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Maggio 2013

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Recensioni

DAVID HARVEY, IL CAPITALISMO CONTRO IL DIRITTO ALLA CITTà

Urbanità e marxismo

Alessandro D'Aloia

 

Il piccolo libretto pubblicato nel 2012 da Ombre corte, rappresenta un’occasione molto preziosa per cercare di inquadrare meglio il rapporto, storicamente asimmetrico, istauratosi tra marxismo e fenomeno urbano[1]. È un bene che a fornire questa occasione sia un geografo, sociologo e politologo che si definisce ancora un marxista senza timore di apparire fuori dal mondo. Il libro si compone di tre parti che sono in realtà tre articoli pubblicati in differenti occasioni: 1. Il diritto alla città; 2. Il diritto alla città. La visione di Henri Lefebvre; 3. Le radici urbane della crisi finanziaria. Restituire la città alla lotta anticapitalista.

Senza ripercorrere ordinatamente la successione dei numerosi spunti che l’autore fornisce, l’inten-zione è qui quella di focalizzare l’attenzione sulle tesi che paiono emergere con forza dall’insieme dei tre testi che compongono il libro.

La prima tesi è rappresentata dalla stretta interdipendenza esistente tra speculazione edilizia e crisi finanziarie. Per quanto i due fenomeni possano apparire indipendenti, soprattutto nella lettura consolidata delle crisi cicliche del capitalismo, Harvey fa notare come, al di là del fatto che l’ultima crisi convergente sia partita dalla vicenda dei mutui subprime americani, esista una storia antica di “bolle immobiliari” che precedono sistematicamente le crisi finanziarie a partire dalla Parigi di Haussmann. Questo perché l’autore spiega i processi di grossa urbanizzazione forzata come uno dei più importanti espedienti economici del capitalismo per impiegare l’enorme eccedenza concentrata che esso produce[2]. Il fattore tempo è l’elemento determinante nella finanziarizzazione dello spazio. I processi architettonici ed infrastrutturali, come le grandi opere, ad esempio, a differenza di altri processi produttivi, sono caratterizzati dal fatto di richiedere grossi intervalli di tempo per essere portati a compimento. Questo fatto permette di avere dei programmi di investimento all’altezza delle eccedenze che la società nel suo complesso produce e che naturalmente si concentrano in poche mani. Ciò che però rappresenta, da un lato, un espediente per l’impegno di risorse, costituisce, dall’altro, un problema. Infatti proprio a causa dei tempi lunghi necessari per il compimento delle opere, accade che prima che tale enorme massa di “investimenti” possa produrre degli effetti economici, realizzando almeno il valore investito, il capitale impiegato resta, per il grosso, improduttivo. Tale “periodo morto”, in termini di produttività del capitale investito, richiede dunque l’intervento della finanza, senza la quale sarebbe difficile evitare una andamento a singhiozzo dei processi urbani di grosso cabotaggio, senza contare che non è neanche detto che, in generale, l’eccedenza accumulata abbia natura differente da quella finanziaria[3]. È però un fatto che risolvere il problema delle eccedenze, cioè trovare un modo profittevole di impiegarle, non significa ancora realizzare il loro valore sul mercato. Capita anzi che tali valori si riescano a realizzare anche decenni dopo aver avviato i processi. Per questo motivo la componente finanziaria dell’eco-nomia viene a trovarsi puntualmente coinvolta nel buco nero dell’improduttività degli ingenti capitali anticipati nel settore edile ed è per questo che è quasi sempre possibile stabilire una connessione diretta tra grossa urbanizzazione e crisi finanziarie, al di là dello schema consolidato che vuole le crisi economiche quali conseguenze quasi esclusive della semplice sovrapproduzione di merci di consumo. Anzi è piuttosto facile rilevare come le crisi da sovrapproduzione classica non coinvolgano necessariamente risorse finanziarie, almeno in astratto. Di passata è utile osservare un corollario del meccanismo descritto e cioè che dal momento in cui si urbanizza il territorio soprattutto in relazione alla necessità di trovare uno sfogo al problema dell’ecce-denza, va da sé che i più grandi impegni costruttivi non rispondano certo ai reali bisogni sociali, con l’effetto di anarchizzare all’estremo la crescita urbana (infinita), senza certezza alcuna di poter realizzare profitti reali nel breve periodo. La conseguenza diretta è un consumo insensato di territorio sul piano delle risorse spaziali e di un rischio, sul piano economico, tanto più grosso quanto più megalomane è il progetto urbano. Il paradosso di questa situazione è che mentre fette sempre crescenti di comunità urbane vengano espulse dalla città[4], porzioni sempre maggiori di spazio urbanizzato sorgono per il solo scopo di materializzare capitali in cerca di una ragion d’essere. Ma ancora più problematico risulta essere l’aspetto del doppio controllo finanziario sul mercato urbanistico, infatti può accadere che la risorsa di capitale finanziario sia coinvolta sia dal lato della produzione edilizia, che da quello del mercato edilizio, quando con il meccanismo dei mutui si cerca di assicurare che le produzioni urbane vengano anche cedute in proprietà mediante il debito socializzato degli acquirenti. Con questo espediente si cerca di lavorare quasi su commessa, minimizzando il periodo morto al tempo tecnico di costruzione. Questo duplice coinvolgimento finanziario crea addirittura un doppio nodo tra dinamiche urbanistiche e flussi di capitale finanziario.

