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07
Maggio 2012

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Lavoro - non lavoro

A PARTIRE DALL’ART. 18

Il nuovo mercato del lavoro tra diritto ed economia

Antonello Baldassarre

 

La riforma del mercato del lavoro, su cui si discute in questi giorni nel nostro paese[1], merita una serie di riflessioni. Questo scritto vuole offrirne, in ordine sparso, alcune: che, sebbene sviluppate fondamentalmente su un piano normativo, ossia delle tecniche di regolazione giuridica dei fenomeni sociali, possano, al contempo, tentare di stimolare una discussione su una duplicità di piani – uno più specifico e legato alle tematiche gius-lavoristiche e giussindacali, l’altro più generale e riguardante i rapporti tra diritto ed economia – prescelti quali angoli di osservazione dei profondi mutamenti sociali ed istituzionali, verso i quali le democrazie occidentali sembrano, più o meno consapevolmente, essersi incamminate, a seguito della crisi economica e finanziaria del 2008.

 

1. «On the labour side, power is collective power». In questa citazione – che, in una saggio di qualche anno fa[2], Lord Wedderburn of Charlton, recentemente scomparso, faceva del suo maestro Otto Khan Freund[3] – è sicuramente racchiusa, con potenza immaginifica ed evocativa, la profonda verità che animò la storia del lavoro organizzato e delle sue lotte all’indomani delle rivoluzioni industriali, nei due secoli, e in particolare nell’ultimo, che ci separano da quello presente. Il percorso è stato intenso e glorioso, ma, ad un tempo, costellato di conquiste che, nel lungo secolo breve del lavoro, sono durate, ad occhio e croce, non più di quarant’anni, dalle politiche del New Deal sino alla seconda metà degli anni Settanta e al duro risveglio dei primi anni Ottanta del Novecento.

Tuttavia, già oggetto di approfonditi studi e ricerche, interessate, in un tempo ormai lontano, a verificare se, dietro il linguaggio di legislatori dalla vocazione palingenetica[4], «debbasi riconoscere un contenuto preciso, la formulazione di un concetto utile per la sistemazione degli istituti, o piuttosto una locuzione impropria o approssimativa»[5], la categoria del collettivo sembra riproporsi all’attenzione dello studioso del fenomeno sindacale anche in una stagione storica non troppo incline a favorire, dopo i fasti e le glorie del secolo scorso, una rivitalizzazione delle strutture e delle istituzioni portanti della c.d. società pluralistica. Di una società in cui, l’equilibrio tra le sue principali componenti politiche, economiche, sociali, pur scandito da compromessi raggiunti all’insegna di valori distinti e talora contrastanti, rinveniva una fondamentale clausola di garanzia nella centralità del ruolo riconosciuto agli interessi organizzati e alla interazione tra gli attori collettivi o, meglio, alle divisioni tra le forze sociali da questi rappresentate, nella determinazione delle diverse soluzioni organizzative della società[6]. Da qui, la rappresentazione del soggetto sindacale come «l’agente primario della conflittualità sociale»[7], l’attore capace di tradurre «le parole d’ordine perentorie schizzate dal calderone ribollente della base in progetti capaci di mettere in subbuglio tutti i sistemi – il politico, l’economico, il socio-culturale – o, per lo meno, di impedirne la stabilizzazione»[8].

I sindacati, però, in cui questa storia ha deciso di prendere gran parte della sua sostanza, non sembrano godere oggi di buona salute. A qualsiasi latitudine, almeno nel panorama occidentale, in discussione è la stessa legittimazione degli attori collettivi a rivendicare e far valere il ruolo di interlocutori degli odierni centri decisionali del potere economico e politico. Eppure, quando si parla di lavoro, almeno di lavoro subordinato e delle sue tecniche di regolazione normativa, non è pensabile, sul piano tanto delle analisi dei fenomeni quanto delle proposte di riforma del diritto positivo, lasciare indietro la dimensione collettiva e consentire che la scena sia occupata in solitudine da quella individuale.

Il legislatore italiano, annunciando nei mesi scorsi i suoi piani di riforma del mercato del lavoro, si è sin da subito preoccupato di porre l’accento, prima ancora che sui contenuti, sul metodo da seguire nell’elaborazione delle soluzioni normative: da sottrarre ai vecchi riti delle politiche concertative e dei veti incrociati del passato per affidarle ad un decisore politico onnisciente e risoluto, vero o addirittura unico depositario della conoscenza di ciò che farebbe realmente bene al sistema economico, più bisognoso di flessibilità che di rigidità o anche, come è stato pure detto, più bisognoso di lavoro che di diritto del lavoro.

