LA DECRESCITA È UNA 
		SOLUZIONE ALLA CRISI?
		
		Serge Latouche 
		(traduzione a cura di 
		Giovanna Caiazzo)
		Trascrizione di un 
		intervento dell’autore tenuto a Marseille nel Marzo del 2010. 
		Oggi abbiamo lo 
		straordinario privilegio di assistere in diretta a niente di meno che il 
		crollo della civiltà occidentale. Non abbiamo avuto la possibilità di 
		assistere a quello dell’Isola di Pasqua e dei Vichinghi della 
		Groenlandia, né a quello dell’Impero romano, tutti perfettamente 
		descritti in Collapse[1], 
		il libro culto – peraltro molto documentato – dell’americano Jared 
		Diamond. Ma viviamo il crollo dell’impero occidentale-americano, che 
		somiglia molto a quello dell’Impero romano, con la differenza che 
		quest’ultimo si è protratto per diversi secoli mentre il “nostro” crollo 
		finale viene predetto per il periodo 2030-2070.
		
		Nell’agosto 2007 è 
		apparsa – “finalmente apparsa” dicono i vecchi marxisti – una crisi che, 
		se fu immediatamente classificata dai nostri governanti come 
		“finanziaria e americana”, non ha mancato di aggravarsi soltanto un anno 
		dopo. Con la bancarotta della Lehman Brothers, una delle più grandi 
		banche mondiali, il 16 settembre 2008, non era più possibile nascondere 
		che la crisi era contemporaneamente mondiale, finanziaria ed economica. 
		La situazione di crisi non era nuova. Era
		ecologica almeno dal 1972 con 
		il primo rapporto al Club di Roma,
		sociale con la fine del fordismo e la prima crisi petrolifera nel 
		1973-74, e poi negli anni ’80 con la controrivoluzione neoliberale 
		dell’epoca Reagan-Thatcher – dove la società dei consumi non funzionava 
		che in modo fittizio e virtuale – e infine
		culturale dal maggio 1968. Ma 
		arriviamo oggi ad un momento in cui tutte queste crisi si scontrano fino 
		a dar vita ad una crisi antropologica, cioè decisamente una crisi di 
		civiltà.
		
