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08
Ottobre 2012

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Esperienza e rappresentazione

DECOSTRUIRE LA VIRTUALITà

Qualche appunto sulla nascita dell'informatica

Dario Malinconico 

 

1. Orwell, ovvero “le magnifiche sorti e progressive…”

Nel 1984 l’azienda informatica Apple, per lanciare sul mercato uno dei primissimi modelli di personal computer (il Macintosh, che da allora sarà sviluppato in decine di versioni), realizzò un famoso spot commerciale, tra i più osannati e costosi della storia della pubblicità[1].

La scena ritrae una società futurista non molto lontana nel tempo, dove degli uomini assolutamente spersonalizzati marciano all’unisono immersi in un’atmosfera cupa e opprimente. Il loro percorso, all’interno di quella che sembra una fabbrica gigantesca, è costellato di piccoli schermi che trasmettono il viso di un uomo in primo piano che tiene un discorso; giunti in una grande sala, si siedono e osservano in silenzio un maxi-schermo che continua a trasmettere la stessa identica immagine. L’audio del discorso accompagna tutta la scena, e merita di essere riportato per intero:

 

Oggi, noi celebriamo il primo glorioso anniversario delle Direttive sulla Purificazione dell’Informazione. Noi abbiamo creato, per la prima volta in tutta la storia, un paradiso di pura ideologia. Dove ciascun lavoratore può realizzarsi al sicuro da invasioni destabilizzanti di verità contraddittorie e arrecanti confusione. La nostra Unificazione dei Pensieri è un’arma più potente di qualsiasi flotta o armata sulla terra. Noi siamo un popolo, con una volontà, una risoluzione, una causa. I nostri nemici dovranno parlare a sé stessi fino alla morte e noi li sotterreremo con la loro stessa confusione. Noi vinceremo!

 

Il riferimento a 1984 di George Orwell è chiarissimo, sia per il plot iconografico, sia per l’anno in cui sapientemente fu deciso di realizzarlo. Ma accanto a queste immagini “orwelliane” vediamo anche una giovane donna vestita come un atleta (siamo nell’anno delle Olimpiadi di Los Angeles, boicottate dai paesi del blocco socialista), identificata da colori sgargianti in netto contrasto con gli abiti dei detenuti-soldati, tutti grigi e identici tra loro. La ragazza si muove di corsa all’interno della struttura, reggendo in mano un grosso martello e inseguita da guardie in tenuta anti-sommossa. Giunta anche lei nella grande sala dove tutti sono seduti a guardare il maxi-schermo, vi lancia contro il martello con un gesto da atletica leggera, proprio mentre il faccione sullo schermo (che rappresenta ovviamente il Grande Fratello, che “guarda tutti” e recita il suo monologo) pronuncia le parole: “Noi vinceremo...”. All’esplosione del maxi-schermo segue la frase di chiusura dello spot:
«Il 24 gennaio Apple introdurrà 
Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come 1984».

Questo spot costruisce una rappresentazione decisamente efficace della cosiddetta “rivoluzione informatica”: il computer arriva, con la sua forza dirompente, a liberarci dal conformismo dei mass-media tradizionali, a scuoterci da un narcotico paradiso fatto di immagini uniche e non-contraddittorie. Oltretutto, siamo ancora in una fase di “guerra fredda”, e il mezzo informatico rappresenta la quintessenza della libertà di informazione e di realizzazione individuale che l’occidente capitalistico può opporre al grigiore uniformante dei regimi dell’Est. Per inciso, vi si può leggere anche una polemica, neanche troppo velata, sul ruolo dominante dell’ibm nel settore informatico; questo aspetto appare però decisamente secondario. Quel che più conta è l’immagine iconografica e, al tempo stesso, la forte carica simbolica che la “rivoluzione informatica”, rappresentata in pieno dal personal computer e dalla sua innovazione, riesce a dare di se medesima. C’è qui tutta la forza eroica di un mezzo di comunicazione ai suoi esordi. Una simile iconografia la possiamo ritrovare anche quando fu pubblicizzato per la prima volta il telefono, o quando mezzo mondo si entusiasmò per le strabilianti applicazioni della corrente elettrica scoperta da Edison.

