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05
Ottobre 2011

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Coscienza di classe e consenso oggi

OLTRE TUTTO.

A dieci anni dall'11 Settembre

Giulia Inverardi

«Io non dimenticherò mai i comizi con cui l'anno scorso i clandestini riempiron le piazze d'Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: “Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono”. Stronzi! In quelle piazze ve n'erano migliaia, e non si nascondevano affatto sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un'ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo mica».

(Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio)

 

Dedicato agli uomini e donne del presidio di Brescia

che non han bisogno di dediche perché le vie della città si sono dedicate a loro,

che non hanno bisogno di rispetto perché l'hanno reinventato,

che non hanno bisogno di lodi da noi perché ci hanno lasciati indietro a guardare.

Hanno bisogno solo di noi, per il nostro essere uomini e donne

Presenti.

 

Questo stupido chiasso mi ha svegliata. E che sonno era il mio, pesante, non ti immagini. Ma lasciamo perdere, sono già fuori dalla porta stretta (è sempre stata così stretta?) e sono tanto arrabbiata che più che scendere in strada sbotto su, come un tappo: non sopporto che mi si distolga dalla mia strada, che sia sonno o veglia, per cosa poi? Danze, strepiti sconnessi, risate fragorose. Una festa? A quest'ora, e in strada?! Eccoli i disturbatori; la notte è già cominciata, senza dubbio, c’è buio e oltre al drappello di persone multicolori non c’è nessuno, in giro. È notte e questi ancora a fare chiasso. Musica, mangiafuoco e vocine. Quante vocine… bambini? Che importa! Fanno baccano, e tolgono la gente dai sonni profondi. Mi avvicino per capire di che si tratta, ma dal gruppo compatto schizza una bambina in una traiettoria senza guida, e inaspettatamente me la trovo davanti. Avrà due anni, sorride come il sole quando brilla più della tua sopportazione; tende le mani a me e a ciò che porto in mano, e al suo gesto mi accorgo di avere con me il mio quaderno di scrittura. Non glielo darei per niente al mondo!, ma ora che il sorriso rientra un poco la vedo meglio e paurosamente mi stupisco, questa bambina è identica a me, la me bambina! Sai, è quel genere di scoperte che nascono e si compiono in un millisecondo e ti terrorizzano per la loro straordinarietà. Sì, questa bambinetta antipatica (la sua impertinente socialità non fa per me) è uguale a me da piccola, tranne che per la carnagione più olivastra: treccine di capelli crespi, sguardo fisso senza timori e un sopracciglio appena più alto dell’altro, nell’espressione costantemente interrogativa. E che vuole questa mini-me? Siamo troppo facili noi donne a psicanalizzazioni da dilettanti, cediamo spesso alla risposta non più veritiera, ma più calda; insomma, a te posso confessarlo, mi lascio conquistare dall’idea che questa bambina sia venuta a ricongiungersi alla mini-me di allora e d’Italia, mentre lei è di ora e di altrove – o è di qui? Comunque emette stridolini di gioia, d’improvviso, e non ti so dire, fa due o tre gesti che vorrei dipingere, fotografare, dire, così semplici e veloci, così pieni di entusiasmo…ma sì, nulla di che, è solo che non aveva visto il gatto fra le mie gambe (nemmeno io in effetti, anche se è il mio gatto storico), non se lo aspettava e il suo piccolo viso scoppia di un’espressione brutta e bellissima, bocca spalancata, sopracciglia alzate quasi oltre la fronte, è un cerchio che si dilata e illumina, e poi lei comincia i saltelli frenetici, su un piede e sull’altro e batte le mani, e ride a perdere il respiro con una voce di uccellino scatenato. Tuttavia, il gatto passa subito in secondo piano; la bambina torna a reclamare il quaderno di scrittura. Come dire, non posso non porgerglielo, no? Sulle prime all’erta nel timore che bambinescamente possa romperlo o imbrattarlo, poi tranquilla, è una donna in miniatura che lo tiene e lo guarda intensamente. E subito, con un gesto che spunta dalla sua piccola umanità gestuale, lo bacia, fermando per qualche secondo dilatato le labbra sulla copertina. Sempre con il sorriso me lo restituisce, e corre via incontro ad un uomo che la raccoglie fra le braccia, dopo averla chiamata con un nome scivoloso. Il padre ha lo stesso sorriso e lo tiene sulle labbra dicendole: «Dove scappi sempre?», e abbassa il capo come a salutarmi senza vedermi.

Che curioso incontro. Ma sono ancora arrabbiata, non credano! Porto il mio sonno interrotto sulla faccia a mo’ di bandiera di guerra. Decisa ad ottenere giustizia e scuse, avanzo verso il gruppetto: saranno meno di un centinaio, tutti stretti a circolo in una piazzetta che non riconosco. Dove sono? Perché non sono a New York? Sono confusa, ma sono certamente in Italia... Invece di braccare come mia abitudine ogni questione, terrorizzata che una lasciata sospesa mi prenda a tradimento, queste le mando via, perché qua c'è da capire chi sono gli sfaticati che fan casino invece di dormire, e non lasciano dormire chi lavora domattina (ma io lavoro domattina? Non ricordo... Scrivo ancora? La testa pesa e il sonno da cui mi sono svegliata era infrangibile...). Ormai sono al muro di spalle, che mi fronteggiano in un'esclusione offensiva. Queste persone celebrano qualcosa senza di me, a mio discapito, e non posso nemmeno vedere, che fanno?! Inquadro lo spazio attorno e mi colpisce la sua dimensione mista: è un esterno, eppure sembra un interno domestico. Come in una cucina qualsiasi, ci sono tavoli con cibi, ma sono a portata di mano e non ci sono muri a proteggere l’intimità casalinga; c’è anche l'angolo della raccolta differenziata, tipica della famiglia civile, che però è aperto a chiunque voglia gettarci la sua cartaccia, e non è una raccolta normale: “carta”, “plastica”, “vetro”, “razzisti-leghisti”. Ora intuisco di che ritrovo si tratta e mi sorge il fastidio immediato, il fatto è inaccettabile! Gente ospite nella mia Italia si permette di occuparne una piazza, per bivaccare e predicare la guerra santa e… Eppure, mi ammoniscono la raccolta differenziata e la domesticità aperta, mi ammoniscono la bambina con il suo sorriso lungo come l’equatore, e una voce insieme stentata e stentorea: parla di diritti, di lavoro, di legalità, sai quanto queste cose mi scaldino, e sono combattuta, puoi immaginartelo, fra l’inaccettabile occupazione e l’inaccettabile unità che questi esprimono. Sto sospesa a questi accenti imprevedibili, stupita che discorsi a me così cari siano rafforzati in questo italiano rinato.