		Di fronte ad una crisi 
		di questa ampiezza, non è più sufficiente essere un economista; e qui 
		insisterei su una riflessione di Woody Allen, uno dei più grandi 
		filosofi dei nostri tempi. Dice: «Siamo arrivati all’incrocio di due 
		strade, una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione 
		totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta». Bisogna prenderla 
		molto sul serio. La prima di queste vie è stata quella di una società 
		della crescita con la crescita, quella degli anni d’oro del capitalismo, 
		di cui sappiamo che si va diritti verso la catastrofe a forza di 
		irregolarità climatiche, di scomparsa delle specie, di sfruttamento 
		delle risorse delle energie fossili, etc. Una prima via che abbiamo 
		saggiamente, e fortunatamente, abbandonato dall’agosto del 2007 per 
		imboccare la seconda, quella della disperazione: quella di una società 
		della crescita senza crescita, in crisi, in recessione. È preferibile 
		essere disperati piuttosto che sparire? Ecco un bel tema di riflessione 
		filosofica...
		È importante percorrere 
		queste due strade per arrivare a capire che forse ce n’è una terza: una 
		strada di speranza, quella di un altro mondo possibile, vale a dire 
		quella della decrescita. Per comprendere le ragioni che renderebbero 
		possibile questa terza via, cominciamo col capire perché sembriamo 
		bloccati nell’impasse tra una 
		società della crescita con la crescita, che porta alla scomparsa della 
		specie, e il mondo disperato e terrificante di una società della 
		crescita senza crescita.
		Sebbene la situazione 
		sia catastrofica, non si è avviato nessun cambiamento reale. Persino le 
		piccole ripuliture del programma 
		Grenelle Environnement (abbandono dei pesticidi, introduzione di una 
		tassa sulle emissioni di carbonio) sono finite nel dimenticatoio 
		post-elettorale. Si è tornati al buon programma della crescita dura e 
		pura, del rilancio delle industrie più inquinanti: automobili, edilizia, 
		agricoltura produttivistica. Per uscire da questa logica dobbiamo 
		compiere il percorso inverso: capire come ci siamo entrati, 
		decolonizzare il nostro immaginario, sgonfiare la bolla speculativa 
		della grande recita trionfalista della crescita industriale occidentale.
		Tutto è cominciato nel
		xviii secolo con la nascita 
		del capitalismo e dell’economia politica, che situeremo simbolicamente 
		nel 1776, l’anno dell’apparizione del saggio sulla ricchezza delle 
		nazioni di Adam Smith[2], 
		fondatore dell’economia politica e riferimento essenziale degli 
		ultraliberisti. Rappresentativa del movimento dei Lumi, del pensiero 
		illuminato del xvii secolo, 
		l’utopia liberale di Adam Smith è quella dell’arricchimento di tutti per 
		la liberazione dalle passioni (ivi compresi l’avidità, l’egoismo e la 
		ricerca degli interessi più sordidi). Egli afferma che grazie al 
		meraviglioso meccanismo della “mano invisibile” sarà assicurata la 
		felicità dei più. È lo slogan della modernità: “maggiore felicità per il 
		maggior numero”, che gli economisti hanno elaborato, teorizzato nella 
		loro lingua sacra (l’inglese), fino a diventare poeti a forza di 
		metafore, con il nome di trickle-down-effect.
		La metafora più in uso 
		è quella della marea: quando il livello del mare si alza, tutte le 
		barche salgono, grandi e piccole. Quando c’è la crescita tutti ne 
		beneficiano: i ricchi si arricchiscono, ma anche i poveri, un po’... È 
		il grande mito occidentale dell’economia, della crescita e dello 
		sviluppo.
		Tuttavia nel
		xviii secolo, quando il 
		capitalismo comincia ad apprestarsi, non si tratta ancora d’altro che 
		d’un mito. Non ha niente a che vedere con la realtà. Certo la borghesia 
		inglese si arricchisce (molto), ma i popoli, quello inglese come quello 
		europeo, sono proletari. I contadini vengono allontanati dalle loro 
		terre per ammassarsi nelle periferie insalubri di Liverpool o 
		Manchester. Gli artigiani sono rovinati, fanno parte di un immenso 
		proletariato di disoccupati, senza tetto, mendicati, senza fissa dimora, 
		lavoratori immigrati.
		Non mancano le 
		testimonianze che denunciano la spaventosa miseria, sconosciuta allo 
		schema evoluzionista della crescita illimitata, degli inizi 
		dell’industrializzazione; abbiamo quelle di Dickens, Marx e Engels. Marx 
		citava anche i tessitori indiani condannati dal capitalismo, le cui ossa 
		(e quelle delle loro immense famiglie) imbiancavano le pianure del 
		Gange! Nel corso di un secolo il sogno di Adam Smith si è rivelato un 
		vero e proprio incubo. Eppure accade che le utopie prendano corpo: dopo 
		un secolo il sistema capitalista si è trasformato grazie alla via 
		termo-industriale basata sulle macchine a fuoco, come le macchine a 
		vapore che permettono l’utilizzo delle energie fossili.
		
		La straordinaria 
		potenza della macchina a vapore (che funziona a carbone) permette una 
		demoltiplicazione dello sforzo e un aumento importante della produzione 
		intorno al 1850. Marx scrive allora che il capitalismo si annuncia come 
		una immensa accumulazione di merce. Ora, siccome queste merci non 
		possono essere tutte consumate, il sistema ogni dieci anni va incontro 
		ad una spaventosa crisi di sovrapproduzione. Milioni di persone vengono 
		licenziate, ancora più brutalmente che ai giorni nostri; poi c’è la 
		ripresa, e , due o tre anni dopo, il sistema riparte per un nuovo 
		decennio di crescita.
		