Nella società capitalistica, infatti, ogni radicale innovazione tecnologica coincide sempre con la produzione di una nuova merce e insieme con la produzione di un apparato iconografico e ideologico (uso il termine con prudenza, sostanzialmente come sinonimo di simbolico), che ne ricrei continuamente le condizioni di bisogno per la massa potenzialmente illimitata degli utenti. Non si tratta semplicemente di pubblicità, nell’accezione comune: come aveva ben compreso Günther Anders mezzo secolo fa, la “produzione continua del bisogno delle merci” è l’anima stessa del capitalismo avanzato, perché

 

per poter consumare prodotti, è necessario che ne abbiamo necessità […] ma poiché questa necessità non ci viene spontanea (come la fame), dobbiamo produrla; e ciò per mezzo di una industria particolare [la pubblicità, n.d.r.], che deve rendere uguali la fame delle merci di essere consumate e la nostra fame di merci.[2]

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Questa modalità di produzione e riproduzione dei bisogni e delle merci è stata ormai definitivamente acquisita dal capitalismo avanzato. Intuiamo però, e tale intuizione va ulteriormente approfondita, che anche questa fase appartiene di fatto al nostro passato. Anders stesso lo avvertiva, ma individuava come contraltare una nuova fase del mondo capitalistico in cui, insieme alla produzione delle merci e del bisogno delle merci, il “sistema macchinino” avrebbe prodotto “le condizioni stesse per la propria distruzione”, ovvero l’energia atomica. Negli anni sessanta e settanta, quando Anders scriveva, questa considerazione era di stringete attualità. Oggi, se pure il pericolo nucleare non ci ha mai realmente abbandonato (vedi la tragedia di Fukushima in Giappone), viviamo in una fase storica diversa: non è lo spauracchio di una distruzione prossima ventura, seppure improbabile o con una delirante funzione deterrente (come per l’ordigno “Fine di Mondo” del Dottor Stranamore) a segnare il nostro tempo, ma la promessa di liberazione individuale e di cambiamento antropologico che traspare nello spot dell’Apple.

La produzione dei bisogni ha lasciato il posto a una produzione simbolica incessante e reiterata, talmente immateriale da divenire quasi epidermica. La promessa di liberazione è ormai inscritta nel carattere globale e “democratico” dei nuovi mezzi della rivoluzione informatica, anti-totalitara e nemica del conformismo delle immagini perché quelle stesse immagini riesce a moltiplicarle all’infinito, slargandole a vera e propria “esperienza del mondo”. Produzione simbolica (non più soltanto produzione di bisogni) da un lato, e mutamento delle condizioni antropologiche dell’esperienza dall’altro; nel mezzo, una produzione capitalistica che diviene sempre più immateriale, piegata sul versante del “General Intellect”, per esprimerci in termini marxiani, piuttosto che sulla produzione di plus-valore immediato[3].

Anche nel mezzo della crisi economica più grave dal 1929 ad oggi, com’è quella che stiamo vivendo, la fiducia nei nuovi mezzi informatici resta perciò quasi immutata: la crisi riguarda a detta dei più soltanto il vecchio capitalismo, quello della finanza e dei monopoli bancari. La rivoluzione informatica rimane chiusa nella sua torre d’avorio: è ancora quell’atleta giovane e “diversa” che rompe il grigiore della società massificata; la sua produzione simbolica è talmente radicale da irretire perfino qualche teorico dell’anti-capitalismo, oltre ad alcuni movimenti anti-globalizzazione. Insomma, non siamo ancora riusciti a ritrovare il solco, tracciato a grande profondità, della mistificazione che nasconde.

 

2. Internet, ovvero “l’uomo è (sempre più) antiquato”

 Tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche, dicevamo prima, oltre a produrre continuamente merci e “bisogno delle merci” producono un proprio apparato simbolico; verrebbe da dire: producono la propria Weltanschauung (visione del mondo). Quest’apparato simbolico mantiene inalterate, anche a distanza di tempo, alcune caratteristiche di base: l’innovazione, quando esce dai laboratori e si incarna in un bene di consumo, diviene automaticamente “progresso di tutti”, perché democratico e a buon mercato; il prodotto di una vera rivoluzione tecnologica (come il computer, non come l’Ipad che ne è soltanto un’appendice) non incrementa semplicemente le possibilità di utilizzo, ma le stesse capacità e attitudini umane, e forse ne crea addirittura alcune ex-novo; infine, la rivoluzione tecnologica è sempre “liberazione” da qualcosa, oppure promessa di liberazione che apre al futuro.  