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*

Le sedie sono disposte ordinatamente in circolo, lo seguo e mi ritrovo così, senza contrasti, oltre il muro. Dentro, un baracchino di bevande e una gru in legno, sulla quale faccio appena in tempo a scorgere alcuni biglietti: «A mia madre!!! 22 giugno 2006 – 22 giugno 2011. Non ho ancora pregato sulla tua tomba!!!», «Come in Egitto, come in Tunisia, sarà la piazza a cacciarvi via!», «Finirà la lotta per i permessi, continuerà la lotta per i diritti di ogni uomo e donna», perché il biglietto seguente, «Jimi sindaco, Haroun prefetto, Rachid vice questore!» mi dà l’istantanea di questa bella città italiana (Bergamo? Verona?) governata da una simile manica di estranei, gente con idee così lontane dalle nostre, gente che... Una voce mi blocca la ricerca di contrasto, perché è una voce italiana. Che ci fanno italiani qui in mezzo? I soliti coglioni, i soliti deboli! Guardo le facce attorno, sì parecchi potrebbero essere italiani, si vede dai vestiti, dagli occhi, dai modi. E questa ragazza, non la vedo ma è certamente italiana, con una voce timorosa legge un testo che ha un ritmo familiare:

«Io non dimenticherò mai i comizi ai quali ho partecipato di persona. Volti sorridenti, buoni, che mi accolgono e chiedono com’è andata la mia settimana, con una schiettezza e un’umanità che mi ritornano familiari. Mani abbassate a mostrare la loro normalità; voci che lanciano slogan di pace, più conviviali per le cadenze insolite.

So che neanche i politici più stronzi, che promettono severità per poi lucrare sulla clandestinità, possono più sparare che li arresteranno tutti o li respingeranno a cannonate: ne arresteranno qualcuno, qualcuno morirà in carcere o nei cie, e qualche italiano dirà che se l’è meritato. Non so come si possa meritare di morire d’asma, ma El Hadj non aveva rubato, ucciso, stuprato: aveva solo perso il permesso perché licenziato, dopo anni di lavoro regolare. Un quasi cittadino.

Intimiditi come siete dalla paura di andar contro corrente, di apparire deboli e privi di vuoto nazionalismo, non capite o non volete capire che qui è in atto la solita storia del mondo, i poveri finiscono per strada e vedono quanta ricchezza finisce nei cassonetti dei ricchi.

Abituati come siete al doppio gioco, sputate sugli uomini in arrivo ma vi fa comodo il loro lavoro per reggere il nostro paese di senza midollo, e non penso ai “non abbastanza umili per” rinnegare le proprie aspirazioni, ma ai non abbastanza coraggiosi per riprendersi la possibilità di quelle ambizioni. Doppiogiochisti, fate i duri e predicate un amore discriminante verso il prossimo (“no, non questo, il prossimo; no, questo no, quello dopo…”). Doppiogiochisti, dite che la pagliuzza nell’occhio altrui è una trave, per nascondere il marcio del nostro modo di vivere.

Accecati come siete dalla miopia, vi beate di quello che i paraocchi vi lasciano vedere, tessete sistemi di ragionamenti sull’unico grado dei 360 che intravedete, e digrignate i denti se qualcuno vi suggerisce che un grado non è il mondo.

Non capite o non volete capire che qui non è in atto una guerra di religione, ma una disperata odissea della speranza, e che le religioni sono da contrastare tutte quando si sostituiscono a cuore e cervello dell’uomo. La guerra santa è quella che dovremmo condurre contro la religione quando sequestra l'uomo, quando è un prete che invita a lasciar perdere le inutili scienze, perché “la verità ve la dice solo Gesù”. L’odissea della speranza, invece, mira solo alla conquista di una dignità minima, e se sarà sorretta porterà finalmente all’annientamento del nostro modo di vivere sicuri e rabbiosi, di non divertirci ma dimenticare, di non informarci o fingere di farlo. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, il conformismo vincerà: saremo tutti uguali, tutti incapaci di collegare due eventi e trarne una conclusione libera; magari studieremo, ma non saremo capaci di applicare il senso di una cosa studiata alla realtà, e riconosceremo un genocidio solo se ci sono ebrei e tedeschi. Vincerà la diseguaglianza benedetta e distruggerà il mondo che vorremmo costruire, anche se con questo sistema di soprusi in giacca e cravatta si è già distrutta la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza moribonda.

Proprio perché non è mai esistita che vagamente, ed è sempre derivata da scambi e incontri, la nostra identità culturale non può che morire senza l’apporto di uomini d’altrove, a cui non importa granché di cambiare il nostro sistema di vita, già è tanto se migliorano il loro. Insomma, io mica gliela regalo l’Italia: non si può regalare a nessuno ciò che non si possiede. Perché cos’è l’identità culturale? Uno di quei concetti sedativi, con cui riempiamo il nostro vuoto esistenziale: invece di elaborarlo traendone una morale reale, lo lasciamo montare in una paura di brace. Identità culturale, comunità nazionale, appartenenza religiosa, sono tutte cappe sulla libertà della vita, se strumentalizzate e armate. I nostri valori, poi, quali sono davvero? La povertà ai poveri, la ricchezza monopolio dei pochi, e così cultura, viaggi, influenza sulla realtà.

Sto dicendoti che vicino a me non c’è posto per i preti che ci trattano come animali in gabbia, per i campanili che spandono anatemi contro scienza, sessualità e logica. Sto dicendo che chi arriva in Italia ha diritto di credere al suo dio, anche se io credo non ne esista alcuno, e di avere il suo luogo di culto, aggiunto alle dodici chiese in ogni paesello. Ha diritto a praticare il suo culto e percorrere le vie del pensiero, arrivando spero non al campanile, ma all’università e alla strada; che arrivi anche a Dante, Michelangelo e altri luoghi comuni della nostra muta cultura a cui, privi di identità reale, ci tocca risalire per sentirci italiani. Mi riferisco a Gaber perché la nostra cultura è dannosa se sta lì inerte, se non esce dal baule e cammina in ogni luogo, fra gli uomini. Allora auguro a queste persone d’altrove di percorrere una strada ulteriore, che usi e vada oltre il Rinascimento, l’Inquisizione, l’Ottocento, le bassezze del Novecento e quelle di inizio millennio, in cui ad insegnare qualcosa agli altri non siamo stati certo noi, conigli e pecore.

Per tutto questo, liquidiamo presto i profeti di odio coronati di falsa cultura. Non dobbiamo combattere loro, ma ciò da cui si originano; per farlo dovremo arginare i soldati-automi da loro prodotti, con informazione e inflessibilità, ma sapendo che nemmeno loro sono il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo è molto più grande».