		È stato necessario 
		attendere ancora un altro secolo perché il mito di Adam Smith divenisse 
		realtà, e che lo fosse per trent’anni (1945-1975). L’arma assoluta 
		diventa allora il motore a scoppio e il suo carburante, il petrolio. 
		Grazie a queste nuove meccaniche ognuno dispone di un’energia 
		equivalente a quella da 50 a 150 schiavi (ciò che solo i romani più 
		ricchi potevano permettersi). Bisogna sapere che trenta litri di benzina 
		nel nostro motore corrispondono al lavoro di un operaio nel corso di 
		cinque anni (per qualche decina di euro!). È assolutamente favoloso, ma 
		non può durare a lungo: oggi siamo arrivati al picco di Hubbert[3].
		La festa è finita già 
		dal 1975, ma il genio della finanza Alan Greenspan, presidente della 
		banca americana dal 1987 al 2006, è riuscito a prolungare di trent’anni, 
		virtualmente, l’illusione della crescita. Sebbene negli Stati Uniti si 
		stimi una crescita continua del prodotto interno lordo (pil) 
		per abitante, anche ben oltre i livelli dei
		Gloriosi Trenta (1945-1975), 
		questi risultati non tengono conto dell’aumento dei costi della 
		crescita: costi di riparazioni (trattamenti conseguenti agli effetti 
		nefasti dei pesticidi, dei concimi, inquinamento dell’aria, etc.) e 
		costi di risarcimento (suicidi sul lavoro, consumo di ansiolitici e 
		antidepressivi). Herman Daly ha mostrato che sottraendo questi costi (in 
		aumento dal 1972) al Prodotto Nazionale Lordo (pnl), 
		l’indicatore di benessere, che lui chiama
		Genuine Progress Indicator, 
		ristagna, per poi diminuire inesorabilmente.
		Il periodo dei
		Gloriosi Trenta è quello detto 
		della società dei consumi, dell’opulenza, basato sulla triade 
		«pubblicità, credito e obsolescenza programmata». La società dei consumi 
		non è quella del benessere e della felicità, ma quella della 
		frustrazione. La pubblicità ci rende insoddisfatti di quello che 
		abbiamo: siamo spinti a desiderare ciò che non possediamo e consumiamo 
		di conseguenza. Il credito ce ne dà i mezzi, talvolta oltre ogni misura, 
		come dimostrano i crediti ninjna negli Stati Uniti (No incom, No job, No asset – nessun reddito, nessun lavoro, nessun 
		patrimonio) che hanno portato decine di milioni di americani ad 
		indebitarsi sconsideratamente comprando case mono-familiari. La 
		speculazione era tale che il plus-valore delle case così acquistate 
		garantiva i rimborsi. Non volendo gli economisti ammettere che gli 
		alberi non crescono fino a toccare il cielo, il sistema è crollato 
		nell’agosto del 2008. Ma la ripresa questa volta non sarà di lunga 
		durata: il pianeta non può sopravvivere ad una nuova fase di forte 
		crescita.
		Il credito ha portato 
		alla cosiddetta crisi dei subprimes, dal nome dei prestiti di rifinanziamento accordati in 
		maniera sconsiderata a delle famiglie insolventi a tassi usurai. Questi 
		crediti a tassi d’interesse molto elevati sono stati mischiati ad altri 
		crediti non tossici, ma con tassi d’interesse a basso rendimento, per 
		formare dei titoli molto attraenti, chiamati prodotti derivati. Ne 
		sarebbero stati emessi per 600.000 miliardi di dollari, cioè sedici 
		volte il prodotto dell’intero pianeta! E le alcune migliaia di miliardi 
		di dollari messi a disposizione per salvare le banche non sono che una 
		goccia d’acqua, ecco perché ci sarà certamente una nuova ricaduta molto 
		più grave.
		Ultimo elemento di 
		questa triade: l’obsolescenza programmata di tutti i prodotti, in 
		particolare gli elettrodomestici, che è diventato ormai più caro 
		riparare che sostituire. Fabbricati in Cina da persone sottopagate, 
		vengono gettati al minimo guasto. Avviene 
		così che, ogni mese, 800 navi partono dagli Stati Uniti cariche 
		di computer di scarto contenenti metalli ora preziosi, ora tossici – il 
		cui sfruttamento ha un prezzo umano enorme
		(le guerre nel Congo). Invece che essere riciclati, questi 
		metalli, che verranno ben presto a mancare, vanno ad inquinare le falde 
		freatiche e a provare il cancro ai bambini in Nigeria, e in Ghana dove 
		vengono selvaggiamente scaricati.
		Siamo sopraffatti da 
		una forma di totalitarismo non violento come nella Germania nazista o in 
		Unione sovietica, ma soft, 
		della quale siamo tutti complici e che ci porta difilato alla sesta 
		estinzione delle specie. Questa sesta estinzione si differenzia dalla 
		quinta, che ha avuto luogo 65 milioni di anni fa e ha visto la scomparsa 
		dei dinosauri, per il ritmo molto accelerato (diverse migliaia di volte 