Questi caratteri si ripetono nella nostra storia recente in maniera sempre più accelerata: ogni progresso tecnico, dal più epocale al meno significativo, viene etichettato come una “rivoluzione”. Hanno contribuito a diffondere questo sentimento, seppure in modo non sempre determinante, tutte le schiere dei vecchi e nuovi “positivisti”, ovvero di coloro che, come scriveva ironicamente Leopardi, restano incantati di fronte alle “magnifiche sorti e progressive” che il progresso della scienza lascia intravedere. Il loro ruolo concreto è spesso assai misero, o puramente accessorio: fanno da semplice “cassa di risonanza” alle idee imperanti, amplificano e mettono in circolo un apparato simbolico che possiede invece ben altre fonti di irradiazione. L’intellettuale che tesse oggi le lodi del progresso tecnologico, e vi legge la possibilità “positiva” di uno sviluppo della società umana, è insomma una figura assolutamente residuale. Il suo posto è stato occupato dai cosiddetti brain trust, ovvero da gruppi di tecnici concretamente operativi all’interno delle grandi multinazionali, delle agenzie statistiche sovranazionali e delle lobby pubblicitarie. Per quest’ultimi non vale più, come scriveva Gramsci, la funzione di blocco intellettuale egemone: sono diventati essi stessi un momento necessario del ciclo produttivo, un’appendice strumentale della produzione simbolica e immateriale della contemporaneità. Cos’è che producono? Producono rappresentazioni del reale che devono sembrare più vere del vero, producono un cortocircuito dell’esperienza umana che viene poi riempito con un “vuoto simbolico” e virtuale, dove gli stessi bisogni delle merci non hanno più necessità di essere riprodotti in continuazione perché sono diventati “il” reale, la fame vera degli individui (per riprendere la metafora di Anders).

È interessante notare come questi nuovi gruppi intellettuali, che hanno una funzione di produzione simbolica completamente interna, strumentale, al sistema capitalistico contemporaneo, riescano a riassorbire e a riutilizzare perfino le visioni più pessimistiche del progresso tecnologico. Questa è una vecchia questione, in verità, che risale a Pasolini: quanto è esteso e pervasivo il potere della società dei consumi, e fino a che punto può “riassorbire”, rendendole mezzi di consumo a sua volta, le critiche che gli vengono mosse? Sappiamo che la risposta di Pasolini era tragicamente negativa: tutto, almeno in potenza, corre il rischio di essere riassorbito, reso innocuo, veicolato a scopo di consumo. La critica al sistema, la contestazione, perfino le “utopie negative” che esprimeva Pasolini stesso nella sua Trilogia della vita, possono essere quantomeno tollerati, se non utilizzati per produrre nuove merci di consumo (come il filone “boccaccesco”, ad esempio, che trasformò il Decameron in una serie di filmetti erotici popolari).

Certo, allora c’era la censura giudiziaria, che poteva colpire anche penalmente gli autori che si macchiavano di un «offesa al comune senso del pudore». Ma questa vecchia macchina repressiva era nient’altro che un retaggio del regime fascista, e come tale prossima ad essere definitivamente accantonata. Le forme di censura, dagli anni settanta in poi, specie in Italia, sono diventate molto meno appariscenti di prima; quasi mai si colpiva direttamente, perché la censura era ormai a monte, nell’omologazione del nascente mezzo televisivo. Tanto che la frontiera del “comune senso del pudore” si è spostata di pari passo con l’evoluzione stessa della televisione: dalle vallette dei telequiz siamo passati all’esibizione esplicita del corpo femminile nella televisione commerciale, e perfino parte delle vicende politiche odierne ha avuto come campo di battaglia una spregiudicata rivisitazione del “comune senso del pudore” e del corpo delle donne[4].