La rottura o, semplicemente, le forti diffidenze verso le politiche della concertazione sociale non sono una invenzione italiana: oltre ad avere una forte ascendenza europea, annoverano anche, tra i propri padri, le istituzioni internazionali che oggi contano, dal Fondo monetario internazionale all’Ocse sino alle Banche centrali. Tutti cenacoli, questi, in cui, a farla da padroni, non sono certo studiosi di diritto ma tecnici di formazione esclusivamente o prettamente economica e, per di più, dai percorsi accademici chiaramente unidirezionali, segnati cioè dagli insegnamenti della Scuola Neoclassica e delle sue varianti oggi in voga presso la Scuola di Chicago o la London School of Economics.

Interrogarsi sulle ragioni di successo di queste correnti di pensiero e, quindi, sulle forti pressioni che sono in grado di esercitare su assemblee legislative sempre più monocolore, induce certamente a chiedersi se i modelli di tutela dei diritti del lavoro di un tempo, carenti oggi di sostrato culturale, non siano venuti a mancare anche della capacità dei loro patrocinatori – dai sindacati ai partiti di sinistra – di elaborare e contrapporre, al vento neo-liberista di questi anni, non solo risposte culturali, ma anche, se non soprattutto, proposte di tipo economico-produttivo credibili sul piano del reperimento delle risorse che, inevitabilmente, sono chiamate ad alimentare i diritti e, prima ancora, i valori a questi sottesi (è, con variazione terminologica, l’interrogativo latente nei discorsi, spesso ricorrenti, sull’assenza di quella c.d. “terza via”, che si sarebbe dovuta tracciare nel solco della rappresentanza o, meglio, della sfida della rappresentanza dei processi – di profonda metamorfosi – che, negli ultimi decenni, hanno vissuto i gruppi di interessi e i poteri sociali, sempre più frantumati, che gli interessi organizzati esprimono: interrogativo frequente, quand’anche, forse, non è vero che non sono state proposte, in questi anni, terze vie; volgendo lo sguardo all’ultima tappa della storia delle famiglie social-democratiche europee, una sicuramente si è fatta avanti – quella blairiana, segnata dalla maturazione delle politiche anti-labour di epoca thatcheriana – ma è stata, a ragione, respinta; altre terze vie sono mancate).

Tornando, allora, all’isolamento che il nostro sindacato ha vissuto in questi anni – contrassegnati dalle profonde divisioni che hanno lacerato le politiche delle tre grandi centrali Cgil, Cisl e Uil sotto i governi di centro-destra – la vera battaglia mancata, non sostenuta con adeguatezza di forze o, addirittura, niente affatto intrapresa è stata quella della rappresentanza dei “nuovi interessi”, così come di interessi non nuovi ma che, nella nostra esperienza sindacale, sono rimasti sempre ai margini delle lotte organizzate di lavoro.

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Quando fu emanato nel 1970, quale grande conquista di civiltà, lo Statuto dei lavoratori si presentava come la legge di cittadinanza dei sindacati nei luoghi di lavoro – legislazione di sostegno dell’autonomia collettiva e delle sue strutture di rappresentanza, dotate di propri diritti[9] – ma anche, ad un tempo, come legge di cittadinanza dei singoli che, prima e al di fuori di ogni circuito di rappresentanza sindacale, varcavano i cancelli di fabbriche nelle quali alla Costituzione repubblicana, e alle sue norme sul lavoro, il padronato non aveva mai consentito l’accesso[10]. Ebbene, delle due leggi di cittadinanza, che avrebbero dovuto marciare insieme, la prima si è affermata, consentendo al sindacato di crescere nei suoi apparati organizzativi, l’altra si è fermata o non ha mai proceduto realmente, lasciando irrisolti nodi che, dalle discriminazioni di genere alla scarsità di risorse da destinare alle misure di contrasto degli infortuni sul lavoro, sino ai diffusissimi fenomeni di lavoro irregolare e di sfruttamento della manodopera immigrata, denotano come, ancora oggi, pur defunta la società industriale, si preferisce continuare a parlare del lavoratore-produttore piuttosto che del lavoratore-cittadino: ossia di chi entra o, meglio, dovrebbe entrare nella società e nel mondo del lavoro non come accadeva in passato – quando, chi vi entrava in veste di contadino, operaio, impiegato riceveva un trattamento normativo corrispondente al proprio status professionale e questo, molto spesso, trasmetteva in eredità alla propria discendenza – ma in qualità di soggetto che, innanzitutto quale persona integrata o da integrare nell’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica[11], è centro di imputazione di diritti indisponibili, costituenti la base della intelaiatura costituzionale su cui dovrebbe ergersi tanto lo Stato-apparato quanto lo Stato-comunità.

