europea, quanto perché lo impone dall’esterno la forza drammatica e ancora dominante dell’economia di carta». L’asservimento dell’economia reale a quella finanziaria è, secondo Gallino, una conseguenza necessaria del neo liberismo che, visti gli esiti disastrosi, potremmo definire contraddizione interna:

 

«Per quanto riguarda le imprese (mi riferisco qui alle imprese non finanziarie), le strategie degli investitori istituzionali le hanno forzate a pagare una parte crescente dei loro flussi di cassa ad agenti finanziari, sottraendoli ad investimenti produttivi; l’orizzonte temporale dei loro piani industriali è stato drasticamente ridotto; sono stati al tempo stesso accresciuti e distorti gli incentivi per i manager – ora questi ultimi sono spronati a badare anzitutto non alla produzione di beni reali, bensì al valore della società in borsa; non da ultimo, le imprese sono state costrette ad abbandonare la «strada alta» delle relazioni industriali, fatta di buoni salari e di un’ampia rete pubblica di protezioni sociali, a favore di strategie di sopravvivenza che comportano un attacco continuo allo stato sociale, alle condizioni di lavoro di operai e impiegati e ai rapporti con i fornitori. A questa trasformazione dell’impresa operata dagli investitori istituzionali […] sono riconducibili in varia misura i fallimenti in atto dell’economia mondo»[24].

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Resta inevaso un punto: perché quest’attacco insistente del mondo finanziario anglosassone nei confronti dell’euro? Per capire questo forse bisognerebbe parlare del cosiddetto complesso militare-industriale statunitense[25] (Presidente Eisenhower) oltre che finanziario, dei suoi metodi bestiali[26] e della sua vocazione imperiale che ha ostinatamente lavorato, dalla morte di Eisenhower in poi, per impedire la formazione di una federazione che avrebbe superato gli Stati Uniti per Prodotto interno lordo, per potere diplomatico e, in breve tempo, per potere militare e per ricerca scientifica. Una federazione basata su solidi modelli di stato sociale, di intervento pubblico nell’economia, sorretti da vasti movimenti sociali e culturali.

Temo però, visti gli inusualmente numerosi commenti a favore della costituzione di un unico Governo europeo – in ultimo anche di Mario Draghi –, con un’unica politica fiscale ed economica e in alcuni casi, come abbiamo visto, un’unica politica militare, che si cerchi non di riformare veramente il sistema finanziario, come pure Gallino suggerisce essere l’unica via per evitare la catastrofe[27], ma semplicemente di rendere autonomo il sistema europeo da quello americano.

Gli Stai Uniti e la Cina sembrano essere interessati a che l’Europa non crolli e fanno susseguire dichiarazioni distensive per i mercati, e l’Europa arranca dietro l’attivismo del Fondo monetario e dei mercati finanziari senza riuscire a mettere in piedi una vera strategia di coordinamento anticrisi e di rilancio dell’economia. A proposito di questo Marcello De Cecco il 17 maggio 2010 ha scritto che «Sono in molti ora a prevedere che, al nuovo assetto costituzionale imposto alla bce, sarà obbligatorio da parte dei governi europei e della Commissione, rispondere con un tentativo di unificazione fiscale. […] Supponiamo che i paesi europei ascoltino i consigli del senato virtuale, riuscendo a ottenere livelli di deflazione[28] sufficienti a riportare in pochi anni l'equilibrio nei loro bilanci e a smorzare la crescita del debito pubblico […], si scatenerà una deflazione talmente grave in tutto l’occidente sviluppato da rendere ancora più disperata la situazione dei conti pubblici dei paesi coinvolti. Le entrate fiscali crolleranno e i tagli della spesa dovranno raggiungere livelli selvaggi, tali da scatenare disordini sociali nei paesi più deboli». E conclude dicendo: «C’è da scommettere, purtroppo, che gli annichiliti politici europei non si renderanno conto che i mercati parlano per aumentare come dicono loro la volatilità e quindi le occasioni di guadagno e che il presidente Obama cerca di esorcizzare una nuova crisi finanziaria e la deflazione del suo paese, consigliando di fare noi quel che spera di non essere costretto a fare lui. […] È evidente che un processo di ristrutturazione graduale del debito pubblico greco si impone»[29].