Il processo di riassorbimento di cui parlava Pasolini è insomma lo stesso che, a livello simbolico, e quindi di sistema, ha portato il brain trust di Apple a riutilizzare Orwell per lanciare sul mercato il personal computer. Il futuro distopico concepito dall’autore di 1984 era già stato privato in precedenza, e per ragioni che qui si possono soltanto accennare, della sua potenziale carica eversiva, comodamente dirottata dalla critica della società consumistica verso i lidi più sicuri di una critica al sistema totalitario sovietico. Il terreno per un’interpretazione “democratica” e filo-capitalista di Orwell era quindi già spianato[5]. Quella pubblicità dimostra però con quanta forza simbolica una società come la nostra, felicemente incamminata sulla via della completa “informatizzazione”, riesca a fissare nel progresso tecnico le stigmate della propria libertà e della propria democrazia. In quest’ottica, un ampliamento della tecnologia, sia quantitativo che qualitativo,  rappresenta automaticamente uno slargamento dell’esperienza umana, specialmente se questo ampliamento espelle da sé ogni retaggio ideologico, per presentarsi come pura “positività” di progresso. La natura dei nuovi mezzi informatici, che introducono il concetto di “virtualità” nella nostra concreta esperienza del mondo, si presta meglio di altri a rendere evidente tale meccanismo. La virtualità ci appare libera in sé, proprio perché crea un mondo ex-novo, sorta di infinita tabula rasa su cui imprimere una varietà di messaggi spesso diversissimi tra loro, e senza un apparente centro di controllo (il faccione del maxischermo che si infrange). La Rete (il World wide web, non a caso) ne è al tempo stesso la metafora e l’applicazione, portata al livello più onnicomprensivo possibile.

Ma un apparato simbolico che nasce nel cuore stesso del capitalismo avanzato può davvero essere “neutrale”? Tra le aziende della Silicon Valley, i laboratori del cern di Ginevra e quelli del Pentagono di Washington - tutti e tre hanno contribuito in maniera determinante alla nascita di Internet - c’è più di una semplice concordanza di intenti. Oggi, con la Rete che fa parte ormai della nostra quotidianità e con il personal computer che, nelle sue varie forme, è diventato una reale appendice dell’essere umano, penso sia possibile andare oltre l’apparato simbolico dispiegato, con grande forza persuasiva, negli anni eroici della nascita dell’informatizzazione. Siamo insomma collocati nella “media distanza”, e di quella presunta neutralità possiamo ormai misurarne gli effetti concreti di “cambiamento antropologico”.

Anche perché la distopia di Orwell continua a bruciare sotto la cenere, nonostante siano in molti a vederla infranta, o relegata al passato recente. Non c’è bisogno di scomodare una distopia di fine millennio come quella del film Matrix (che pure resta affascinante, anche per le similitudini col lavoro di un pensatore come Baudrillard); la realtà virtuale, dietro la frenesia dei suoi input e delle sue «invasioni destabilizzanti di verità contraddittorie», mistifica la radice stessa della nostra “esperienza”, restringendola nel medesimo orizzonte unico e massificato che faceva professione di combattere. Fare mille esperienze simultanee, disperse nello spazio ma sovrapposte le une alle altre nel tempo, equivale a non farne nessuna. Il pericolo di scambiare il vero con il falso, e che questo scambio diventi sistematico, inevitabile, automatico, rimane nascosto sotto strati e strati di immagini a getto continuo. Non siamo più soltanto produttori  defraudati del valore  prodotto, e in esso alienati; o consumatori alimentati da una “fame” di prodotti sempre più artificiale e totalizzante. Siamo diventati soggetti defraudati dell’esperienza, e alimentati da un’unica, multiforme rete di rappresentazioni del reale che è diventata ormai più vera del vero.

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3. Re Mida, ovvero “non è tutt’oro quel che luccica”

A questo punto potrebbe sembrare che il discorso sia esaurisca in una descrizione puramente negativa, se non “apocalittica”, della cosiddetta rivoluzione informatica e delle sue conseguenze antropologiche. La critica alla presunta “neutralità” dei nuovi mezzi di comunicazione, al carattere simbolico della loro produzione e all’ideologia sotterranea che essi veicolano, coinvolge in realtà una questione ancora più profonda: che ne è dell’esperienza umana nell’età della tecnica? Ancora una volta, possono soccorrerci le riflessioni di Günther Anders contenute nel secondo volume de L’uomo è antiquato.