In che misura tutto ciò è presente nelle nuove norme sul lavoro, potremo dirlo solo a percorso legislativo concluso: per il momento, però, una risposta, sicuramente parziale, potrebbe darcela, accanto alle tendenze di lungo periodo, la percezione di effetti divisivi che si avvertono se sostituissimo, alle categorie sociali del passato, le diverse formule contrattuali attraverso cui i c.d. knowledge workers intraprendono, e a volte, ormai, terminano pure, i propri percorsi professionali: percorsi inquadrati e normativamente disciplinati – sebbene tutti resi in condizioni di subordinazione (dalla variante forte o giuridica della subordinazione “tecnico-funzionale” a quella, non meno reale, di tipo “economico-sociale”) – come lavoro interinale o somministrato, in apprendistato, a termine, occasionale, a progetto, coordinato e (più o meno) continuativo, e così via.

Certo, tra le proposte messe in campo, ad emergere è stata senz’altro, quand’anche alla fine non recepita, quella del cd. contratto unico[12], trasfusa, nella riforma in itinere, in un tentativo, ma niente di più, di razionalizzazione nell’uso della miriade di tipologie contrattuali introdotte, dalla seconda metà degli anni ’90, dal pacchetto Treu[13], prima, e, dalla legge Biagi[14], poi. Tentativo di razionalizzazione volto, principalmente, a superare le attuali dinamiche di segmentazione del mercato del lavoro e consentire agli outsiders di espugnare la cittadella fortificata degli insiders, protetti da tutele elitarie e inaccessibili per i più, in particolare giovani e donne.

Al di là, però, della bontà dei propositi e, soprattutto, della correttezza delle analisi impiegate – su cui non pochi esprimono dubbi, in particolare con riguardo ai nessi che vi sarebbero, o si vorrebbero così forti, tra assunzioni e vincoli ai poteri datoriali di recesso (o c.d. flessibilità in uscita) – il dato che emerge con maggior nitidezza è l’avanzata, a discapito delle dimensioni istituzionali e collettive, della logica del contratto o delle soluzioni negoziate, rimesse agli esiti di rapporti di forza individuali, nel diritto del lavoro asimmetrici e squilibrati per definizione, soprattutto in contesti di relazioni industriali caratterizzati da agenti sindacali indeboliti o delegittimati.

E la tematica dei licenziamenti, con le proposte di riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – senz’altro, peculiarità nazionale rispetto al panorama normativo europeo – rappresenta bene il movimento di un pendolo che, nel passaggio dalla tutela reale (reintegrazione quale sanzione della illegittimità del licenziamento) alla tutela obbligatoria (la sanzione consisterebbe in un mero indennizzo economico di carattere risarcitorio), induce a riflettere sugli effetti di una possibile monetizzazione dei valori sinora protetti dalle norme del diritto del lavoro. E ciò perché, da un lato, il licenziamento si presenta come il vero luogo della subordinazione e le regole che, anche in funzione di deterrenza, ne sanzionano l’illegittimità, come norme di chiusura, da cui dipende l’agibilità di tutti gli istituti di tutela nel rapporto di lavoro; da un altro lato, l’assorbimento della tutela reale da parte di quella obbligatoria, sia pur rinunciando a considerare la prima come effetto costituzionalmente orientato, finirebbe, con indennizzi e tentativi obbligatori di conciliazione a farla da padrone, con il non condurre più le parti davanti al giudice o a condurle in casi sempre più ristretti. Senza contare, poi, là dove al giudice viene riconosciuto un ruolo di ultima istanza a presidio della tutela del posto di lavoro, le pressioni culturali esercitate, ormai da più di un decennio, sulla giurisprudenza dai teorici di tecniche di interpretazione incentrate sullo «schema argomentativo orientato alle conseguenze»[15]: in particolare, su una specificazione dell’«argomento consequenzialista», ossia su quell’approccio esegetico in cui l’argomento pragmatico «si riferisce alle conseguenze pratiche mediate (di secondo grado), esterne al sistema giuridico, che la decisione ipotizzata presumibilmente produrrebbe nel tessuto sociale». Una delle espressioni più diffuse di questa figura argomentativa o «la specie più importante dell’argomentazione orientata alle conseguenze» è la c.d. analisi economica del diritto: infatti, è proprio la differente tipologia qualitativa degli effetti assunti ad oggetto di valutazione che segna il passaggio da un modo di argomentare interno al sistema – e riferibile, attraverso l’impiego del tradizionale canone interpretativo logico-sistematico o del canone teleologico, al valore decisionale di conseguenze giuridiche certe – ad uno schema che invece ragiona su conseguenze empiriche appartenenti alla sfera del “verosimile”, ossia «recependo ed elaborando informazioni provenienti dall’ambiente circostante al sistema giuridico circa le possibili o probabili ripercussioni sociali della decisione»[16].

