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08
Ottobre 2012

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UN'INTERVISTA ESTIVA A CITTà FUTURE

Mariano Mazzullo

 

Vorrei chiederti, se non ti sembra una domanda fuori luogo, se per te si possa parlare nel 2011 del concetto di “sommo bene”?

 

Ma che domanda è? Un’intervista alla Marzullo, più che alla Mazzullo?

 

Ti chiedo davvero, guarda che io ci credo un po’. Il sommo bene inteso come un bene che vale per tutti e non solo per qualcuno. Un’idea universale di bene. Scusate voi fate politica con la vostra rivista e vi stupite di questa domanda?

 

No, non credo che esista un valore universale che valga per tutti. Almeno non esiste dal punto di vista di un contenuto universale. Credo che esista un’universalità relativa alla natura, oltre che all’uomo, e che riguarda il fatto che ciascun essere della natura, così come ciascuno di noi uomini, tenda ad esprimere, con la sua esistenza, qualcosa. Per questo direi che il sommo bene nel senso di un ideale che valga per tutti, è un ideale che fa parte dell’espressività, nel dare un senso alla propria azione.

 

E come si può condividere il bene, se ciascuno ha la propria particolarità, i propri interessi e le proprie passioni?

 

Io credo, come diceva Adorno, che lo stato migliore da immaginare sia lo stato in cui tutti possano essere diversi ed esserlo senza paura. Diversi, non nel senso di diversi da un modello, che altrimenti sarebbe poca cosa, diversi, più semplicemente, in quanto tali, cioè come semplici e diverse esistenze, individui capaci di uno sviluppo, di crescere, di migliorarsi. Persone che si sviluppano, infatti, tendono a diventare diverse le une dalle altre, nel senso che acquisiscono un’esperienza più complessa. Al giorno d’oggi, d’altra parte, con internet, assistiamo alla diminuzione del livello di complessità dell’esperienza e, dunque, anche a quello del livello di complessità delle personalità.

 

Platone sosteneva che il bene fosse l’idea delle idee. Per cui lo stato ideale si sarebbe dovuto associare a questo ideale e assomigliarvi. Credi che nei nostri tempi, in cui la politica è costituita prevalentemente da interessi privati e corporativi, questo ideale possa essere attuale?

 

Assolutamente no, ma non credo, tuttavia, la visione di Platone ci porti lontano. L’aspetto interessante di Platone è quello di aver pensato la forma di vita come una forma politica, tuttavia il contenuto della sua utopia sicuramente non ci riguarda da vicino. Ne è trascorso di tempo ed il mondo è cambiato. Non che non possa cambiare tornando simile a quello che era al tempo di Platone, ma è molto difficile che accada.

 

Credi che la politica possa corrispondere alla ricerca del bene?

 

Questo sì, ma una volta affermato questo il problema è soltanto aperto nel senso che questa è la lettera “a” del discorso… Ci sono poi tante altre lettere e molto ancora da discutere; sì la politica è la realizzazione di un progetto su come stare insieme nel mondo, per cui si conforma ad un’idea. Tuttavia il problema è che la politica viene considerata oggi come una direttiva che possa sorgere al di là delle forme di vita esistenti, mentre oggi si percepisce con estrema chiarezza la difficoltà di trasformare con la politica quella che sono le abitudini, le forme, le pratiche sociali condivise; oggi è ancora più chiaro rispetto al passato che la politica riesce ad influire nel mondo reale in un modo solo relativo. Oggi, questo, è ancora più vero perché la vita reale si è indubbiamente velocizzata, rendendosi, insieme, più articolata. In questo modo la politica si limita ad essere l’espressione economica di una volontà di un gruppo assai ristretto di persone.

 

In un’era come questa, in cui la politica è espressione di una casta, quando non un semplice gioco di potere, come si fa a credere ancora che questo sia il modo o il canale attraverso cui ottenere un cambiamento per tutti? Quanto una persona che fa politica oggi deve essere ottimista per agire? Cioè, deve avere una fede politica?