		più rapida della quinta, con l’estinzione ogni giorno di un numero di 
		specie che va da 150 a 200) e perché tocca degli attori fondamentali 
		della biodiversità, alla maniera delle api, che soccombono a causa delle 
		onde magnetiche e dei pesticidi.
		Per fortuna – questa è 
		una buona notizia – la crisi rallenta il nostro consumo di petrolio (e 
		l’inquinamento ad esso associato). Ci concede una proroga supplementare. 
		«La decrescita, ci siamo già e non è divertente» affermava 
		Pierre-Antoine Delhommais, cronista economico del quotidiano
		Le Monde.
		Adesso, ciò che «non è 
		divertente» – Delhommais sarà stato vittima di confusione – non è la 
		decrescita, ma la recessione, ovvero la situazione di una società di 
		crescita senza crescita; situazione della quale sappiamo da Hannah 
		Arendt che non può che generare disoccupazione, povertà e bilanci 
		pubblici esangui (educazione, salute, cultura).
		Oggi siamo in una 
		condizione di crescita negativa che, a termine, non potrà essere gestita 
		che da una dittatura. In alcune istanze (il gruppo di Bilderberg, per 
		esempio), si pensa che, se il livello di vita degli Americani non è 
		negoziabile, bisognerà cominciare a ridurre seriamente le dimensioni 
		dell’umanità. Per mantenere questo livello di vita sulla Terra al suo 
		stato attuale bisognerebbe eliminare i 9/10 dell’umanità. Dei 500 
		milioni di persone restanti, bisognerebbe infine asservirne 490 milioni 
		per permettere ai 10 milioni restanti di continuare a viaggiare nelle 
		4x4, di bruciare la candela ai due lati.
		Far funzionare il 
		nostro pianeta malato con lo stesso programma di società della crescita, 
		vale a dire il sistema capitalistico, non sarà possibile che con una 
		nuova mutazione sottoforma di un eco-totalitarismo, di un eco-fascismo, 
		di cui la fantascienza ci ha dato talvolta delle visioni molto 
		realistiche, come in 2022: i 
		sopravvissuti[4].
		Molto fortunatamente – 
		e il grande filosofo Woody Allen è senza dubbio troppo americano per 
		considerarlo – esiste un’altra possibilità, c’è una scappatoia: la 
		società della decrescita (da non confondere con la crescita negativa). 
		“La decrescita” in sé per sé è uno slogan; una decrescita generalizzata 
		sarebbe di fatto un’assurdità, un’aberrazione masochista. Al contrario, 
		il nostro progetto è di far aumentare la gioia di vivere[5] 
		allo stesso modo della qualità dell’acqua, dell’aria, della vita animale 
		o vegetale; tutto ciò che la crescita fa venir meno.
		Ma la crescita stessa è 
		affetta da assurdità. Così, se la si prolungasse ad un tasso del 2% 
		annuo nel corso di duemila anni, il prodotto sarebbe moltiplicato per 
		160.000 milioni di miliardi... Questa è la conseguenza di ciò che il mio 
		amico Giorgio Ruffolo, che è stato ministro dell’Ambiente in Italia, 
		chiamava giustamente «il terrorismo degli interessi composti». I 
		matematici sono terrificanti, terroristi; e per fortuna la realtà 
		sociale non gli obbedisce! Adesso rifacciamo il calcolo con un tasso di 
		crescita minuscolo, quasi inesistente, del 7/1000e: in 
		duemila anni il prodotto sarebbe moltiplicato di un milione – il che è 
		già delirante – e raddoppierebbe in un secolo. Viviamo su un pianeta 
		delimitato di 55 miliardi di ettari, che non sono tutti bio-produttivi, 
		e superiamo già del 50% la capacità di rigenerazione della biosfera: 
		questa situazione non può durare.
		Dobbiamo uscire dalla 
		società della crescita e creare una società della
		a-crescita. Si tratta di venir 
		fuori dalla religione della crescita, professarci agnostici di questo 
		progresso illimitato, atei della religione economica e dell’economia 
		politica, per raggiungere un sistema sostenibile; una società 
		“dell’abbondanza frugale” nella quale le persone, sapendo limitare i 
		propri bisogni, possano soddisfarli ampiamente.
		“Abbondanza”, perché 
		avremo più beni del necessario per soddisfare i nostri bisogni; 
		“frugale”, perché il soddisfacimento si otterrà non attraverso una fuga 
		dal consumo, ma con un’autolimitazione dei bisogni.
		Tutto questo presuppone 
		un altro tipo di produzione e soprattutto un altro tipo di 
		distribuzione. Gandhi diceva: «il pianeta è abbastanza grande e fecondo 
		per soddisfare i bisogni di tutti, ma sarà sempre troppo piccolo per 
		soddisfare l’avidità di qualcuno». Bisogna ritornare ai fondamenti del 
		socialismo: dividere più equamente una torta meno tossica.
		Non esiste una ricetta. 
		La “società della decrescita” non è un’alternativa, un modello chiavi in 