Nel capitolo dedicato al tema del “conformismo” nella società di massa, Anders tratteggia due metafore molto interessanti che riguardano i caratteri dell’esperienza nella situazione contemporanea. La prima si riferisce alla differenza tra «esperienza permanente del mondo» ed «appercezione», intesa come lo “sperimentare” un effetto di tipo nuovo rispetto ad uno schema pre-determinato di reazioni. La coercizione e il conformismo del sistema tecnocratico sono “impercettibili” perché riguardano il nostro stesso modus vivendi, la nostra esperienza permanente delle cose, il modo attraverso cui ne restiamo perennemente “impressionati”. Ecco perché, come del resto sosterrà anche Michel Foucault alcuni anni dopo, la società contemporanea non ha più bisogno dei vecchi schemi di forza e di dominio: la privazione della libertà tende ad assumere ormai il carattere dell’offerta (“ciò che viene offerto”, in tedesco geboten), che è insieme offerto e comandato senza che noi possiamo percepire l’ordine in quanto ordine, o che il soggetto che lo impone percepisca il proprio atto come imposizione. L’impersonalità del consumo è identica all’impersonalità dell’offerta che viene consumata, e della rete che la impone «nel modo più liscio, più privo di sforzo, più privo di residui, più narcotico possibile».

Insomma, l’esperienza dei soggetti nella società tecnologica, spiega Anders, assomiglia alla situazione dei pesci nell’oceano, i quali “permanentemente fanno esperienza della pressione dell’oceano” senza che possano mai sperimentarla davvero come “appercezione”. «Questa pressione» aggiunge

 

fa parte fin dall’inizio del loro meccanismo di movimento, anzi dell’intera struttura dei loro corpi. Lo schema di coercizione è diventato la conditio sine qua non della loro vita di modo che, quando vengono issati a bordo dai pescatori, scoppiano […] Lo stesso vale anche per certe condizioni artificiali prodotte dall’uomo. Nella nostra esistenza è già calcolato il modus con cui veniamo trattati e a cui siamo sottoposti permanentemente. Pertanto, non ne facciamo esperienza; o al massimo, la facciamo solo quando esso viene meno provvisoriamente: infatti, soltanto l’assenza rende visibile la presenza quotidiana.[6]

 

Cos’è allora l’esperienza al tempo di internet, se non una pressione totale di rappresentazioni da cui siamo perennemente “impressionati” senza percepirlo, conformati senza saperlo, che non possiamo mai sperimentare realmente se non collocandoci nello spazio, forzatamente temporaneo e parziale, della sua “assenza”? L’esperienza umana, per accogliere come “appercezione” uno stimolo esterno, deve poterlo sperimentare mettendo da parte tutti gli schemi pre-determinati, vacillando e aprendosi al “nuovo”, a ciò che Hannah Arendt, utilizzando la metafora della nascita, indicava come l’inizio nella sua radicale libertà. Non è però l’opposizione necessità-libertà, troppo antica e radicata per sovrapporla ai meccanismi di funzionamento della nostra società, ad essere in gioco; ma la capacità stessa di esperire il mondo al di là della rete di rappresentazioni che ci avvolge.

La seconda metafora che Anders utilizza ci viene incontro proprio a questo punto. Siamo talmente condizionati, così scrive, dalla “completezza” apparente del mondo di prodotti ed immagini intorno a noi, da non riuscire più neppure ad immaginare un mondo diverso, o che possano esistere “altri mondi”.

 

La sovrabbondanza è la madre della mancanza di fantasia. Ovunque noi allunghiamo la mano, troviamo sempre una cosa da afferrare che, quale merce già pronta per la consegna, fa valere le sue pretese in modo ferreo […] e poiché cela già in sé le proprie norme, esclude l’idea di qualcos’altro[7].

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Sostituiamo il termine “merce”, legato specificamente al tempo in cui Anders scriveva, con l’idea di rappresentazione e di immagine, e avremo una buona descrizione del nostro modo di percepire il mondo.

«Siamo come il Re Mida», aggiunge sapientemente Anders. Secondo la mitologia greca, Mida era il mitico sovrano che, avendo ospitato nella sua reggia il satiro Sileno, caro a Dioniso, fu ricompensato dal dio con la possibilità di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ma la gioia iniziale di Re Mida mutò ben presto in angoscia: non poteva mangiare, o bere, perché tutto diventava all’istante oro zecchino. Sarebbe morto di fame e di sete, se Dioniso non fosse intervenuto e avesse revocato il prodigio. Le “mani” di Mida rappresentano perciò la cieca cupidigia dell’uomo che finisce per inimicarsi il mondo e l’esperienza “positiva” delle cose per il proprio desiderio esasperato di ricchezza. Re Mida rimane vittima di una duplice illusione: crede di dominare il mondo, ma il mondo gli si ribella contro; crede di essere l’uomo più ricco della Terra, ma in realtà è il più povero e miserabile di tutti.