 

Mah, come dicevi tu prima rispetto alla coscienza, se qualcosa si fa presente, certo si fa presente attraverso la coscienza. Similmente, se qualcosa cambia, certo cambierà attraverso la politica. Però non è detto che cambi, così come non è detto che qualcosa diventi cosciente per un individuo. Da diversi punti di vista non credo che oggi ci sia molto da essere ottimisti, però credo pure che la politica non ha per forza a che fare con l’analisi realistica della situazione. Certo deve anche nutrirsi di questo, cioè dell’analisi di ciò che sta succedendo. Però la politica è anche l’espressione di una presa sul mondo che riguarda la condizione particolare degli individui, per cui tu lotti, investi, agisci pur sapendo che non puoi conoscere in realtà l’andamento complessivo delle cose, e dunque neppure la verità di ciò che sta effettivamente accadendo nel mondo. Voglio dire si vive e si lotta magari per delle cose, che poi, una volta ottenute, determinano l’opposto di ciò per cui si è lottato; ma tutto questo non lo si può sapere prima. Con la nostra stessa vita noi prendiamo parte alle cose, ci mettiamo in gioco nella storia.

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Dunque la politica credi sia più un’arte o una natura?

 

Ma la politica di chi?

 

In genere la politica come istinto umano.

 

La politica non credo sia un istinto umano, credo, invece, che lo stare insieme sia un istinto umano. La politica è il modo in cui si possono gestire l’organizzazione e le infrastrutture di questo stare insieme. Credo, allora, che la politica non debba essere un’arte, nel senso di qualcosa di esclusivo, debba però essere un’arte nel senso di qualcosa di armonizzatore.

 

Dunque per te la politica è congenita? In termini di logica astratta, secondo te lo stato civile si è formato uscendo da uno stato di natura, attraverso quali mezzi? Cosa è che ha determinato l’azione collettiva, istituire un certo governo e farlo reggere da determinati principi?

 

Sulla questione dello “stato di natura” e “stato di diritto” non sono molto convinto che si tratti di uno schema che funzioni ancora oggi. Penso che la conquista dell’occidente nella modernità sia stata quella di pensare di trasformare la vita attraverso l’azione collettiva e, facendo così, di rompere una tradizione, rompere, in qualche modo, lo schema della ripetitività del tempo.

 

È mai esistito uno stato di natura nel senso di uno stato in cui gli uomini non avevano un governo? Nella natura umana è insito questo principio dell’istituzione politica?

 

Il governo non è semplicemente un parlamento, o un capo tribù; il governo è un ordine che la comunità dà in qualche modo a se stessa. Il problema, tuttavia, è come lo dà e chi lo rappresenta. Quindi, non può esserci qualcosa che non abbia un governo, però questo non vuol dire che ciò che noi oggi chiamiamo governo abbia molto a che fare con l’idea di governo in generale; cioè si può benissimo sostenere che ci sono state epoche umane in cui la comunità degli uomini non prevedeva stati e che queste situazioni come ci sono state nel passato, così potranno o forse dovranno anche esserci nel futuro. Questo, tuttavia, non vuol dire che non avranno un governo. Lo stato non è una cosa in sé positiva o negativa. Il problema è capire cosa significhi lo stato. Lo stato diciamo diventa necessario in alcune fasi storiche, rimane, poi, necessario anche in altre, per quanto in forme diverse. Ma lo stato in quanto istituzione può essere assai meno separato dalla società civile, per dirla in termini classici, da come noi oggi siamo stati abituati a conoscerlo. D’altra parte delle tante funzioni odierne dello stato, per dire, già oggi non ce n’è bisogno più come prima, e tutto sommato l’ideale futuro potrebbe essere quello del riavvicinamento fra coloro che sono dirigenti dello stato e coloro che sono governati da questo.