		mano, un nuovo organismo internazionale composto da esperti; non ci 
		saranno dei Fondi internazionali di decrescita al posto del
		fmi. La società della 
		decrescita è una matrice di alternative: non si realizzerà nello stesso 
		modo in Texas o in Chiapas. Quando verrà sollevata la cappa di piombo 
		dell’imperialismo economico si riaprirà la storia della diversità 
		culturale. Poiché ogni popolo, ogni cultura ha il diritto di trovare la 
		propria via per realizzare una società dell’abbondanza frugale. Lo 
		spazio è nuovamente aperto alla politica, alla storia; è compito degli 
		uomini prendere in mano il proprio destino.
		Gli Illuministi avevano 
		il (nobilissimo) progetto di emancipare l’umanità. Ma una volta caduta 
		nella trappola dell’economia, la società degli uomini è stata sottomessa 
		alla dittatura dei mercati finanziari. La Grecia, alla quale dobbiamo 
		l’invenzione della democrazia, oggi è condannata a passare sotto le 
		forche caudine dei truffatori della Banca centrale europea. A dispetto 
		del loro voto socialista, i Greci sono – tradimento totale – condannati 
		ad una spaventosa austerità. Come loro, anche noi siamo sottomessi alla 
		tirannia della mano invisibile. Mentre un tempo, sotto l’Ancien
		Régime, potevamo tagliare la 
		testa al re, adesso non sappiamo come prendercela con la Borsa. Come 
		dare la caccia ad una mano per definizione “invisibile”?
		Il programma della 
		decrescita mira a farci riappropriare del nostro destino, a rifare 
		politica, a prendere in mano il nostro avvenire, in una parola a 
		decidere. Cosa produrre? Il nucleare? Le biotecnologie? Come produrre? 
		Attualmente non veniamo consultati; tutto viene deciso per noi, senza di 
		noi.
		Non c’è un modello già 
		dato per i progetti di costruzione di società dell’abbondanza frugale, 
		ma tutti obbediscono all’imperativo di rompere con la logica della 
		crescita. Il progetto si situa su due livelli: quello d’inizio, della 
		concezione, cioè l’utopia concreta, l’orizzonte, l’obbiettivo che ci si 
		prefigge, poi, in un secondo tempo, quello della realizzazione, della 
		messa in opera.
		Quanto all’utopia 
		concreta di ciò che dovrebbe e potrebbe essere una società della 
		decrescita, possiamo dare delle indicazioni “al negativo”. La 
		realizzazione dipende di certo dal luogo, dal contesto: siamo condannati 
		ad essere molto limitati, e il nostro potrebbe essere un progetto per 
		uno Stato, una regione, una città, un quartiere. Ma qualunque sia la sua 
		localizzazione, il progetto politico è fortemente
		rivoluzionario: si tratta di 
		una rottura con la logica della società della crescita e la sua 
		pesantezza; e la sua realizzazione è necessariamente
		riformatrice: si realizza 
		localmente attraverso una serie di modifiche concrete di certi tipi di 
		funzionamento.
		Negli anni sessanta, i 
		miei maestri, economisti, si riempivano la bocca dei “circoli virtuosi 
		della crescita” il cui guadagno di produttività consentiva l’aumento dei 
		profitti, dei salari, delle imposte. Però questo significava dimenticare 
		due grandi perdenti. La natura da una parte: i cambiamenti climatici 
		attuali sono il risultato delle combustioni di ieri (sono necessari da 
		50 a 70 anni perché il diossido di carbonio si dissipi nella 
		stratosfera); e i paesi del Sud dall’altra parte, che sono passati dalla 
		povertà alla miseria, e sono sprofondati nel sottosviluppo. Eppure ho 
		conservato la nostalgia di quest’idea di circoli “virtuosi”, cioè di 
		interazioni positive, felici, tra diverse azioni e diverse tappe.
		Come pensare una 
		società della decrescita sostenibile, auspicabile? Una società di 
		non-crescita, di sobrietà scelta, volontaria e tuttavia allegra o 
		felice? Come concepirla “al negativo” in relazione alla società della 
		crescita?
		Tra i primi assi 
		fondamentali di questo cambiamento di società figura l’ordine dei 
		valori. La società della crescita si basa sulla guerra economica 
		generalizzata, la consacrazione dell’egoismo, la ricerca del massimo 
		profitto, la distruzione senza limiti della natura; bisogna reintrodurre 
		“un po’ di dolcezza in questo mondo di bruti” sviluppandovi la 
		cooperazione, l’altruismo, il senso dell’umano e il rispetto della 
		natura – condannati a vivere nella natura, dobbiamo comportarci come dei 
		giardinieri, non come dei predatori.
		E se cambiamo i valori, 
		saremo portati a modificare i concetti con cui viene colta la realtà; a 