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In un getto di musica che innalza e fa prorompenti le ultime parole, mi trovo sbattuta di nuovo dietro il muro di spalle: la festa mi lascia indietro orgogliosa di sé, indipendentemente dal mio parere. Questo, e la parodia sprezzante del mio scritto appena udita, mi fanno arrabbiare più di prima, e la musica a maggior irrisione si fa intensa, ritmi equatoriali, la gente tutta in piedi… Scorgo due sagome, due donne nere: una più bassa, con una veste e un copricapo rossi bordati di ricami dorati, l'altra, di una snellezza imponente, porta un abito nerissimo e un turbante con costellazioni di paillettes qua e là. Le donne sono al centro del cerchio, perdono il controllo del corpo che si fa figura del tamburo e della terra, ogni muscolo lancia la sua sciolta percussione e mentre si muovono tutte, mentre vola via il turbante rosso, si rivolgono espressioni caricaturali in successione, terrore, gioia, stupore. Ma inaspettato il tempo si ferma e imprime il momento su di me, come quando ero in battaglia, sai quei momenti in cui tutto trattiene il respiro: la ragazza snella è ferma, congiunge le mani sul ventre, alza il capo largo sul collo esile, mi vede, mi punta, lentamente scorre verso di me, tutto nell’unico fotogramma. La ragazza è un cipresso scuro che non muove passi, scorre, e tutto il circolo dietro è proteso verso la sua forza snella e la esalta, esaltato dall'alone che scorre attorno a lei e mormora: «Io ti vedo, gli altri no, e ti conosco».

«Come non mi vedono? Mi ignorano, direi piuttosto... Ma forse lei non è pratica della lingua. E come fa a conoscermi?».

«Ho letto i tuoi libri, tutti», e in un respiro, aggiunge: «Anche gli ultimi. Seguimi Oriana».

 

**

La donna mi scivola a fianco lanciando scintille di forza. Mi volto e vedo il tempo rianimarsi, insieme alla mia confusione; nella mia vita non sono mancate le situazioni misteriose e avventurose, lo sai bene, eppure stasera c’è nell’aria qualcosa di fremente e cupo. Ci inoltriamo in una viuzza che è una colonia straniera su suolo italiano: cucina pakistana (che profumo dolcissimo!), kebap turco, poi pakistano (manca quello tunisino, e poi?!), ristorante cinese (fritto), cucina marocchina e italiana (figurarsi!). La giovane donna si arresta ad un incrocio e volta il capo verso una piccola piazza (forse siamo in una cittadina toscana…): un campanile romanico svetta da un abside in mattoni cotti, abbracciato da una cancellata antica a forma di semicerchio, ad un lato della quale sta una fontana che riluce biancore nel buio, e i suoi tre mascheroni soffiano a rinfrescare la sera d'estate (è estate, non sento il caldo sulla pelle). La piazza è chiusa da alti palazzi medievali, e oltre una terrazza verdeggiante si scorge una gru blu e gialla. Siamo sedute ad un tavolino affianco alla fontana, ci fa compagnia solo un ombrellone chiuso. Anche per la solitudine scura le parole lente mi fanno sussultare: «Come può una donna, dopo aver scritto bei libri, viaggiato e molto amato, scrivere infine quello?». Il tono della giovane è granito, come la sua fronte sugli occhi perfetti e nitidi. Non c'è accusa nella voce, ma stanchezza.

«Cos'è quello?».

«Quello. Quello con cui hai cominciato con l’odio».

«Ho solo avuto il coraggio di scrivere cose che molti, moltissimi pensano, ma sono troppo deboli per dire»; resto neutra nella postura e nel toni, anch’io sono granito.

«Non ne dubito. Ma il tuo non è coraggio. Io respingo i tuoi argomenti e le tue tecniche perché sono non veri e opachi, hanno secondi fini per niente nobili».

La mia rabbia e il mio orgoglio divampano nonostante la coltre di granito, si lancerebbero contro questa donna sicura, che dipende tutta e solo da se stessa. Ha la mia ammirazione sotterranea, ma la vera battagliera sono io. Penso allora alla strategia per una vittoria su tutti i fronti, ma la voce cantilenante mi arresta senza mosse: «"Mi chiedi di parlare, stavolta. […] E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. “Vittoria! Vittoria!”. Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. […] E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza"».

Cita a memoria l'incipit dell’articolo? Ne sono lusingata, sai che apprezzo queste cose, ma insieme mi sorge un timore...

«Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere della rabbia, della violenza, e il loro monopolio. Certo non si può condividere, se qualcuno ha davvero festeggiato la morte. Ma tu parti dalla tua rabbia ed è l’unica che vedi: è la tua guerra santa, fatta di una sola rabbia costruita, dalla quale togli voce a chi sta oltre. Ma io so che ci sono mille rabbie vere, e so che il tuo elenco di fatti e motivi per rendere legittima la tua rabbia è molto più corto del mio. Io ho tanti fatti quanti miliardi di persone che non conosco, o quanti le mille facce che conosco e ho perso, o come le centinaia di fatti gravissimi che ho studiato, intendo fra altre le azioni riprovevoli di quella nazione che esalti, in quello, come esempio da seguire».

Ora sarà travolta, questa… questa, ah! Non so nemmeno come chiamarla, non si lascia dare nomi, no, mi sfugge! Sai quante cose posso ribatterle, immagina come la zittirei! C'è un solo problema: quelle di questa donna non sono parole, sono un unico fiume che scorre naturale, senza appigli, né autore o destinazione. Non aprendo neppure la bocca, la sua voce bassa, roca, avanza con minima variazione di tono, e il suo italiano appena incerto è avvincente: la parola, soppesata un attimo dal controllo della non maternità, ne riceve slancio e imprevedibilità. Il suo è un racconto fluviale e sai quanto i racconti mi intrigano, mi avvolgono... La tempesta allora si carica, mentre il fiume scorre e si ingrossa: «La violenza non mi piace, non dovrebbe piacere a nessuno, soprattutto se nasce da una rabbia costruita con secondi fini. Ma mi chiedo invece come chiedere agli uomini di ingoiare la loro rabbia, quando è vera e trasparente. Io parlo della loro rabbia ora, che non chiamo giusta o santa o sbagliata. Chi sono per chiamarla? Non parlo di me, ma di un uomo che conoscevo, ad esempio: si chiamava El Hadj, la sua storia non puoi averla sentita da dove stai. El Hadj lavorava in Italia da ben 15 anni cioè una vita, era diventato regolare; lo dico perché per molti questo marchio, 'regolare', cambia tutta la qualità di una persona. Lui però ha perso il lavoro, quindi il permesso di soggiorno; una sera è stato fermato dai carabinieri e rinchiuso in caserma: da quella caserma non è più uscito, è morto di asma e di rabbia malevola, con secondi fini. E io penso, quella legge è stata fatta da uomini, e poi da uomini di giustizia è stata annullata, insomma: El Hadj non doveva stare in caserma o in carcere, perché il fatto non sussiste. Allora, per che cosa è morto? Non per una colpa, non come punizione per un gesto cattivo: è morto solo perché è stato promosso a legge l’odio, il rinchiudere un uomo solo per la sua provenienza. E questa ingiustizia, che ha subito uno e che possono subire centinaia di migliaia di El Hadj, chi la capovolge e ripara? La non uguaglianza che succede ogni secondo non legittima violenza da chi violenza subisce a ogni sguardo che alza? La rabbia più giusta di chi è? So che io non ho il monopolio della rabbia e nessuno deve averlo: ti impedisce di vedere le rabbie enormi che crepitano nel mondo, davanti alle quali la tua piccola si scioglierebbe come una bolla di sapone. E intanto i torti sulla terra salgono e diventano montagne, perché nessuno se ne fa carico e molti li aumentano per sfruttarli. Un giorno, però, io credo che i torti ammassati in una piramide di pietre cadranno e pioveranno su tutti, perché quelli che subiscono l’ingiustizia sono uomini schiacciati e non pietre. Infine, non esiste rabbia razionale: ciò che elimina un distacco non è ragionamento, è impulso. L’impulso può avere la sua bellezza, ma non è ragione, non è verità».