Il nerbo scoperto, che allora fuoriesce in tutta la sua problematicità, di quest’ ultima (ma non solo di essa) riforma del mercato del lavoro non è più, semplicemente, quello relativo alla mera conservazione del reddito da lavoro, ma il tema riguardante la più complessiva compatibilità delle “soluzione negoziate” con l’impianto costituzionale, in cui, prima ancora che un reddito, è il lavoro, e l’identità della persona che nel lavoro si costruisce, a rappresentare la base dei diritti di cittadinanza, ossia di quei diritti[17] di effettiva ed eguale «partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale» della comunità organizzata in Stato.

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2. Il secondo piano di riflessione, qui assunto come sintesi storico-giuridica dello scenario in cui si collocano le ultime vicende normative delle nostre politiche del lavoro, investe i rapporti tra diritto ed economia.

Volendo tracciare un breve excursus, all’indomani del manifestarsi delle prime forme di “pluralismo economico”, il problema che sorge è quello di gruppi di interesse – ormai dotati dei caratteri di poteri sociali organizzati – tendenti ad orientarsi verso equilibri che mettono in pericolo la stessa struttura unitaria degli Stati e, in particolare, di un’ancora fragile Stato nascente, come il nostro a cavallo tra il XIX e il XX secolo: i gruppi economici sono incapaci di equilibrarsi da sé, nel senso che si equilibrano secondo assetti di interesse incompatibili con le esigenze di unità dello Stato (al riguardo, l’esperienza del corporativismo fascista, ossia la soluzione stato-centrica data al problema, offre un valido insegnamento).

La consapevolezza culturale, nella storia delle idee giuridiche ed economiche, di questa “incapacità”, innesca una duplice riflessione: a) intorno al (nuovo) tipo di rapporto che deve intercorrere tra diritto ed economia, con il diritto che diviene, da strumento di sottrazione di spazio giuridico, mezzo positivo di intervento nella sfera degli interessi e delle finalità dell’agire economico; b) intorno al contenuto della disciplina sostanziale delle scelte giuridiche in materia economica e, quindi, intorno alla dimensione qualitativa delle finalità e degli interessi economici promossi dall’ordinamento giuridico.

Le riflessioni sono, allora, di metodo e di contenuto e sfociano nella elaborazione del concetto di “costituzione economica”: intesa come ordine giuridico dell’economia, che assegna al diritto il compito di “mediare” tra la realtà economica – ossia le valutazioni normative ad essa sottese e le finalità perseguite dagli attori economici – e un sistema di “valori morali” – con il loro bagaglio di intrinseche valutazioni normative – autonomi rispetto all’economia. Il passaggio, dal piano del metodo a quello del contenuto, è segnato dalla selezione di questi valori, attraverso il riconoscimento della garanzia costituzionale ai «valori universali della persona umana».

Un terzo ordine di riflessioni, poi, investe, quasi naturalmente – su un piano che è di metodo e di contenuto allo stesso tempo – il problema della legittimazione dei procedimenti giuridico-legislativi diretti a disciplinare i rapporti tra diritto ed economia. Questi passano, a seguito della crisi del “positivismo legislativo”, da una concezione di giustizia della legge, fondata sulla formale validità di questa (assicurata dal mero rispetto delle procedure), alla acquisizione che la legge giusta poggia, invece, sull’affermazione consapevole di valori giuridici condivisi e autonomi rispetto alla sfera di normatività dell’agire economico. I valori, così, da “meta-legislativi” assumono il carattere specifico del diritto, cioè di “forza formativa della realtà”. Nel riconoscimento costituzionale e nella successiva recezione, da parte della legislazione ordinaria, dell’identificato universo di valori, l’esperienza giuridica, forte anche di una propria essenza immanente e di un’intima coerenza logica tra i vari istituti che ne definiscono la trama, va oltre lo statuto di mera tecnica di “organizzazione sociale”, di adeguamento cioè del diritto al fatto.