 

Andando a ritroso nei tempi antichi, all’origine della vita, e facendo un esperimento mentale. Credi che la proprietà sia un diritto che l’uomo si è ricavato con il tempo, e quindi possa essere assimilata ad una delle varie istituzioni e forme politiche (governo, parlamento), oppure che sia un diritto inalienabile dell’uomo, come consideravano gli illuministi del ‘700?

 

Non ho capito in verità l’opposizione delle due posizioni. Non capisco perché le metti in contrasto…

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Perché nel caso in cui fosse un diritto inalienabile dell’uomo, questi non avrebbe bisogno di svilupparsi politicamente per istituirlo, invece se frutto di un’evoluzione sociale sarebbe semplicemente una codificazione del vivere comune, della nostra società civile che tutela la proprietà.

 

Io credo che la proprietà rappresenta una sorta di relazione con la finitezza da parte dell’uomo; la proprietà è, infatti, quello che puoi tramandare, quello che rimane tuo, in modo stabile, al di là dell’uso che ne fai, puoi anche non usare una cosa che è tua, te la puoi tenere, la puoi fittare, ad esempio, la puoi dare ai tuoi figli o lo puoi far fruttare in qualche modo. Secondo me questo corrisponde ad una certa fase dell’evoluzione del genere umano, per quanto non è detto che dopo ci sia una fase migliore. Direi tuttavia che tutto ciò dipende da un certo rapporto che l’uomo instaura con la vita. Per cui non credo che la proprietà sia un bene inalienabile dell’uomo, cioè un suo diritto fondamentale. Storicamente la proprietà ha avuto una sua importanza perché questo significava che ci si potesse far forti di una proprietà che si aveva, per potersi sviluppare in una certa direzione, mentre senza la proprietà di nulla, forse non si sarebbe andati da nessuna parte perché tutto sarebbe stato molto più confuso, disordinato e, diciamo così, poco garantito. Tuttavia la proprietà in sé ha qualcosa di perverso e cioè il principio dell’esclusività, si considera ciò che si ha importante per il semplice fatto di averla e non per il fatto, ad esempio, che la si usi. In questo modo non si riconosce, invece, come per la maggioranza dei beni, specie per quelli di livello intellettuale o spirituale, la condivisione non annulla la fruizione individuale. La condivisione di un’idea, la condivisione di un’espressione artistica, come quella della cultura, ma molto spesso anche quella di beni materiali, non diminuisce l’uso che ciascuno di noi due ne può fare, anzi l’accresce, quando costituisce l’occasione di una condivisione, e di un arricchimento.

 

Quindi secondo te la proprietà è indipendente dal lavoro?

 

Storicamente non lo è stato, o almeno non è lo stato rispetto al modo in cui si è sviluppata la nostra società borghese. Ma adesso lo sta ridiventando perché ormai il lavoro produce molto poco valore e il valore non si capisce più bene da dove venga, dal momento che ormai quasi tutto deriva dal lavoro delle macchine e dalla loro sempre più elevata resa. A parte questo credo che la proprietà dovrebbe essere sganciata dal lavoro; questo potrebbe essere un ideale da immaginare.

 

Ma come sarebbe possibile? In questo caso cosa stabilirebbe una proprietà, cosa farebbe la differenza fra ciò che è mio e ciò che tuo? Non capisco.

 

Direi che la differenza sarebbe costituita da una formalità che la società stabilisce e riconosce come tale. Poi è chiaro che ci sono cose che non possono essere condivise, ciascuno deve avere una razione minima di latte o di altre cose necessarie.

 

Lo so, però, allora la proprietà non dovrebbe neanche più essere ereditaria a questo punto?

 

Io credo che la società dovrebbe garantire a tutti gli individui che ci sono una certa razione delle risorse disponibili.

 

Però dovrebbero essere razioni equivalenti, e allora, in quanto uguali, non sarebbero più proprietà.

 

E infatti così credo dovrebbe essere.