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***

Ancora avvinta dallo srotolarsi del fiume, che si sospende quando incontra un’insenatura, sussulto vedendo di lato a me, in piedi, un ragazzo dai tratti particolari, non capisco da dove arrivi con quel largo sorriso un po’ messicano (sai quanto odio i messicani!), un po’ orientale. Accende una candela rossa sulla tavola, fra me e la giovane donna, e se ne va.

«Lui si chiama Rajat. Dall'India è arrivato in aereo fino a Mosca, e poi fin qui a piedi, in anni di cammino».

Io vorrei, ammetto che vorrei fermare Rajat e chiedergli la sua storia, sai che amo le storie, ma il fiume ha già sorpassato d’impeto la curva: «"Ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova […] in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: “Down! Get down!”. L' ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita!"

Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere della guerra. Tu hai scritto che la guerra su di te ha un fascino forte, ma quelle sensazioni avventurose per te sono solo una parentesi di vita: anche un bambino sentirebbe che è feroce esaltarle, guardando da dentro gli occhi di chi è tutti i giorni in una ‘tragedia monotona’, senza gloria. Non esiste la libertà di amare la guerra, perché questa preme sofferenza nella vita degli uomini, soffoca non chi rischia e sceglie di rischiare, ma chi muore e vede morire tutti i giorni, chi ha il terrore della fame, del dolore ogni giorno, addosso e nel respiro: lo puoi sentire? Tu hai visto la guerra dalla tua posizione di inviata, libera, ma la guerra è di chi la subisce in catene e non può uscire per sentirsi vivo, di chi vive con la morte sempre dentro e addosso. Le tue parole sono un insulto crudele».

Scuoto il capo con sdegno per riprendere la mia legittimazione, per ribattere a queste scempiaggini, ma un serpente di fiume mi stringe lento, in un lento cerchio che mormora: «E ti sei stupita che la gente si buttasse dai grattacieli, ma avrai visto chi per scappare da bombardamenti e saccheggi, perde la vita, o le famiglie in Vietnam che si sono suicidate per sfuggire alla fame del dopo guerra. E non puoi non vedere che la nostra immigrazione è un gettarsi da un grattacielo dove arderemmo vivi come gli alberi, mentre una speranza è forse nascosta nel vuoto, nel deserto e nel mare. Dici: “Io credevo di aver visto tutto alla guerra. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata”. Questo non è una prova di esperienza, è una confessione di una tua incapacità: se sei vaccinata non hai imparato dalle sofferenze, e le usi come arma invece che come chiave e difesa. L’11 settembre deve essere peggio di altri attentati, perché tu come un dio di parte lo affermi, ma è stato orribile come gli altri e tu sei solo una donna. Noi invece siamo popoli interi e per questo ognuno di noi è un popolo di testimonianze. Dici che non hai mai visto più di 500 morti per combattimento, ma questo non vuol dire che non ce ne sono mai stati, e se ne sono morti 3000 in una volta è più ingiusto che se ne muoiono 100 tutti i giorni, di ‘nascosto’? Anche la conta e la bilancia dei morti è una cosa indegna».

 

Mi alzo di scatto buttando a terra il serpente di fiume; punto gli occhi in quelli della donna, ma li trovo calmi e dondolanti, e in essi mi specchio. Chiudo gli occhi, li riapro: lei è lì con gli stessi occhi. Mi siedo, ma non pensare che mi arrenda, no! Voglio vedere dove andrà, voglio sgominarlo questo fiume che sembra non voler andare da nessuna parte. Il tuono e le nubi si arrotolano su se stesse, dico solo: «Io non conto i morti. Era per citare dati precisi».

«I dati precisi sono quelli che vedono tutto e lo mettono nel quadro generale, non quelli che contano i morti di un combattimento come esempio di tutto. Ma c’è di peggio: fingi di stupirti che alcuni soldati americani in Vietnam diano sepoltura ai cadaveri degli altri, dopo un combattimento. Vuoi che sia esempio di compassione, ma non lo è, li hanno uccisi loro quegli uomini, come falchi! E peggio ancora, scrivi che gli Stati Uniti sono coraggiosi a fare la guerra, “per punire i responsabili”, ma è una cosa falsa: non voglio dire che la guerra punisce altri insieme, ma che non prende per niente i responsabili. Sai che nessuna guerra ha davvero moventi nobili, e allora mi chiedo come puoi essere così amica della guerra e prendere la responsabilità di scriverlo. Ti disegni la figura di donna eroica che vede la guerra come un’amica scorbutica, necessaria: così non usi il sangue dei morti per barrare ogni odio e violenza che possono portare alla guerra, ma ti nutri di quel sangue. Allora c’è una sola spiegazione: tu i morti non li hai visti, non importa quanta esperienza hai, non hai sentito il dolore, la paura che punge, la follia negli occhi. Hai sentito solo la tua esaltazione».

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Sai quanto è complesso il mio rapporto con la guerra, non riassumibile in quattro parole. Per questo, le nubi si assottigliano, e il tuono, sapendo di non poter fermare il fiume, si fa fulmine per illuminarlo con la sua forza. Quando sto per sfoderarlo, però, mi anticipa un uomo, robusto e con le gambe arcuate, che avanza verso di noi nel buio ormai fondo. Regge qualcosa, ma mi distrae dall’indagine il suo sguardo, incredibilmente severo. Non dice nulla, ma percepisco le sue parole abituali di persona comunicativa (strano no? Ho grande intuito, ma di queste percezioni così precise non ne ho mai avute!). L’arabo appoggia un vassoio sul tavolo: due bicchierini stretti per il tè alla menta e una teiera stanno al centro di un piatto, ricolmo di datteri e biscotti. L’uomo se ne va, la donna mi versa un tè profumatissimo con pinoli sospesi; insieme al fluire lento del tè nel bicchiere, rifluisce il fiume: «Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere degli altri, perché se non ti immedesimi non troverai mai le tracce della verità.

Molte questioni complesse non le guardi, le cancelli solo con la rabbia che ti prende appena ti toccano. Ma una persona che si arrabbia solo, che non usa il cervello e il cuore, dove ha nascosto la sua umanità? Tu dici: “Che schifo!”, o “Vergogna!”, o “Scimunite!”, e il tuo essere umana è tutto lì. Sull’azione dei kamikaze, così difficile da capire da un punto di vista sociale e umano, hai da dire solo “mi sono sempre stati antipatici”. Ma è inutile, niente cambia se a te stanno antipatici, niente migliora! Mi impressiona che per te questo è il punto, spargere odio e antipatie. Non ti importa capire perché esseri umani fanno atti così innaturali, quindi non vuoi lasciare un segno nel mondo e in te, cercando la verità. Tu vuoi produrre rabbia: non so se così combatti la paura di perdere benessere, e credi di mantenere equilibrio e privilegi, ma finisci per essere solo sdegno presuntuoso».