È noto che ciò che rende irresistibile l’impegno finanziario nell’urbanizzazione, al di là del problema dell’improduttività immediata, è l’eccezionale rendimento degli investimenti, che nessun altro settore è in grado di equiparare. Ma c’è di più. Quanto più un’operazione urbana è impossibile per la stragrande maggioranza dei fruitori e anche degli investitori, tanto più il ritorno economico tende a caratterizzarsi, più che come semplice profitto, ad esempio la differenza tra valore di mercato (o di scambio) e valore di costruzione, proprio come rendita permanente. Per chiarire meglio, se il valore di mercato di un immobile molto centrale, nuovo e ipertecnologico è davvero inavvicinabile, allora esso sarà cedibile solo in locazione per attività di prestigio o come residenze di lusso, producendo non profitto ma direttamente rendita. È noto infatti che in periodi di crisi mentre il mercato delle vendite immobiliari cala, il mercato dei fitti si rafforza, almeno temporaneamente. Per questo motivo l’urbanizzazione non solo rappresenta un modo come gli altri di realizzare profitto, ma un modo di ricavare dalle eccedenze finanziarie sia plusvalenze sulle aree interessate sia rendite permanenti, anche se magari a medio termine. La produzione di rendite urbane gioca, infine, un ruolo fondamentale nel contrastare con efficacia la caduta tendenziale del saggio di profitto, che altrimenti potrebbe, a lungo andare, disincentivare la dinamica di crescita economica in generale, ragione per la quale la crescita urbana capitalistica è sostanzialmente inarrestabile, indipendentemente dalla domanda reale.

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Tornando però ai testi di Harvey, è bene focalizzare l’attenzione sulla seconda tesi che ne emerge, ovvero che prima di giungere al problema del profitto ed eventualmente della rendita, la costruzione della città, delle sue infrastrutture e dei suoi servizi, si caratterizza a tutti gli effetti come un processo di produzione, anche se per strana abitudine, non considerato sullo stesso piano della produzione industriale di merci. Al di là del fatto che anche il settore delle costruzioni può essere, ed in gran parte è, industrializzato, esso come tutti i processi produttivi impiega forza lavoro, e in gran quantità, anche se magari in modo diffuso e poco concentrato. Da questo punto di vista siamo dunque nel più classico dei meccanismi capitalistici di produzione di valore e di plusvalore, a maggior ragione oggi che persino la produzione industriale, post-fordista, di merci assume i caratteri della dispersione e della piccola dimensione. Si osserva quindi una sostanziale equivalenza tra processi produttivi urbani, cioè edilizi, e industriali in generale. Questo significa che passata l’era fordista non è stato tanto il modello industriale, quello della grossa concentrazione produttiva, ad egemonizzare la produzione, quanto piuttosto quello edilizio, per così dire un modello toyotista ante litteram, nel senso di piccolo e diffuso. Non sussiste dunque nessun motivo razionale di continuare a leggere i diversi settori economici come qualcosa di realmente separato, ma piuttosto il fenomeno urbano, preso complessivamente, è un ambito che li contiene tutti, allo stesso modo di come contiene il campionario completo degli aspetti legati al valore, dall’estrazione di plusvalore nel processo produttivo, alle plusvalenze dovute alle trasformazioni urbane del territorio, alla formazione di rendite permanenti, al coinvolgimento di capitali finanziari nella produzione e nel mercato edilizio. Il settore urbano è cioè la summa dei meccanismi economici del capitalismo.