 (torna su)

Se ognuno ha un pezzo di terra uguale a quello dell’altro allora che proprietà è? È una concessione…

 

Sono d’accordo.

 

Proprietà non è quello che lo stato mi può concedere a suo piacimento, proprietà è qualcosa che lo stato deve tutelare.

 

Sono d’accordo che sia così, ma non lo trovo un problema.

 

Ma come potrebbe essere concretamente possibile?

 

Sarebbe possibile; forse oggi ancor di più, dal momento che si è persa quella relazione trasparente fra il soggetto al lavoro e modo di produzione effettiva del valore. Questa relazione è, infatti, evidente quando si prende il caso di un contadino che lavora la sua terra, o di un artigiano che costruisce un vaso, ma non lo è oggi quando la maggior parte dei lavori non produce proprio niente e si risolve o nel controllo delle macchine o in una certa messa a valore di capacità della tecnologia, oggi soprattutto informatica. Questo perché il tuo lavoro diventa un occupare un certo luogo per un certo tempo, ma non produce necessariamente di per sé. In questa maniera il tuo lavoro diventa effettivamente intercambiabile, vale a dire che aumenta la quota sociale nella produzione complessiva di valore in una certa società. Se prima, per lavorare la terra, la società ci metteva la zappa, in quanto nuova acquisizione tecnica, e il resto e tutta la forza ce la mettevi tu, oggi la società ti dà il trattore o la scoperta dell’elettricità o, l’elettronica. Per la qual ragione, con pochi gesti, si è in grado di conferire alla materia che si lavora un enorme valore. Tuttavia, in questa valorizzazione, la quota sociale (per lo più imprigionata nelle macchine) che rientra nell’ammontare totale della produzione è molto alta. Perché? Perché l’elettricità non l’hai scoperta tu, il trattore non l’hai scoperto tu, internet nemmeno, così come non sei tu materialmente che porti la corrente da un luogo all’altro. Aumentando il potere della tecnologia, la produzione di valore diventa un processo sempre più impersonale, e indipendente dalle caratteristiche particolari di chi lavora.

 

Quindi dici che nel mondo in cui siamo arrivati è indifferente che ormai qualcuno lavori o non lavori la propria proprietà.

 

Non è indifferente, però diventa meno differente di quanto non fosse prima…

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...perché il valore non è dato dalla quantità di valore che con il lavoro direttamente vi si immette, bensì dall’occupare, in modo contingente, un certo spazio per un certo periodo di tempo. Credo che questo sia vero, però quello che cercavo di capire io è se credete che per natura noi abbiamo diritto a ritagliarci un pezzo di terra e dire: questo è mio e nessuno me lo tocca e ho diritto a lavorarlo…

 

Io credo che esista il diritto alla vita, ma non nel senso banale del termine. Diritto a poter usufruire delle risorse necessarie al mio sviluppo come essere umano; non diritto, quindi, a dire questa terra è mia e non è tua, piuttosto diritto a nutrirmi, avendo personalmente la proprietà di una terra o non avendola. Aver diritto, cioè, a partecipare alle risorse collettive. Perché? Perché avere una terra è un concetto molto aleatorio. Che vuol dire possedere una terra? In origine gli alberi, la natura, le risorse non appartengono certo agli uomini. Gli uomini sono un anello della catena della natura, e quella della proprietà è una formalità giuridica che l’uomo, giustamente, ha deciso di mettere in atto dal punto di vista sociale. Però diciamo che l’uomo oggettivamente è un anello della natura. Ad esempio perché la proprietà non esiste per gli animali, o comunque non esiste da un certo punto di vista per loro? Perché gli animali vivono, forse senza rendersene troppo conto, in modo più immediato la loro condizione finita. Nel senso che vivono, mangiano, si riproducono…

 

Però non è vero che non esiste per gli animali, perché il nostro concetto di proprietà è diverso, gli animali a loro volta occupano un territorio.