La giovane donna per la prima volta abbassa gli occhi lasciando i miei sbarrati, li affonda nella candela rossa tondeggiante, e quando li rialza sono carichi di fuoco: «C’è una frase che amo più di tutte quelle che ho letto, dice: “Il problema non è se avremo o non avremo le forze, il problema è se consentiremo a noi stessi di lasciare questa donna qui. Questo no – allora le forze bisognerà trovarle”. Le forze si trovano, è questione solo di priorità. L’unico, l’unico problema è che la priorità di tanti uomini non è capire e migliorare le cose per tutti, e vedrebbero che è possibile con un po’ di eguaglianza, ma odiare, perché l’odio è una matita facile che dà tratti a noi stessi, contro gli altri oltre la linea».

Il ritmo delle parole è conciliante, ma le disquisizioni esistenziali non fanno presa su di me: la sua frase preferita, le sue conclusioni non parlano di me. Ma la donna ha un lampo fulmineo negli occhi tanto lucenti da parere bianchi, ha colto qualcosa?: «Così è l’esibizione che domina qui. Anche quella serve solo a darsi un volto, che però è un calco».

«A cosa alludi? Io odio l’esternazione!», subito mi accorgo di averle dato del “tu” e me ne dispiaccio, che debolezza!

«Parli sempre della tua malattia non in tono discreto, per informare o essere vicina a altri, ma in tono singolare, epico; fai della tua malattia l’occasione delle occasioni per disegnarti donna di ferro. Ma è chiaro che chiedi approvazione e adorazione nel momento in cui prendi quel tono, e per questo duramente rispondi a chi ironizza non sulla tua malattia, ma sul tuo atteggiamento di guerra. Vuoi mantenere quel disegno, e il monopolio di ogni senso, della vita, della religione, dell’uccidersi, del giornalismo, della politica, ma hai dimenticato che il mondo è vario quanto le persone».

«Lo so bene, di essere un granello di sabbia. Ma la mia visione è più lucida e coraggiosa, ecco tutto», piccolo fulmine, perché così piccolo?! Insegui quel fiume, sfodera la tua luce!

«Per essere lucida la tua visione ha bisogno di immedesimazione, e non per buonismo, ma perché la verità non è vera se non è di tutti. La verità non è un pezzo di carta unico, è piuttosto una strada infinita, che però è progressiva e puoi camminarci dentro; per farlo, ci sono tante false strade da evitare, tutte le grosse non verità costruite con cattive intenzioni, e tante armi, come l’immedesimazione, l’informazione, la compassione.

Scrivi che gli Stati Uniti dovrebbero vietare a tutti gli islamici certe azioni e facoltà universitarie. Vuoi far credere che questo avrebbe evitato la strage e ne eviterebbe altre, ma al contrario queste nascono perché pensieri e leggi fanno “di tutta l’erba un fascio” e danno fuoco ai contrasti. Ti chiedo: se gli Stati Uniti facessero una legge così, che comprendesse anche gli italiani mafiosi, diresti che tu sei l’eccezione perché non ti sogni di fare stragi? O ti accorgeresti che ogni inclusione che si basa solo su nazionalità, religione, opinione politica, è ingiusta e non vera?».

«Penserei che se sono discriminati, gli italiani han fatto qualcosa per meritarselo: il rispetto si guadagna, non è un regalo!».

«Ma non è veritiero ed è opaco anche questo, il tuo scrivere del rispetto e dei diritti. Tu hai dato un diploma di bontà all’idea pericolosa che i diritti e il rispetto sono merci di scambio. Invece non c’è giustizia in terra se non c’è rispetto e diritti a priori fra gli esseri umani. Dici che non ha senso rispettare chi non ci rispetta, ma è il contrario, il rispetto si nutre solo del rispetto: chi non ti rispetta fa lo stesso sbaglio perché si sente non rispettato, e così in un circolo senza fondo o colpevole. Solo il rispetto a priori può fermare la strage, e non è un rispetto ingenuo che giustifica, è sulla base dell’umanità degli esseri umani, tutti con una razionalità e un sentire. Un uomo resta sempre un uomo e merita certi diritti solo perché è umano, non dovrebbe mai subire quelle violenze sulla sua vita. Questa è la sola regola che può far vincere giustizia e pace, mentre se non c’è, la dignità della persona subisce valutazioni, interpretazioni, leggi che possono arrivare a essere criminali, come nei regimi, come per El Hadj. Tu invece hai messo un timbro di lode per questa idea facile come un fucile, e scrivi che cercare di capire vuol dire perdonare o cancellare e lasciarsi dominare. Dici che chi festeggia per l’attacco alle torri non merita di essere definito ‘uomo’, ma non è così: merita che si capisca perché lo fa e si contrasti il suo errore. Da questo fare mercato dei diritti nasce il più assurdo dei tuoi argomenti non veritieri: noi migranti non abbiamo diritto a protestare, perché tu nei nostri paesi non potresti fare molte cose. Fingi di non sapere troppo: che poter protestare e esprimere la propria idea sono conquiste di questa civiltà che esalti; che sono anche diritti umani e noi siamo umani, così simili a te che per scrivere queste cose devi rifiutarlo; che protestiamo per uscire da quella illegalità che tu condanni; che guardare indietro sulla via della giustizia, invece che avanti ai paesi con più diritti, è una sconfitta della civiltà; che i migranti fanno bene a chiedere quei diritti, e la soluzione non è negarli qui, ma lottare perché si affermino ovunque; che i diritti si danno non per averli indietro, ma perché è giusto, e se baratti un diritto vuol dire che non credi nella sua importanza, nel suo senso, ma per te è solo un oggetto da lodare o vendere».

«Ma io ho fatto la Resistenza, come potrei non credere nella giustizia dei diritti umani?!».

«Fra i diritti umani c’è il diritto all’uguaglianza e c’è il diritto alla libertà».

«Guardi, giovanotta, forse non ha letto così bene i miei ultimi scritti, perché le parole più ricorrenti sono appunto libertà e uguaglianza. Per questo esalto gli Stati Uniti, fondati su questi principi…».