		«riconsiderare la ricchezza» come dice Patrick Viveret, ma anche la 
		povertà che, sebbene a lungo vissuta come virtuosa (con il nome di 
		“frugalità”), è diventata indegna, trasformata dall’economia in miseria 
		materiale e morale. Bisogna sviluppare concetti di ricchezza diversi da 
		quello dell’accumulazione illimitata, altri tipi di ricchezze che quelle 
		economiche, e rimettere in discussione il binomio infernale, fondatore 
		dell’economia, di scarsità e abbondanza.
		La scarsità non è un 
		dato di natura, che è feconda, ma una costruzione sociale.
		Monsanto si spinge 
		infatti fino ad “espropriare” la natura, ad appropriarsi della 
		straordinaria fecondità delle specie e a trasformarle in profitto 
		vendendo ai contadini delle specie geneticamente modificate, dai semi 
		non-riproducibili.
		La scarsità comincia 
		nel xvi secolo con le 
		“enclosures”, ossia con l’appropriazione e la recinzione dei prati 
		comunali, che misero fine al tradizionale diritto di pascolo. Mentre 
		fino ad allora i proprietari terrieri avevano l’obbligo di lasciar 
		pascolare il bestiame liberamente nei loro campi dopo i raccolti, con la 
		recinzione dei campi privarono i più poveri (gli allevatori senza terre) 
		dei loro mezzi di sopravvivenza. Questo movimento di enclosures fu una vera catastrofe per i poveri in Inghilterra, e un’occasione 
		per i ricchi che non fecero che arricchirsi ancora di più.
		L’appropriazione del 
		vivente è tuttora in corso: quella delle specie, del corpo umano. La 
		realizzazione del profitto non ha etica né limite ed è per questo che è 
		così importante lottare contro gli 
		ogm. È un’altra forma di battaglia contro le enclosures.
		Rimettere in 
		discussione i concetti, cambiare i valori equivale a modificare il 
		programma, il software. A ciò 
		deve corrispondere un cambiamento dell’hardware, 
		nello specifico del sistema e dei rapporti di produzione. Bisogna 
		produrre altro e in modo diverso, questo implica un’immensa 
		riconversione del sistema e pone la questione dell’uscita dal 
		capitalismo. Crescita e capitalismo sono sinonimi. «Accumulare, 
		accumulare, questa è la legge e i profeti», ha detto Marx. 
		L’accumulazione del capitale è l’essenza del capitalismo, dunque 
		nient’altro che la denominazione marxista della crescita. Ed è perché 
		non ha mai rinunciato all’accumulazione del capitale che l’Unione 
		Sovietica non è mai veramente uscita dal capitalismo.
		Non esiste una ricetta 
		miracolosa, e l’idea non è quella di abolire la proprietà privata dei 
		beni di produzione. Ciò che conta è allontanarsi dallo spirito del 
		capitalismo; realizzare una rivoluzione culturale. Occorre andare in 
		questa direzione, conservare questa rotta. Una ristrutturazione di tal 
		tipo permetterà una ridistribuzione tra Nord e Sud, e tra generazioni, 
		della ricchezza, dell’impronta ecologica, della terra, del lavoro.
		Una delle forme 
		possibili di questa “rivoluzione” – che integra 
		la maggior parte di questi cambiamenti – è la “rilocalizzazione”, 
		l’antiglobalizzazione. La globalizzazione è un eccezionale trasloco 
		planetario: accade così che migliaia di camion si incrocino lungo il 
		tunnel del Monte Bianco, alcuni trasportano l’acqua San Pellegrino verso 
		la Francia, altri l’acqua Evian verso l’Italia. Peggio ancora: è 
		previsto un raddoppiamento dei flussi per il 2020 – che non può aversi 
		senza distruggere territori, creare nuove autostrade, nuove linee di 
		treni ad alta velocità. È il delirio assoluto con, alla fine, la 
		distruzione del pianeta. Per contrastare questo trasferimento 
		planetario, bisogna rilocalizzare. 
		La soluzione è nella reintroduzione di monete locali e 
		contemporaneamente nella ri-territorializzazione dell’economia, della 
		politica e della cultura. Ma andare controcorrente rispetto alla 
		de-territorializzazione accelerata alla quale assistiamo è un progetto 
		complesso.
		La sfida è ridurre 
		l’impronta ecologica, i rifiuti, i trasporti, il consumo eccessivo, gli 
		sprechi, i consumi energetici, la pubblicità e, soprattutto, ridurre gli 
		orari di lavoro.
		Sconfesso lo slogan che 
		ha avuto successo nel 2007: «lavorare di più per guadagnare di più». È 
		un raggiro che tutti gli economisti avrebbero dovuto denunciare. Un 
		aumento dell’offerta di lavoro in una società in recessione (dove la 
		domanda di lavoro ristagna, anzi diminuisce) non può, in effetti, che 
		condurre al crollo del prezzo del lavoro, cioè del salario. Ed è 
		esattamente ciò a cui abbiamo assistito.
		