In buona sostanza l’illustre monetarista suggerisce di sbugiardare le agenzie di rating e di avviare un processo di unificazione fiscale, che abbiano come primo punto la ristrutturazione controllata dei debiti pubblici dei paesi a rischio della zona euro al fine di evitare la deflazione e far ripartire l’economia.

La lunga elaborazione teorica che parte da Hegel e Marx passa per Lenin, Gramsci e Keynes per la Cuba del movimento del 26 luglio e per tutto il sud del mondo dagli anni ’40 agli anni ’70 (in particolare l’India di Neru, l’Indonesia di Sucarno e la Somalia di Mohamed Aden Sheikh)[30], dagli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt all’Italia di Enrico Mattei fino al Venezuela di Chavez e la Bolivia di Evo Morales - il quale ultimo con un tratto di penna inverte il contratto economico con le multinazionali degli idrocarburi (decreto  28.701/2006)[31], ha prodotto come strumento principale per opporsi allo strapotere privato la programmazione economica. La Costituzione italiana si inscrive in questa lunga corrente di pensiero e all’articolo 42 pone la pari dignità tra economia pubblica ed economia privata (sistema misto). Sistema misto che oggi sta cadendo sotto i colpi della speculazione che ha già eliminato le condizioni in cui questo sistema economico può funzionare. Alcune di queste sono l’idea di credito bancario come bene pubblico, il controllo del debito pubblico come prevalentemente in proprietà dei cittadini italiani (mentre oggi il 55% è in mano a investitori istituzionali stranieri). Fino al 1990 il 95% del debito era di proprietà italiana e il debito, fino al 1980 era del 50-60% del Pil. Oggi, ogni anno, 40 miliardi di euro di interessi maturati sui titoli di Stato italiani lasciano il Paese per finire nei fondi degli investitori istituzionali[32].

Questa piena globalizzazione finanziaria impone alla classe dirigente europea contestualmente di sottrarsi ai diktat della finanza costituendo un’entità politica europea e di rimettere l’economia europea almeno su saldi basi di economia mista e contestualmente avviare una trattativa internazionale per la riduzione controllata degli «equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa» (cioè l’enorme mercato fuori controllo dei derivati: 14 volte il pil mondiale) che è entrato in crisi. Quella piramide capovolta di cui abbiamo detto, sta franando, ma non finirà nella polvere senza un deciso e coordinato intervento pubblico internazionale. Gli investitori istituzionali mirano alla destabilizzazione di questo grosso mammifero pubblicistico che è ancora l’Europa, per farlo a pezzi voracemente e venderlo moltiplicandone il valore per decine di volte con la leva finanziaria. Ma a cosa porterà l’assecondare, anche in questo momento di crisi generale dell’economia, i voleri dell’«economia di carta»? Pur mungendo le piccole risorse della grande massa dei risparmiatori, dei singoli e delle famiglie (che costituiscono l’80% del capitale gestito dagli investitori istituzionali)[33] hanno già fatto in modo che i prossimi pensionati degli Stati Uniti potrebbero non avere più di che vivere dopo una vita passata a lavorare[34], magari in una precaria situazione sanitaria dovuta a lavori usuranti e nocivi per la salute. Ad essi si aggiungeranno i disoccupati, i senza casa e i tradizionali poveri che aumentano. Una situazione a dir poco esplosiva che in analoghi momenti storici ha trovato un’unica via di uscita: la guerra. Questa – se la politica non interviene – sarà la tragica direzione verso cui procederà l’economia, che per prima è stata asservita dall’economia di carta, per tentare di risollevarsi.

Da qui le preoccupazioni di molti commentatori politici ed economici per il futuro dell’Europa che, come abbiamo visto non dispone né della moneta di riferimento né di una grande crescita economica.

Forse l’economia reale europea è già stata completamente asservita alla finanza? I mercati finanziari spingono l’Unione verso il fallimento per procedere, così come hanno già fatto in sud America[35], sull’acceleratore delle privatizzazioni. Sarebbe possibile, invece, provocare il fallimento controllato anche di grandi banche «to big to fail», nazionalizzando le funzioni pubbliche che esse detengono e che sono il vero motivo che impone agli Stati di non lasciarle fallire sotto il peso dei loro debiti[36].

Per Gallino questo è proprio il momento di porre mano ad una decisa riforma finanziaria, «perché le riforme di questo tipo si riescono a fare soprattutto quando i governi e gli operatori economici hanno paura». In primis porre fine al gigantesco conflitto di interesse tra banche commerciali e banche di investimento e delle agenzie di rating che sono finanziate da coloro che dovrebbero valutare, al fine di chiudere quell’immensa falla che è il mercato ombra degli otc (ossia over the counter) per il quale passano 680 su 765 trilioni di cui è composto il mercato finanziario mondiale.