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La donna estrae dalla sua larga sacca azzurra un plico di fogli: è una stampa sgualcita de La Rabbia e l’Orgoglio, tutta sottolineata e postillata. Sarei tentata di ricordarle che ho intentato parecchie cause contro la diffusione illegale del testo, ma non voglio uscire dal dialogo ora: la tempesta è affiancata al fiume, riesce per poco a afferrandolo con dita d’acqua, ma il fiume fa il suo corso: «Ho letto bene, e non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere della libertà e dell’eguaglianza, perché passi sotto silenzio che niente uccide uguaglianza e libertà come il razzismo e l’odio. Se provi a metterti oltre i tuoi vetri però non è più possibile silenzio: immagina di non poter fare ciò che hai sempre sognato solo perché sei nato in un luogo bollato stato-canaglia da uno più forte. Dov’è la tua libertà? E la tua uguaglianza, è sulla base del colore della pelle, del reddito? Non ti andrebbe bene se tu fossi oltre, fuori, e se la tua libertà fosse cancellata non per la sicurezza vera di uomini, ma per la sicurezza di pregiudizi e affari. Molti mi dicono che la domanda non se la fanno, perché loro sono nati qui e questa sorte buona dà diritto a non pensarci; allora a me viene da giudicare, l’umanità in questi uomini è sparita, sono regrediti e l’Occidente non è molto meglio del Medioevo che critica. Si è voltato ed è tornato indietro, perché i diritti esistono solo se sono condivisi, e non esistono se non sono di tutti, se tutti non si occupano che tutti li abbiano.

“It’s the way the people regard the theft of the apple / That makes the boy what he is”: forse il ragazzo non è ladro solo per come la gente lo guarda, ma di certo la gente non aspetta che rubi per guardarlo come ladro, se gli stati approvano leggi come quella che ha ucciso El Hadj, che uccidono l’umanità di uomini ogni giorno che restano valide. Guardare agli islamici come persone pericolose non può che peggiorare le cose, e non c’entra niente la debolezza; la vita non è un film americano, vince non il più duro, ma quello che dice “Fermi tutti” e fa buttare le armi. È questione di priorità. La priorità per tutti è che i conflitti interraziali, interreligiosi si trasformino in confronti veri; il confronto non è facile, ma affronta solo i problemi reali, mentre il contrasto aggiunge problemi che non ci sono. Ma per te la priorità è che gli arabi restino brutti e cattivi per poter dipingere gli occidentali, con esternazioni e tratti, buoni e bravi».

«La priorità è non perdere noi stessi. La guerra non si sceglie, ci si ritrova in mezzo! Noi non stiamo attaccando, ci stiamo difendendo, e non ci si difende dagli attacchi terroristici con filosofia, disquisizioni e sottigliezze esist…».

«Ti fermo», dice in un sussurro la donna, e sai che nessuno ha mai potuto interrompermi, nessuno! Ma nel suo sguardo ci sono monoliti da leggere e il fiume che al lampo ribatte il suo stesso abbaglio, al tuono la sua scossa: «Sai bene che non sono cose astratte e piccole. È il timone della nave: se la nave è in tempesta non si lascia il timone, che è ancora più importante. La priorità cos’è? La libertà e la giustizia, per tutti. Sì, per il ladro e il derubato. Ma tu, in quello, sei così parziale e non onesta…».

«Lei sta esagerando, non…».

«Non sei onesta se elenchi le abilità americane di Bin Laden, ma non dici con chi Bin Laden fa affari. Non sei onesta se ammiri come esempio di unità nazionale lo stringersi attorno a un presidente alcolizzato e senza scrupoli come Bush, piccolo ingranaggio nella macchina degli interessi. E soprattutto, la guerra, di cui ho parlato».

È il silenzio. In questa piazzetta, sai come amo quelle fiorentineggianti riparate dai turisti, non si ode che il vento e l’ultima parola risuona leggera, fatta di veli. Ma tutto questo sta durando troppo, il mio tuono si dibatte per parlare della guerra terribile che odio, o no, ma il fiume è implacabile: «Scrivi che l’Italia deve prendere esempio da questa nazione, ma è un controsenso ridicolo un’unione fondata sulla lotta contro l’altro, attorno a un presidente affarista. Elenchi i difetti dei politici di qui e hai ragione, ma una cosa negativa non significa in automatico il suo contrario: non è perché le manie separatiste della lega sono ridicole che la soluzione giusta è un’unione nazionale sul nulla o sull’odio, al contrario questo “ideale” è ormai vuoto come il separatismo padano. Insomma…». La donna trae un lungo sospiro, un risucchio del fiume prima di un’ansa acuta; beve lentamente dal bicchiere vaporoso e il suo sguardo mi induce a fare altrettanto: «Mi sono chiesta se con quello hai fondato un modo di pensare o se l’hai cavalcato: trovo in tante persone gli argomenti e le tecniche che tu hai usato per portare avanti cattive intenzioni. Sono cattive intenzioni semplici: vuoi creare contrapposizione e odio, perché in questo trovi la tua ragione d’essere; vuoi essere scelta e adorata come modello e guida culturale; vuoi guadagnare molto e per questo è stato confezionato un prodotto. In Occidente le regole di mercato creano tutto, così sei andata incontro a una domanda, quella dell’italiano senza risposte che vuole dare fondamento alla sua rabbia, alla sua ricerca del capro espiatorio, e può farlo con personaggi di cultura».

«Ah! Respingo in toto queste basse accuse! L'han scritto tutti che a me non importa dei soldi! È chiaro, lei ne sa poco…».

«Io non accuso, io ragiono. Ho letto alcuni fatti sul tuo comportarti riguardo ai soldi, mentre chi scrive che non te ne importa lo fa solo su parole che dici tu stessa. E poi i tuoi intenti li raccontano le tecniche che usi. Ad esempio, usi con opacità e disonestà l’esternazione di forza e autorità, come se grazie a queste tu rivelassi le cose per come sono, finalmente arrivi tu e dici: “Ora basta buonismi, io faccio sul serio: io sono coraggiosa e ho visto la guerra, quindi quello che dico è vero per forza”. Per rafforzare questo usi contrapposizioni dure e frasi da Hollywood…».

«Addirittura?! Me ne faccia un esempio solo!».

«”I can allow myself to be exhausted not to be defeated”. È uno slogan senza un senso. E grazie a questa tecnica, oggi non si può contestarti: è passata l’idea che queste cose sono vere perché hai il coraggio di dirle, e chi ti contrasta le vuole nascondere per debolezza e convenienza. Invece io ti contrasto perché i tuoi argomenti sono falsi e disonesti.

Usi con opacità e disonestà la tautologia: pieghi i fatti a ciò che vuoi dire, invece di usarli per scoprire la verità. Affermi cose come fossero verità di un dio: sostieni che gli americani si stringono attorno alla bandiera in modo spontaneo, “in America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi”. Sai bene che il consenso è organizzato senza armi e dittatori, con stimoli e condizionamenti continui, ma tu vuoi per forza fissare significati esclusivi degli Stati Uniti. Il tuo essere parziale è dimostrato allora, prima che da ciò che scrivi, dal modo in cui lo scrivi, dal voler affermare una cosa a tutti i costi senza discussione o analisi. Così attacchi e svilisci i tuoi operai italiani, perché in piazza hanno solo bandiere rosse, e non il tricolore: a te importa non capire perché loro si sentono rappresentati da quelle bandiere, da quei valori, ma dar loro contro, ribaltare la realtà per metterle in mano le tue idee. Lo fai con superficialità e il mondo deve chinarti la corolla, come quando hai detto che con gli anarchici di Carrara avresti fatto saltare una moschea, ma questi ti han ricordato che non puoi parlare per loro, dire che volete le stesse cose, se non chiedi, non ascolti. Un italiano deve vergognarsi perché non sventola il tricolore, dici, ma tu dovresti riflettere sul perché non ha motivo di farlo. Questa è la vergogna».