		Il motto dei 
		sostenitori della decrescita potrebbe essere: «lavorare meno per 
		guadagnare di più», ma soprattutto «lavorare meno per lavorare tutti», 
		il programma (purtroppo abbandonato) dei socialisti nel 1981. Non sono 
		stati abbastanza audaci: bisognava trasformare i guadagni di 
		produttività in riduzione del tempo di lavoro (a quindici o venti ore) e 
		non nell’aumento della produzione di gadget. Noi, che sosteniamo la 
		decrescita, andiamo ancora oltre: «lavorare meno per vivere meglio», 
		vale a dire ritrovare le dimensioni schiacciate dell’esistenza... anche 
		se, incredibilmente, lavorare meno non è un auspicio condiviso da tutti 
		– il sistema è sufficientemente perverso da aver fatto dei lavoratori i 
		suoi agenti, ciò che gli Americani chiamano
		workalcoholics, work addicts, 
		“drogati di lavoro”.
		
		Siamo diventati 
		tossicodipendenti non solo da consumo, ma anche da lavoro. Eppure 
		sarebbero praticabili ben altre attività intelligenti. Le società umane 
		consacravano infatti molto tempo alla vita contemplativa, considerata 
		superiore alla vita attiva, produttiva: una vita di meditazione, di 
		riflessione, che permetteva di ritirarsi per pensare, per sognare; e 
		d’altronde anche nella vita attiva ci sono cose migliori da fare che 
		lavorare per un padrone quotidianamente, ad ore fisse. Si può fare del 
		bricolage, della musica, danzare, scolpire, dipingere... o fare politica 
		– la democrazia ha bisogno che si consacri del tempo alla lettura dei 
		testi, alla discussione, alla contraddizione, al dibattito. Ridurre il 
		tempo di lavoro è fondamentale per riappropriarsi del tempo stesso.
		