 

In tutto questo mondo economico in rapido disfacimento credo che i cittadini consapevoli debbano immaginare un punto su cui battere che sia un segno di contraddizione progressivo nei nuovi assetti mondiali che si preparano.

Sembra possibile che l’Europa riesca ad aumentare la propria unità politica ed economica, ma sta accantonando tutto quello che degrada più lentamente e con meno clamore, la sua stessa essenza: l’ambiente, il paesaggio, i giacimenti archeologici e storico-artistici, le biblioteche, le accademie e la cultura umanistica che gli conferisce senso e valore universale. Per cui penso che oggi la battaglia più importante da condurre per inserirsi al meglio in questo processo di  ristrutturazione europeo sarebbe quello di battersi per l’istituzione, accanto al ministero dell’economia e della difesa, di un ministero per l’ambiente e la ricerca europeo verso cui spostare gli immensi capitali che l’Europa potrebbe recuperare dal mercato finanziario impazzito.

Bisogna lottare con gli strumenti della scienza e della filosofia contro i facili entusiasmi che scoperte come quelle recenti di Craig Venter e altre ugualmente strane e pericolose si impossessino di un’opinione pubblica disperata dalla paralisi della propria classe dirigente[37].

 

GIUGNO 2010

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[1] Se la Germania mette al rischio l’euro, di Joseph Halevi, «Il Manifesto» , 4 luglio 2009

[2] Il 7 giugno 2010 il Governo tedesco ha annunciato un piano di risparmio di 81,6 miliardi di euro entro il 2014 che colpiscono sopratutto Stato sociale e pubblico impiego. Mentre le Borse cadono proprio sulla minaccia competitiva della bassa domanda interna di Cina e Germania (Scure in Germania ma l’euro ancora giù, «Liberazione» 8 giugno 2010).

[3] Nel dettaglio si spiega che: 1. Non è affatto una manovra incentrata solo sui tagli alla spesa; al contrario ben il 40 per cento della manovra a regime (nel 2012) è composto da maggiori entrate. L’incremento delle entrate è dovuto in gran parte ai nuovi provvedimenti anti-evasione, da cui il governo si aspetta di ottenere fino a 8 miliardi di euro, in aggiunta a quanto già stimato nella Relazione previsionale e programmatica. 2. Per più del 70 %, i tagli sono rappresentati da riduzioni lineari nelle spese dei ministeri (10%) e tagli alle Regioni e altri enti territoriali per 8,5 miliardi di euro (oltre il 60 %). Per le Regioni si tratta del sostanziale annullamento dei trasferimenti per il finanziamento delle funzioni devolute con le leggi Bassanini nel 1997; per Comuni e Province, di un taglio ai trasferimenti dell’ordine del 20 % del totale. Come questi enti territoriali potranno gestire riduzioni così imponenti non è chiaro, senza che siano state varate misure strutturali di contenimento delle spese. «L’esperienza passata ci insegna che questi sono spesso tagli di carta». 3. Pesanti sono, invece, gli interventi su scuola e sanità. Per la prima, è soprattutto il blocco degli incrementi automatici delle retribuzioni nel triennio a determinare la riduzione della spesa; per la seconda, è un complesso di riduzioni nel personale e di riclassificazione della spesa farmaceutica.

[4] Scrisse Eugenio Scalfari su «la Repubblica» del 26 marzo 2006: «La borghesia della Destra storica si autotassò ferocemente per costruire lo Stato. Era una borghesia soprattutto fondiaria e pagò il suo debito alla comunità e allo Stato da lei costruito e governato contribuendo con il 62 per cento alle entrare tributarie totali negli anni che vanno dal 1865 al 1876. Allora dico: giù il cappello di fronte a quella destra e a quella borghesia. Essa aveva in Cavour, Sella, Minghetti, Spaventa, i suoi punti di riferimento. I sedicenti borghesi dei giorni nostri hanno come modelli Berlusconi e Tremonti».

[5] Programma europeo per la povertà 2020.

[6] Il 26 maggio 2010 in un’intervista di Eugenio Occorsio della Repubblica.