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Al calar del fresco, di cui mi accorgo perché la donna si avvolge in uno scialle azzurro, mi si stringe la gola. Mi vedo, e sai quanto non mi piace, non a combattere un’avversaria, tempesta contro fiume, ma rintanata faccia a questa entità che fluendo dice altre cose di granito: «Usi con opacità e disonestà categorie false, che creano la falsa solidità del tuo discorso. Cancelli l’accusa di razzismo scrivendo che non critichi una razza, ma una religione; lo scrivi così, dando per scontato che il lettore non sappia cos’è il razzismo, che può essere a base religiosa, culturale, linguistica... Sei razzista nello sguardo, non solo riguardo le razze: tu giudichi tutti i musulmani su pregiudizi, non su fatti oggettivi. I tuoi ammiratori direbbero che vogliamo zittirti, ma sono loro che non sanno cosa vuol dire criticare: la religione va criticata quando impone comportamenti che opprimono, non per dati fuori dal contesto e generalizzazioni. Ad esempio ancora, scrivi che l’immigrazione in America è stata del tutto diversa, perché c’era spazio e perché era richiesta. Dovresti paragonare l'America all'Europa, non all'Italia, ma in ogni caso sai bene quanto razzismo ha colpito anche gli italiani. E non è stato giusto: è vero che molti cadevano nella delinquenza, con carceri piene di italiani, ma non per cattiveria genetica, erano poveri e senza diritti. Vuoi ignorare studi che dimostrano il contrario, ma se ciò che scrivi fosse vero non dimostrerebbe il contrario, cioè che noi immigriamo con prepotenza. È prepotente voler vivere? Io non vivo a discapito tuo, io cerco di sopravvivere, al contrario del “solo i più giovani e i più forti ce la fanno”, legge della giungla che comanda negli Stati Uniti e qui, e che ti piace. Chi è prepotente davvero? Io non voglio essere il leone che mangia le gazzelle; io voglio convivere, vivere. La prepotenza non è nell’immigrazione, ma in chi ci disegna mostri non umani.

Guardi le cose come se tu fossi il mondo intero ed esse fossero interne a te, così scrivi veri insulti: critichi chi vuole andare in pensione a cinquant’anni, ma non vedi oltre il tuo lavoro, non vedi chi in fabbrica ha compiuto lo stesso gesto sai quante volte? 60 in un’ora, 480 in un giorno, 2400 alla settimana, circa 120.000 in un anno. Dopo trent’anni e lo stesso gesto per almeno tre milioni e seicentomila volte, puoi capire che non importa altro che di smetterla e andare a vivere.

Usi con opacità e disonestà anche i singoli fatti: li usi come grimaldelli, fuori dal contesto e dalle statistiche che lo indicano come fatto raro, e non come l'esempio in cui vuoi trasformarlo. Il fatto singolo lo fai eterno, a voler fissare una realtà che non può essere più contraddetta: gli antiamericani allora devono ricordarsi che gli ideali dell'illuminismo sono nati negli Stati Uniti, e non criticare tanto; quindi, per un merito antico non si deve vedere quel che accade oggi. Al contrario, quel fatto vero rende più gravi le colpe americane di oggi: mentre molti paesi che disprezzi camminano da un punto arretrato sulla strada dei diritti, gli Stati Uniti, avvantaggiati da una partenza così bella, vanno indietro. Ma con questo modello le persone oggi ragionano. Una tua ammiratrice, per il fatto singolo che alcuni musulmani han fatto saltare le torri, mi accusa di essere solidale coi terroristi sempre!: se manifesto solidarietà a altri musulmani, se voglio capire perché è successo quel fatto, se critico il razzismo nei confronti dei musulmani, se mi batto per i diritti degli immigrati, che poi sono diritti umani, e non degli italiani. Questo è grave, e l'hai creato anche tu».

«Non mi piace il suo tono d’accusa, signorina. Se permette, dopo mezzora di sua sfuriata, mi prendo il tempo di dirglielo».

«Analizzo solo le tue parole stampate; se questo non è nella tua idea di libertà e non hai di che rispondere, puoi zittirmi».

Il punto d’arresto mi spiazza, come il silenzio sceso di nuovo in questa cornice pseudotoscana (alcuni dettagli mi riportano alla prima ipotesi, siamo in una città lombarda, Brescia?). Sono presa da una strana sonnolenza, le mie nuvole si fanno basse, ancorate dalle impressioni del risveglio, la bambina, il presidio, questa donna-fiume... Il mio tuono si è disperso, il lampo prova a uscire elegantemente: «Posso concederle ancora qualche minuto».

«Tu non puoi concedere niente che non è solo tuo. I minuti non sono solo tuoi e neanche le parole di quello, le metti in comune scrivendole, con il peso che questo ha. Io non ho bisogno di concessioni, tu invece, inchiodata qui a ascoltarmi?

Allora, usi con opacità e disonestà affermazioni di tue “debolezze”, per far credere che, se il tuo giudizio viene da un atteggiamento opposto, non può non essere verità: dici che sei incontentabile, e se non critichi Giuliani è perché è davvero bravo; quando scrivi che cedi sempre alla pietà, ma per i kamikaze non ne hai, vuol dire che davvero non possono meritarla. Parli molto della tua partecipazione alla resistenza, come se per questo non potrai mai avere atteggiamenti fascisti; parli della tua partecipazione a mille guerre, come se questo annullasse l’accusa di amare la guerra. E così menti.

La rabbia poi è un tuo argomento, ma anche una tecnica: i continui insulti vogliono far credere che la rabbia spazza via le menzogne, i compromessi falsi, e più della ragione vede la verità. Così insulti le donne musulmane solo d'impulso, ammiccando al lettore: dai loro delle “Stupide... Scimunite... Minchione” per alcuni fatti (portano il chador, non sono libere, accettano che il marito abbia altre mogli), senza sguardo sociologico o analisi antropologica. Queste le fai sembrare sottigliezze inutili, invece che l’unico percorso per mettersi sulla strada della verità».