		Questa terza via, 
		quella della decrescita, è la sola che ci permetterà di evitare 
		l’eco-fascismo, la minaccia dell’eco-totalitarismo, per costruire un 
		futuro soddisfacente. Ma è una strada difficile. Nel mio libro
		La scommessa della decrescita[6], 
		intendo il termine “scommessa” nel senso di Pascal: anche se non ci si 
		crede, bisogna tentare; non abbiamo niente da perdere e tutto da 
		guadagnare. Parto dall’idea che la natura umana obbedisce 
		fondamentalmente a due forze: una forza d’attrazione e una forza 
		d’impulso. La forza d’attrazione è “l’ideale”: anche i più folli 
		aspirano, nel profondo di se stessi, ad un mondo migliore – ma è 
		terribilmente difficile rinunciare ai bonus, alle
		stock-options, alla propria 
		(tossico)dipendenza da consumo (ivi compresi i beni mediocri). La 
		seconda forza è quella della costrizione, della minaccia, che è ad un 
		passo dal prendere il sopravvento.
		L’attrazione verso 
		l’ideale è un’assunzione di responsabilità dei sostenitori della 
		decrescita. È a loro che tocca il compito di far sì che si aneli alla 
		società dell’abbondanza frugale; sta a loro mostrarne la necessità, il 
		dovere, l’urgenza. Resta il fatto che, di fronte ad una massa di 
		tossicodipendenti, che non sceglieranno la disintossicazione se non nel 
		caso di una temibile minaccia, si trovano i trafficanti di droga, ossia 
		le due o tremila firme transazionali che dominano il mondo – e che non 
		vi rinunceranno. Ed è proprio qui l’importanza della crisi: è necessario 
		che sia sufficientemente forte e massiccia perché la loro potenza ne 
		esca, se non distrutta, quantomeno considerevolmente indebolita. In 
		questo senso il fallimento della General Motors è una buona notizia. E 
		aspetto con impazienza quello di Monsanto!
		Scommettere sulla 
		decrescita significa che, in circostanze favorevoli al declino di coloro 
		che governano il mondo, gli uomini preferiranno la via della democrazia 
		ecologica a quella del suicidio collettivo. Ma non è che una scommessa.
		
		DICEMBRE 2012
		
[1] J. Diamond, Effondrement, Comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie (Collapse), Gallimard, « NRF Essais », 2006 (ed. it. Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2004).
[2] A. Smith, Recherche sur la nature et les causes de la richesse des nations [1776] (nouv. trad.), Économica, 2000 (ed. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1996).
[3] Calcolato dal geofisico Marion King Hubbert negli anni quaranta, il picco di Hubbert designa il momento a partire dal quale il livello delle risorse di petrolio genera una riduzione ineluttabile della produzione.
[4] 2022 : i sopravvissuti (Soylent Green) è un film di fantascienza di Richard Fleischer (Stati Uniti, 1973), tratto dal romanzo eponimo di Harry Harrison [NdE].
				
				
				
				
				
				[5] 
				Serge Latouche allude al giornale
				La Décroissance,
				il cui sottotitolo è « Il giornale della gioia di vivere » 
				[NdE].
				
				
				
				
				
				[6] 
				
				S. Latouche, Le Pari de 
				la décroissance [2006], 
				Fayard, 2010 (ed. it. 
				
				
				La scommessa della decrescita, 
				Feltrinelli, 2007)