Alla immagine di distinte sfere, rispettivamente giuridica ed economica, che si compenetrano, nelle diverse fasi storiche, in modo variamente intenso, sino a giungere, ai giorni nostri, a processi di influenza reciproca – in cui la dimensione economica, grazie a dominanti discorsi di depoliticizzazione e conseguente traduzione della sua essenza in termini scientifici, avrebbe preso il sopravvento su quella del diritto – ricorre il recente tentativo, da parte di alcuni studiosi del diritto, di fornire una chiave di lettura giuridica della crisi economica degli ultimi anni[18].

La sfera dell’economia non può fare a meno, per funzionare correttamente, di una solida base istituzionale, che nell’autorità pubblica e nelle leggi realizza la garanzia di rapporti economici non affidati agli esiti incerti della regola del più forte, bensì agli “auspici” di un soggetto terzo garante delle convenzioni, della “parola data”. Da qui, la suggestiva evocazione, da parte di Alain Supiot, della struttura architettonica di una antico mercato medioevale come quello di Bruxelles, ricco di simbologia là dove riproduce la conformazione tridimensionale e non semplicemente binaria dei rapporti di scambio, in altre parole i “fondamenti dogmatici” del mercato: i cui confini, rappresentati non solo dagli edifici che un tempo ospitavano le sedi delle antiche professioni e del lavoro organizzato (le corporazioni), ma anche dagli uffici dell’«Autorità pubblica garante dell’onestà degli scambi (la sede del Municipio)», mostrano immediatamente che «il mercato non è la fonte spontanea di regole universali, ma una particolare costruzione istituzionale, la cui stabilità dipende direttamente dalla solidità delle sue basi giuridiche e del ben più vasto insieme istituzionale all’interno del quale si inscrive»[19].

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La devastante crisi finanziaria ed economica esplosa sul finire del 2008, sarebbe, secondo questa prospettiva ricostruttiva, l’effetto di un latente processo di rottura di equilibri giuridici ed istituzionali, innescato da un costante movimento espansivo della sfera economica e delle sue regole verso la sfera del diritto, anch’esso, attraverso il radicale svolgimento di finzioni giuridiche, tramutato in prodotto di scambio nell’ambito dei c.d. fenomeni di “law shopping”. La denuncia di autori come Supiot, ad ogni modo, si rivolge contro la c.d. ideologia del “contrattualismo”, vale a dire l’altro volto o parvenza giuridica dello “scientismo” in campo economico: più precisamente, è «l’idea che il legame contrattuale rappresenterebbe la manifestazione più compiuta del legame sociale e sarebbe votata a sostituirsi ovunque agli imperativi unilaterali della legge»[20].

Per un impiego più specifico della categoria del “contrattualismo”, assunta come chiave di lettura di un diritto del lavoro sempre più aperto, nel suo tessuto dogmatico, verso percorsi di “individualizzazione regolativa”, molto penetranti sono anche le riflessioni di Lorenzo Zoppoli[21], secondo cui il «contrattualismo tende ad essere il mare entro cui viene fatto nuotare un rivitalizzato contratto di lavoro», contratto che a sua volta, «proprio perché veicolato dall’ideologia contrattuali sta», tende ad essere «acontestualizzato (cioè slegato dallo status) e ad assumere la pura e semplice valenza di strumento fondativo del potere di fatto – che deve essere libero di esprimersi nella dialettica negoziale bilaterale – perdendo qualunque idoneità a filtrare le logiche di puro mercato».

Non sfugge, ad una attenta lettura delle pagine di Supiot, la circolarità di un percorso che è più cose in una: ossia politico, economico, giuridico e, perché no, filosofico – almeno nella misura in cui, prima di «divenire una dismal science, una scienza triste, l’economia è stata intrisa di riflessioni di natura politica e morale»[22], con piste di indagine empirica sovente intrecciate con altre di carattere valutativo.