 

Sì ma non è proprietà perché non la tramandano…

 

La differenza io credo sia che non abbiano avuto un’evoluzione razionale, politica; sicuramente se un domai i leoni stabilissero un codice razionale in cui la proprietà venisse sancita, stai sicuro che la tramanderebbero anche…

 

Questo sì, e infatti non dico che gli animali sono meglio degli uomini. Credo che gli uomini possano recuperare quello che gli animali esprimono solo in una certa forma, una forma più inconsapevole, cose che esprime la natura tutta. Si può mai pensare che l’aria possa essere privatizzata, ad esempio? Di chi è l’aria che io respiro? È mia sì, ma io da chi l’ho presa? C’è un livello della natura in cui non si può fissare “il mio” e “il tuo”.

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D’accordo, ma poniamo l’ipotesi che domani il buco dell’ozono diventando enorme, cominci ad alterare l’equilibrio dell’atmosfera terrestre, e che diminuisca la quantità d’ossigeno; credo che in questo caso sicuramente, ognuno si guarderà bene la propria aria, volendone diventare in un certo senso proprietario…

 

Sì, è vero ma l’aria è un elemento così impalpabile che sarebbe difficile quantificarla in qualche modo.

 

Sì, ma, al di là di questo, vorrei che ti esprima ancora sul diritto che noi avremmo, rispetto a chi possiede una terra ricevuta in eredità, e che ovviamente non ha detenuto in maniera infruttuosa, a prendergliela, anche se domani ci trovassimo di fronte ad una crisi alimentare, una crisi che necessita una requisizione forzata…

 

Il problema, credo, sia che diritto aveva lui di prenderla all’inizio. La proprietà di questo tipo non nasce storicamente dal lavoro. A questo riguardo non credo ci sia un diritto. Questo tipo di diritto si è costituito in ragione della maggiore forza; in questo modo si è formata storicamente la proprietà.

 

E quindi un individuo, che lavorando dignitosamente la propria terra, e che non ha alcuna ambizione di sopraffare gli altri, ma semplicemente ha solo voglia di lavorare, non ha diritto a possedere una terra per poter lavorare?

 

Ma questo è un altro discorso. Il discorso della piccola terra è differente; anche per quanti oggi siamo nel mondo (e siamo tanti) ciascuno potrebbe tranquillamente avere il diritto di coltivare il suo appezzamento di terra. Il problema riguarda le grandi proprietà. Storicamente i problemi sono sorti, infatti, quando qualcuno ha cominciato a prelevare le proprietà e le terre comuni rendendole terre private. Tutto il seguito è dipeso da questo, perché avendo qualcuno molto più di altri, questi ha potuto porli sotto ricatto e, accumulando sempre maggiori ricchezze, accrescere il divario di potere oggettivo fra sé e loro. La situazione odierna è divenuta quella di un’incredibile sproporzione fra il potere e la quantità di ricchezza di alcuni rispetto a molti altri. Personalmente sarei molto d’accordo con il ridare un valore al lavoro, e non annullare questo valore, proprio perché questo valore oggi tende ad essere annullato. L’importanza sociale del proprio lavoro potrebbe anche essere recuperata, anche se non in un senso stakanovista o astrattamente ideale. Piuttosto per la ragione che così come noi prendiamo dalla natura, al contempo, noi possiamo e dobbiamo dare anche al mondo che ci circonda. Dunque non per un dovere, ma perché è proprio delle specie viventi,e non solo, ridare ciò che è stato preso. Anche da un punto di vista biologico il ciclo della vita non è altro, in fondo, che questo. Ma non è cosa da poco: riuscire a prendere e, contemporaneamente, a dare, dà un senso di compiutezza alla nostra esistenza. D’altra parte lavorare significa tante cose: significa concentrarsi, così come può significare svilupparsi. Per tante generazioni, tra l’altro, ha significato educarsi alla vita e al mondo.

 

AGOSTO 2012

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