A partire da questa constatazione, la terza, e politicamente più rilevante, tesi di Harvey, è quella riguardante la trasformazione del concetto di “proletariato” in questo contesto e dunque la nozione di soggetto di lotta per la transizione oltre il capitalismo. Se l’operaio impiegato nell’industria post-fordista è oggi un soggetto tra gli altri a causa della dispersione produttiva e della dimensione sempre più sparuta delle sedi industriali, non c’è motivo di considerarlo quale unico potenziale soggetto di lotta, separato dagli altri operai, ad esempio, quelli edili, che sono numerosissimi. Per questo motivo Harvey propone una lettura più comprensiva del concetto di proletariato urbano[5], che allarghi la propria geografia dalla fabbrica alla città, includendo operai, precari della produzione e dei servizi, immigrati, e anche disoccupati, in una parola la “comunità urbana” che mentre costruisce la città e la mantiene con il proprio lavoro, è di fatto espulsa sistematicamente dalla città stessa. Come a dire: se la fabbrica post-fordista non concentra più forza lavoro come una volta esiste pur sempre un luogo che concentra lavoratori di tutti i settori, se si è disposti ad allargare lo sguardo oltre i cancelli del singolo sito produttivo e guardare alla fabbrica per eccellenza che è la città. Su questo punto si apre tutto un possibile dibattito[6] sull’efficacia stessa delle forme di lotta che il sistema urbano, nel suo complesso offre, rispetto allo sciopero del singolo settore produttivo. Di passata non è superfluo osservare come, in periodo di cassa integrazione, lo sciopero di fabbrica sia poco dannoso nei confronti dei padroni, mentre il blocco organizzato di attività vitali per la città potrebbe avere effetti realmente devastanti. Harvey fa l’esempio dei trasporti e delle forniture di acqua, energia elettrica, generi alimentari e così via, per evidenziare quanto il sistema urbano sia in realtà totalmente dipendente dal lavoro. Harvey nota anche come le rivoluzioni siano sempre state delle rivoluzioni urbane e come questo fatto non sia mai stato una semplice conseguenza della localizzazione urbana delle industrie, ma piuttosto un’interazione complessa tra operai industriali e comunità urbane che permettevano e sostenevano attivamente le lotte.

In questo senso è necessario recuperare il tema Lefebvreviano del diritto alla città che altrimenti rischia di restare un “significante vuoto”.

Nelle analisi di Harvey lo slogan del diritto alla città è considerato nella consapevolezza dei suoi limiti storici. L’autore infatti assume come un dato il fatto che il termine “città” si configura quale valore iconico di un’entità che oggi non esiste più nel suo senso tradizionalmente inteso[7]. Per questo motivo pur conservando lo slogan soprattutto per il valore simbolico di inclusione sociale che ne deriva, in contrapposizione ad processo reale di espulsione crescente della società dallo spazio urbano, sempre più ambito esclusivo di un ristrettissimo ceto economico, egli spiega come esso vada inteso più come diritto alla “produzione dello spazio”. In questi termini la rivendicazione non concerne più un oggetto particolare del fenomeno generale di urbanizzazione del territorio, ma l’ambito complessivo della configurazione spaziale, in tutti i suoi aspetti. E suggerisce questa evoluzione seguendo la genealogia stessa del pensiero di Lefebvre, il quale ha progressivamente spostato il fuoco della propria trattazione dalla città alla produzione dello spazio. In questi termini, Harvey espande il significato della produzione dello spazio ad ambito complessivo di azione politica[8]. Se infatti il controllo operaio sulla produzione industriale implica la decisione democratica sul cosa produrre e come farlo, allora il controllo delle comunità urbane sulla produzione dello spazio implica la decisione democratica su cosa, come costruire e per chi a partire anche dalla consapevolezza che l’uomo costruendo il proprio ambiente, ricrea in primo luogo se stesso.

 

APRILE 2013

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[1] «Nel commemorare il centenario della pubblicazione del Capitale di Marx con un saggio sul diritto alla città, l’intenzione di Lefebvre era sicuramente quella di sfidare il pensiero marxista ortodosso, che alla dimensione urbana non aveva mai concesso molta importanza nella strategia rivoluzionaria, benché avesse mitizzato la Comune di Parigi come evento centrale della sua storia».

D. Harvey, Il Capitalismo contro il diritto alla città, Ombre corte, Verona 2012, p. 47.

[2] «La mia ipotesi è che essa [l’urbanizzazione capitalista] svolga un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore». Ibidem, p. 12.

[3] «Ma proprio perché tutta questa sua attività – […] – è così a lungo termine, per il suo funzionamento l’urbanizzazione richiede una combinazione di capitale finanziario e impegno statale». Ibidem, p. 72.

[4] «I risultati della crescente polarizzazione nella distribuzione della ricchezza e del potere sono indelebilmente impresse nelle forme spaziali delle nostre città, che sono sempre più costituite da frazioni fortificate, da comunità chiuse e da spazi pubblici privatizzati e tenuti costantemente sotto sorveglianza». Ibidem, p. 25.

[5] «Se cambiamo la nostra ottica nei confronti dell’ambiente in cui avviene la lotta, il senso di cosa sia il proletariato e quali siano le sue aspirazioni potrebbe uscirne trasformato». Ibidem, p. 101.

[6] «Dunque – […] – come ci si organizza nella città? Questa a mio parere è una delle domande chiave alla quale la sinistra dovrà rispondere se vuole rivitalizzare la lotta anti-capitalista negli anni a venire». Ibidem, p. 103.

[7] «La città tradizionale è stata uccisa dal rampante sviluppo capitalistico, vittima dell’incessante bisogno di circolazione della sovraccumulazione di capitale, che ha condotto ad una crescita urbana infinita e tentacolare, senza preoccuparsi delle conseguenze sociali, ambientali e politiche». Ibidem, p. 50.

[8] «Rivendicare il diritto alla città nel senso che qui intendo fare, significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruite, agendo in modo diretto e radicale». Ibidem, p. 9.