Un percorso ben sintetizzato, nelle pagine dedicate alla sua fase iniziale, quella liberale, da giuristi come Luigi Mengoni e Tullio Ascarelli, e descritto da Supiot, nella sua attuale direzione di marcia, attraverso espressioni che evocano un ritorno al passato. E così, se «il XIX secolo aveva accolto il modello di un equilibrio economico naturale, frutto del gioco delle forze individuali, nei cui confronti funzione precipua della legge era quella della garanzia, quella dell’eliminazione degli ostacoli che la regolamentazione legale tramandata frapponeva alla realizzazione di questo ordine»[23], i principi fondamentali della imperante dottrina neoliberale rivendicano la legittimità scientifica di un mercato come suprema autorità di regolazione, costruendo, in questo modo, l’utopia di un “mercato totale”, fondata sulla cieca fede – propria di ogni forma di scientismo – nella esistenza naturale di immanenti leggi economiche. Quelle stesse leggi che, «come un re Mida, trasformerebbero in oro qualunque cosa esse tocchino»[24], tramutando così in risorse economiche anche le persone. Eppure, questo indistinto processo di commodification, di produzione illimitata di risorse, ha un alto prezzo, che consiste nello scalzare, dalle relazioni di mercato, quel «soggetto terzo» di cui parla Supiot, ossia il Diritto, garante sì di finzioni che «autorizzano ad agire come se il lavoro, la terra, la moneta fossero beni scambiabili» ma, al tempo stesso, garante di un insopprimibile vincolo di realtà, che ci suggerisce di non «dimenticare che si tratta, appunto, di finzioni o artifici giuridici, in quanto tali subordinati ai valori fondanti dell’ordine giuridico» oltre che ai limiti entro cui è racchiusa la realtà umana e i beni naturali di cui questa si alimenta: «sì che, trattare gli uomini e la natura come semplici merci non è soltanto detestabile sul piano morale ma conduce necessariamente a catastrofi ecologiche e umanitarie di proporzioni colossali».

 

APRILE 2012

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[1] Cfr., al momento, il d.d.l. governativo recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita.

[2] Labour Law 2008: 40 Years On, in Industrial Law Journal, n. 4, 2007.

[3] Labour and the Law, Stevens, London 1972.

[4] Irene Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffré, Milano 2007.

[5] Nicola Jaeger, Contributo alla determinazione del concetto di “rapporto collettivo”, in Rivista di diritto commerciale, 1936, I, pag. 619.

[6] Wolfgang Streeck, Lo studio degli interessi organizzati: prima e dopo il passaggio del secolo, in Quaderni di rassegna sindacale – Lavori, 2006, n. 1, pag. 35 ss.

[7] Piero Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1977, pag. 5.

[8] Giuseppe Federico Mancini, Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna 1976, pag. 3.

[9] Titolo III della legge, sotto la rubrica Dell’attività sindacale.

[10] Prima parte dello Statuto, Titolo I, rubricato Della libertà e dignità del lavoratore.

[11] Art. 3 della Costituzione.

[12] Pietro Ichino, Progetto per la transizione al nuovo sistema di protezione della stabilita’ del lavoro, il superamento del mercato duale e il contratto di lavoro a stabilità crescente con l’anzianità di servizio (d.d.l. n. 1481/2009), in http://www.pietroichino.it/?p=1079

[13] L. n. 196/1997.

[14] D. Lgs. n. 276/2003.

[15] Seguito, anche nella manualistica, da autori come Pietro Ichino, Lezioni di diritto del lavoro. Un approccio di labour law and economics, Giuffré, Milano 2004.

[16] Luigi Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, pagg. 1-18.

[17] Vedi ancora l’art. 3 Cost.

[18] Alain Supiot, A legal perspective on the economic crisis of 2008, in International Labour Review, 2010, n. 2, pagg. 151-162.

[19] Alain Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, Bruno Mondadori, Milano 2006, pagg. 119.

[20] Supiot, cit., pag. 109.

[21] Contratto, contrattualizzazione, contrattualismo: la marcia indietro del diritto del lavoro, destinato agli Studi in onore di Tiziano Treu, p. 8 del dattiloscritto.

[22] Michele Salvati, Prefazione ad Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Ed. speciale Corriere della Sera, Milano 2010, p. 6; alcuni spunti in questo senso anche in Riccardo Del Punta, L’economia e le ragioni del diritto del lavoro, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2001, n. 1, p. 3 ss.

[23] Tullio Ascarelli, Ordinamento giuridico e processo economico, in Problemi giuridici, Milano 1959, pag. 43.

[24] Alain Supiot, A legal perspective on the economic crisis, pag. 154.