Le mie nuvole si stirano fino a sfaldarsi, tutta la tempesta si sta disfacendo; sono scoperta e ora sento il freddo della notte sul mio cielo senza nubi, rotondo tirato sotto le parole della donna. Il vento freddo mi avvolge, il fiume scorre, mi vorrei lasciar andare, ma no! Non posso! Sai che non posso, perché... Ecco l’ultimo salto del fiume: «Molti hanno scritto cose precise contro quello, sottolineato tuoi errori gravi e smontato le tue rabbie. Non li ho letti tutti, ma a me più degli errori tecnici interessa la loro causa, l’errore umano, capire perché una donna che ama la libertà non ama più l’uomo, di cui la libertà è attributo, e perché hai sbagliato a vedere e a indirizzare l’uomo, cosa che è tua responsabilità. Il tuo errore umano, infatti, dà esempio. Non sai, ma con molti oggi è impossibile parlare, perché fanno un’arma con le tue argomentazioni false, di pancia, respingono l’oggettività e la pertinenza come “pareri”. Per molti non dovremmo far altro che odiare i terroristi, e non vedono il pericolo in questo: pensano che avendo odiato quelli, non ci sia altro da vedere, capire, cambiare, e si esauriscono lì. Ci sono molti uomini che oggi come automi usano solo la tua logica illogica; anche se hanno studiato, abdicano alla ragione e ciò che leggono non lo riconoscerebbero per la strada, declinato negli uomini, nell'oggi. E ammassano come te, credendo che la massa di fatti che non c'entrano possa dare il senso delle cose. Ci sono davvero uomini che esaltano l’emotività e l’impulso come portatori di giustizia santa, e considerano l’informazione e gli studi approfonditi cose per buontemponi, che confondono, di cui loro non han bisogno perché hanno già un'idea della cosa. Mi chiedo in che modo, se non si basano su informazioni più complete possibile. Questi uomini hanno l’obiettivo fisso di screditare un mondo intero, stranieri, centri sociali, comunisti, pacifisti, con giudizi di rabbia e soggettivi che non c'entrano, ma che uno sull'altro per loro creano un edificio solido.

Per molto ho provato a capire il tuo errore umano. Poi mi è venuto in mente la tua affermazione sulla bellezza maggiore che vedi nelle moschee, e mi ha scioccato».

«Nemmeno un giudizio estetico mi concede, giovanotta?!», (neanche l'ombra di un tuono, solo un cigolio di pioggia cadente).

«Mi chiamo N'deye. Non si tratta di giudizio estetico. Solo lì ho capito che tu non hai solo intenti opachi, ma vuoi davvero far cameratismo, che il lettore impari i tuoi argomenti e le tue tecniche non veritieri. Mi sono resa conto che i grandi intellettuali solo altri e non per le tue idee in merito, ma perché chiudi la porta in faccia alle idee, non vuoi capire il mondo e spingere chi legge a farlo. Miri solo a reclutare chi ti segua e ammiri, col tuo linguaggio strafottente per dire che non hai peli sulla lingua e quindi sei veritiera. Ma tu non hai peli sulla lingua e non sei veritiera. Il linguaggio da strada, i proverbi banali ti danno solo la benevolenza che vuoi, ma niente oltre.

Allora ho capito. Noi non dobbiamo più badare agli uomini come te, che vogliono provocare una cosa facile come l’odio perché in più persone accendi l'odio più persone difenderanno privilegi e divisioni; dobbiamo badare a quelli che fanno la storia dei giorni, che lottano, che hanno in comune anche solo una cosa: la fede nelle persone».

«Perché allora mi hai portato qui, mi hai parlato? Per insultarmi?», ma ormai sto evaporando come le nubi in un cielo limpido di stelle.

«Ti ho parlato per dirti la nostra umanità, mentre tu, sopratutto nell'ultima parte di quello, hai tirato fuori il peggio della tua. Chiedi come facciamo a pagarci il viaggio se siamo così poveri, ma sai i sacrifici, i prestiti, il vendere tutto a cui ci pieghiamo per avere una speranza: tu prendi in giro la nostra sofferenza, e consideri tutti gli stranieri senza rispetto che sporcano città italiane. E allora ti ho voluto dire la nostra umanità, che è un fatto indipendente da te; dopo avertelo detto, nessuna discussione più con chi, come te, confessa il suo pregiudizio, dicendo che la nostra presenza ti allarma comunque, anche se nessuno vuol fare nulla di male».

«Ma non ha senso dire qualcosa, se non si vuole discutere, ascoltare...».

«È strano detto da te. Invece ha un senso, il senso di marcare un limite: devi sapere che non puoi andare oltre il limite della nostra umanità. Ma... – lo sguardo bianco luminoso mi trapassa – …senza sperarlo, vorrei che qualunque uomo ritrovasse la sua umanità con gli altri, fatta di razionalità e di compassione».

Alle ultime parole sfuma la piazza, sfuma la donna, sfumano il tè e la candela rossa, e mi accorgo che sono sfumati anche gli argomenti che di volta in volta avevo caricati per ribattere alla donna-fiume, così agguerriti, così fondati. Tutto sfuma in un tappeto grigio-nebbia che scorre, scorre e sto sfumando anch’io piano. Vedo un secondo oltre il fiume che scorre gli uomini che lottano, ci sono, ci sono di nuovo dall'inizio; spaventata, volto subito lo sguardo su di me, ma non ci sono.

SETTEMBRE 2011

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Nota bibliografica

Alcuni interessanti sugli ultimi testi della Fallaci sono raccolti sul blog Kelebekler, all’indirizzo www.kelebekler.com/occ/fallaci.htm. I più seri e interessanti mi sembrano questi:

-        Padre C. Curci, Fallaci odia e disinforma. In particolare: «Lei parla come una persona che abita ai piani alti di un grattacielo, vede e giudica le cose con la sua cultura di persona benestante del Nord. Non la sfiora nemmeno che altri punti di vista possano avere la stessa dignità culturale dei suoi. Il Sud è un'appendice, un incidente della storia da utilizzare per i propri interessi, al massimo per aiutare perché restino subalterni in eterno ai giochi economici occidentali. Noi missionari anziché al sesto piano abitiamo al piano terra, quello della gente comune. E ora addirittura stiamo emigrando nelle strade, dove cammina gente senza speranze e senza futuro degno di essere vissuto da esseri umani. E le assicuro che a leggere il mondo dal punto di vista di questa gente, si vedono cose in modo del tutto diverse dalle lenti di Bush che tanto piacciono alla Fallaci».

-        L. Andreotti, Il linguaggio della Fallaci, Deformazione e stravolgimento.

-        T. Terzani, Il Sultano e San Francesco.

-        S. El Sebaie, L’arte ‘fallace’ di cancellare la storia.

-        M. Martinez, Ferruccio de Bortoli rilancia il prodotto Oriana Fallaci.

Inoltre, su altri argomenti dell’articolo:

-        Cosa è successo a El Hadj: www.dirittipertutti.gnumerica.org/2010/12/13/cosa-e-successo-a-elhdj;

-        J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano 2010.

-        Qualcuno ha fatto la critica punto per punto all’articolo della Fallaci come la giovane donna del mio racconto, e l'ha messo online: www.iononstoconoriana.com/oriana-fallaci/35-oriana-fallaci/132-2001-l-eccessiva-deli%20catezza-di-lisa-maccari-e-miguel-martinez.html. È spiritoso, a volte un po’ gratuito.