[7] «Quanto all’America il Pil cresce solo per alcuni fattori contingenti, mentre i dati della disoccupazione hanno ricominciato a salire e la fiducia dei consumatori è tornata su livelli preoccupanti». Il debito pubblico è salito a 14.294 miliardi di dollari.

[8] Nell’immaginario comune il modo che gli Stati hanno per fare investimenti straordinari è quello di immettere nuova moneta in circolo tramite le Zecche di Stato. Quindi l’istituzione della moneta unica può sembrare, secondo questa credenza, la fine dell’aumento dei debiti pubblici, ma non è e non è stato così. Il trattato di Maastricht del 1992, infatti, oltre a istituire la moneta unica europea prevedeva una serie di vincoli alla spesa degli Stati membri. Quello che ora ci interessa è il vincolo a non superare il 60% nel rapporto tra debito pubblico e pil. Questo perché gli Stati avevano già da tempo sostituito per il proprio finanziamento all’immissione diretta di nuova moneta (che provocava una forte inflazione) la vendita sul mercato finanziario di titoli di stato a breve (bot e cct) o a lunga scadenza (btp). Il limite imposto da Maastricht è stato ignorato e il debito pubblico degli Stati è aumentato. Per questo allo stato l’Unione europea non ha il pieno controllo della propria moneta che continua ad essere «emessa» anche dai singoli Stati nazionali.

[9] Solo l’Europa può salvarci dall’eurocrac, intervista di Domenico Quirico a Jacques Attali, «La Stampa», 28 maggio 2010.

[10] Come riportato sul sito http://www.movisol.org/index.htm dal quale ho assunto, insieme al testo reperibile su: http://www.fisacbrindisi.it/index.htm/files/page0_blog_entry6_1.doc, molte informazioni riversate in ordine sparso nella relazione.

[11] Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009, p. 58.

[12] Ibidem, p. 58.

[13] «Tra di essi, oltre ai fondi pensione, vi sono i fondi di investimento detti comuni o aperti perché accessibili a tutti i risparmiatori e le compagnie di assicurazioni». Ibidem, p. 34.

[14] Ibidem, p. 51.

[15] Ibidem, p. 63.

[16] Ibidem, p. 63.

[17] Sono contratti a termine su strumenti finanziari, standardizzati per poter essere negoziati facilmente in Borsa. Sulla storia di questo strumento finanziario e la sua funzione vedi Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, 2009, p. 92-93 e segg.

[18] Ibidem, p. 33, 34.

[19] Ibidem, p. 28, 29.

[20] Ibidem, p. 44.

[21] I cdo e gli abs, pur se distinti dalla «parte buona» dei bilanci societari sono stati svalutati secondo le norme IAS di Basilea II, che attribuiscono comunque le valutazioni dei rischi alle stesse società che i rischi li hanno creati. Subito dopo, nell’ultima settimana di ottobre 2008, lo iasb si è riunito e li ha «riabilitati» in tutto il loro valore fasullo. In pratica ha deciso di valutare abs e cdo tossici al «costo storico», ossia al valore iniziale, piuttosto che al «mark to market», cioè al presumibile valore di realizzo. In pratica hanno deciso di ridare valore ai titoli spazzatura per far sopravvivere banche ormai decotte anche dopo aumenti di capitale. I derivati non regolamentati hanno un controvalore nominale di 450.000 Miliardi di euro nel pianeta, di cui ci dicono 1.500 – Il PIL dell’Italia – senza più valore mentre degli altri non si può dire ad oggi quanto valgono. Solo le famose polizze da fallimento in giro per il mondo sono 55.000 miliardi di euro, di cui 400 riferibili a Lehman. Hanno preferito traslare il problema e rimettere la polvere sotto il tappeto per ideare qualche soluzione definitiva prima che questi derivati giungano a scadenza. Perché, se non si interviene con un colpo di spugna soddisfacente per tutti, questi derivati senza valore, che sono pur sempre contratti, arriveranno a scadenza e dovranno essere onorati.

[22] Gli ultimi dati recuperati in internet, dicono che nell’ottobre 2008 i derivati di valore prossimo allo zero di db, anche se formalmente fuori bilancio,  ammontano a un valore vicino agli 80 miliardi di euro (quaranta volte più di Unicredit e venti più di Intesa). La leva finanziaria di db, che sta tentando di abbassare è pari a 61:1.