Allo stesso modo, anche noi rischiamo di mutare tutto ciò che ci sta intorno in un materiale uniforme e deleterio, nonostante appaia prezioso in superficie. Che esperienza dell’alterità potremmo mai intraprendere, fuori di metafora, se la sovrabbondanza di rappresentazioni finisce per rendere tutto uguale a se stesso? Che discriminante positiva potremmo mai seguire, se non ritroviamo prima il filo di una “appercezione” del Mondo che sia diversa dalla sua continua, massificata rappresentazione? La nostra esperienza non può essere insomma come la terribile “mano di Mida”, perché così non servirebbe più a niente.

 

Questo breve ragionamento non esaurisce certo, né pretende di farlo, le questioni e gli interrogativi messi in campo. Ragionare sulla natura della rivoluzione informatica, e sul suo modo di ricreare nuove condizioni di rappresentazione e di esperienza, significa in primo luogo provare a misurare fino a che punto questa rivoluzione coinvolge il nostro stesso modo di pensare, di percepire e di agire. Ogni rivoluzione sociale o politica è sempre una “rivoluzione antropologica”, anche quando non siamo noi i soggetti che la determinano. Finora, l’ampliamento di mezzi, tecnologie e “forze produttive” degli ultimi trent’anni ha creato soltanto forme nuove di dominio e di alienazione. La massificazione non potrà mai, nonostante la forza simbolica di cui è capace, nonostante i proclami e le pubblicità che riesce a costruire, spacciarsi per liberazione. Perché è in questa veste che ormai vuole presentarsi: non come obbligo, o come coercizione, ma come promessa di libertà. Ed è qui che noi dobbiamo provare a svelarne la mistificazione, quella di chi vorrebbe tramutare tutto in oro massiccio, sempre uguale a se stesso in ogni angolo del globo, ma in realtà tanto più mortale quanto più prezioso e luccicante in superficie.

 

AGOSTO 2012

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[1] Lo spot è stato diretto dal noto regista Ridley Scott, il soggetto è stato scritto da Steve Hayden, Brent Thomas e Lee Clow per l'agenzia pubblicitaria Chiat/Day di Venice (Los Angeles, California) e prodotto dalla New York production company, Fairbanks Films. È stato trasmesso un'unica volta in televisione, il 22 gennaio 1984, durante il terzo quarto del Super Bowl, da Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/1984

[2] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 10.

[3] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, noti anche come Grundisse. Elaborati come appunti preparatori al volume Per la critica dell’economia politica del 1859, furono pubblicati postumi nel 1939. Nella sezione dedicata alle Macchine si trova esposta appunto la nozione di “General Intellect”, che Marx intende come determinazione fondamentale di una società capitalistica futura, comprensiva non più soltanto del lavoro in senso immediato, ma anche di una mobilitazione totale dell’intero corpo produttivo e della tecnologia scientifica. Una tale ricomposizione del ciclo produttivo, capace di estendersi alla totalità del corpo sociale e delle conoscenze umane, richiederà (Marx lascia in sospeso il discorso, proprio perché riguarda un possibile futuro) la riformulazione delle stesse leggi fondamentali del plus-valore.

[4] Vedi a questo proposito il documentario di Lorella Zanardo intitolato proprio Il corpo delle donne, che si trova in versione integrale e gratuita su Internet (www.ilcorpodelledonne.com), e da cui l’autrice ha tratto anche un libro omonimo, edito da Feltrinelli nel 2010.

[5] Orwell, che combatté in Spagna durante la Guerra Civile (1936-1939) insieme ai trotzkisti del poum, come tantissimi comunisti europei divenne un convinto anti-stalinista, e La fattoria degli animali (1945) sta a dimostrarlo. Ma la sua critica al totalitarismo e all’irrigidimento ideologico, che nel romanzo 1984 viene trasferita metaforicamente in una società prossima ventura, dominata da un potere spersonalizzante che alimenta solo la “paura” dei suoi sudditi-cittadini, risente anche del clima della Guerra Fredda, delle proclamazioni ideologiche dei fautori dell’americanismo così come di quelli del “socialismo reale” (vedi E. J. Hobsbawn, Il secolo breve, cap. viii, Rizzoli, Milano 1995), oltre che degli slogan e dell’alienazione della nascente società dei consumi. 

[6] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, cit., pp. 183-184.

[7] Anders, cit., p. 182.