[23] «Il giorno dopo l’annuncio della manovra da 25 miliardi i cds sono saliti a 250 punti base, sintomo della scarsa fiducia verso il nostro Paese: è stata scambiata protezione per oltre 225 miliardi di dollari; il valore complessivo netto dei cds attivo sul nostro debito è di 23 miliardi. Da marzo al 4 giugno 2010 i contratti accesi sono passati da 5.600 a 6.000. A salire sono stati anche i volumi scambiati giornalmente da 450 mila a 575 mila dollari nell’arco di tre mesi. Per fare un confronto: sulla Grecia la movimentazione lorda non supera i 78 miliardi di euro». Ecco chi sta puntando contro il nostro debito, di Fabrizio Goria, «il Riformista» 4 giugno 2010.

[24] L. Gallino, Con i soldi degli altri cit., p. 67.

[25] Dwight D. Eisenhower, Discorso di addio alla nazione, 17 gennaio 1961. 

[26] Cfr. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia.

[27] Cfr. L. Gallino, Con i soldi degli altri, cit. p. 79.

[28] La deflazione deriva dalla debolezza della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i quali poi attendono ulteriori cali dei prezzi, creando una spirale negativa.

[29] La cura la decide l’America e l’Ue corre verso la deflazione, di Marcello De Cecco, «la Repubblica Affari e finanza», 17 maggio 2010.

[30] Cfr. L. Gallino, Con i soldi degli altri, p. 15: «Negli anni Settanta la quota di persone che vivono in slums (il termine internazionale per designare i luoghi urbani dove le persone abitano in edifici degradati dei centri storici, o in baracche di lamiera e cartone della periferia, talora in spazi ricavati nelle discariche che le intemperie hanno compattato) nelle metropoli dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa era dell’1-2%. Nel 2000 ha superato il 20%!».

[31] Nel 1º maggio 2006, il presidente Evo Morales emanò un decreto che imponeva la rinazionalizzazione di tutte le riserve di gas naturale: «lo Stato riprende la proprietà, il possesso e il totale e assoluto controllo» degli idrocarburi (la Bolivia possiede la seconda riserva più grande di gas naturale in Sud America dopo il Venezuela, 747,2 milioni di metri cubi), concedendo un periodo di sei mesi alle compagnia straniere per riesaminare i contratti secondo la muova normativa o abbandonare il Paese. Il 28 ottobre 2006 il governo di Morales firma un accordo con le compagnie petrolifere straniere che aumenta dal 18% all’82% la percentuale statale di partecipazione ai profitti derivanti dalle attività petrolifere.

[32] Secondo il giurista Giovanni Guarino i 5 presupposti fondamentali dell’economia mista sono: 1) l’idea di confine nazionale; 2) presenza di grandi e piccole imprese pubbliche che operano con le regole del diritto pubblico; 3) Stato sociale; 4) sistema politico parlamentare; 5) Utilizzo del debito pubblico per investimenti e opere pubbliche.

[33] L. Gallino, Con i soldi degli altri cit., p. 37.

[34] Ibidem. p. 102. Per la analoga situazione italiana dopo la riforma Dini del 1995 cfr. p. 63-64.

[35] Però, il governo argentino, dopo il fallimento dello Stato per 81 miliardi di dollari, ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha cambiato moneta, togliendo al peso argentino corso legale. Con questo atto l'Argentina, rifiutandosi di pagare i vecchi creditori, ha dichiarato unilateralmente di aver azzerato il debito pubblico nella vecchia valuta. In realtà, l'Argentina è stata portata dai creditori nei tribunali internazionali (USA e Germania), ed inoltre sta subendo un'azione mossa presso la Camera Arbitrale (ICSID) della Banca Mondiale. I bond (obbligazioni) argentini, a causa del default (cessazione dei pagamenti) decretato e ancora non risolto, non hanno accesso al mercato nelle borse internazionali, essendo costretti al mercato domestico sotto legislazione argentina (Fonte: Wikipedia).

[36] Per questo si legga l’imperdibile articolo del grande economista James Kenneth Galbraith, Quale Europa frenerà i mercati?, «Le Monde diplomatique il manifesto», giugno 2010.

[37] Nell’articolo La nuova strategia verde Salvare il pianeta è possibile di Federico Rampini, «la Repubblica», 3 giugno 2010, si legge che esisterebbero tre innovazioni tecnologiche che «salveranno la terra»: «vita artificiale, microsensori, algoritmi governa-traffico».