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Ottobre 2013

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La città dell'uomo

LA DECOSTRUZIONE DELLA CITTà

Alessandro D'Aloia

 

È tempo di mettere al centro il vuoto, di capire come togliere, come sottrarre. Un grande maestro dell’architettura moderna affermò che “il meno è più (less is more)”. Mentre in anni più recenti e post-moderni, l’idea del togliere si è affacciata nuovamente nella discussione, ma solo per essere subito negata in modo distorto in uno dei movimenti architettonici più alla moda degli ultimi decenni: il decostruttivismo, ispirato al filone filosofico derridiano del decostruzionismo. Bisogna notare come, nell’epoca post-moderna, i principi fondativi delle nuove tendenze architettoniche si siano sempre tradotti sostanzialmente in un credo estetico, piuttosto che strutturale, con effetti anche opposti sul piano della forma, ma sempre nella medesima assiomatica della crescita urbana. In sostanza non si riesce mai a cogliere un significato urbanistico delle teorie del costruire e ci si limita a trattazioni sempre più sofisticate con ricadute inessenziali per un’idea della città che sia anche idea di una società. È forse questo vuoto programmatico a conferire un carattere alieno alla stragrande maggioranza degli interventi contemporanei, che sono esibizioni di bulimia tecnologica molto efficaci sul piano della spettacolarità, ma anche molto lontane dalla vita quotidiana.

 

1. Decostruttivismo o decostruzione?

Il termine “decostruttivismo” è più interessante della sua traduzione architettonica, nella quale esso non significa de-costruire ma, all’opposto, costruire in stile de-costruttivista. Se invece, più semplicemente, fosse preso alla lettera, assumerebbe un valore molto più pregnante in relazione alla città attuale. Allora lo si potrebbe intendere come necessità di tornare sul costruito per decostruirlo fisicamente. La decostruzione potrebbe intendersi come un’azione programmatica sul costruito volta a togliere invece che ad aggiungere, a ridefinire il carattere dell’esistente non in termini stilistici, ma di diversi rapporti tra pieno e vuoto nello scacchiere urbano.

La decostruzione implicherebbe un approccio critico nei confronti del costruito attuale, critica che, stante l’assioma della crescita continua, non può che restare sospesa fino a quando la città continuerà a crescere senza perché. È quando si decide cosa togliere che si esercita una critica. Verrà forse un tempo in cui si percepirà chiaramente che quanto realizzato negli ultimi decenni non è all’altezza dello spazio che occupa. Forse la modernità potrà avere coscienza di se stessa solo attraverso un’opera di ripulitura senza precedenti, anche se probabilmente sarà la distruzione e non la decostruzione della città a porre fine a questo tipo di storia (anti)urbana, dal momento che la proliferazione di un’estetica dell’orrido non potrà mai generare una sensibilità adeguata al compito.

In questi termini, decostruire potrebbe essere l’ultimo appiglio per passare da una modernità subita ad una modernità agita e per trasferire l’attenzione dal monumento al suo contesto, cioè dall’oggetto architettonico al suo ambiente.

 

2. Liberare lo sguardo (dal brutto)

Se d’ora in poi si invertisse il punto di vista cominciando a pensare in termini di de-costruzione, si potrebbe guardare alla città con occhi nuovi. Invece di cercare gli ultimi vuoti da riempire, si tratterebbe di individuare i troppi pieni da svuotare. Per farlo sarebbe necessario acquisire una consapevolezza del brutto. Saper vedere ciò che è brutto, mapparlo attentamente ed immaginare lo spazio liberato da questi depositi alluvionali cementati. De-costruire lo spazio urbano esterno ai perimetri primo-novecenteschi, a partire da una mappa del brutto nell’esercizio di una critica storica attiva.

Liberare spazio dove se ne sente il bisogno, scegliere cosa lasciare in piedi, per quali scopi e con quali modifiche. Avviare una contestuale opera di re-migrazione della popolazione nelle parti più vecchie e strutturate delle città e dei paesi. Svuotare le periferie e riempire i centri.

Ristrutturare il rapporto tra spazio domestico e pubblico, rendendolo più interdipendente. Questo può significare meno spazio chiuso e più spazio aperto. Ripensare il modulo abitativo minimo, riducendolo agli spazi necessari al riposo, la riflessione e la toilette. Eliminare soggiorni e cucine dalle case al fine di togliere all’appartamento la sua dimensione di unità autonoma e, per questo, indifferente a ciò che avviene fuori. Cioè portare la propria casa in città piuttosto che cercare di replicare la città in ogni casa. Quest’idea di avere a casa tutte le comodità urbane, la palestra, la piscina, il bar, il teatro, il cinema, la sala concerti e quant’altro è semplicemente autistica. Sventrare i condomini, aumentando gli spazi condominiali e diminuendo quelli privati. Attrezzarli con grosse cucine dove poter preparare i pranzi e le cene tutti insieme e con adeguati spazi di mensa e soggiorno, in cui passare il tempo in compagnia e conoscersi. Pensare i terrazzi delle costruzioni come isole di socialità, dove organizzare quotidianamente banchetti serali per le cene estive. Trasformare gli ultimi piani in terrazzi coperti per i convivi invernali. Togliere un palazzo ogni dieci per creare dei cortili intercondominiali dove spostare la mensa almeno una volta al mese, dove organizzare il mercato dei prodotti locali e le attività ludiche dei bambini e dove discutere sul come decostruire il resto della città. Si pensi alla situazione assurda per la quale l’inquilino tipo di un condominio non sa niente di chi abita sul suo medesimo pianerottolo. Si pensi alla solitudine delle casalinghe e degli anziani, ma anche dei bambini, rintanati nei loro appartamenti. Si pensi anche alla bruttezza di un termine come appartamento, dispositivo del vivere appartati.

Trasformare un palazzo ogni nove rimasti, in un parcheggio multilivello per gli altri otto. Ricavare delle biblioteche comuni traslocando i propri libri in uno spazio accessibile a tutti, dove anche i tomi possano incontrarsi. Ricavare spazi per la musica e il teatro ogni mille abitanti, dove insegnare ed apprendere le arti. Formare bande musicali di quartiere per intrattenersi e ballare nelle strade. Rendere centrale il vuoto ed instaurare con esso rapporti abitativi, relazioni immediate a portata di vista. Estendere all’esterno la propria abitazione e abitare producendo spazio. Si produce spazio anche attraverso la propria presenza fisica. I corpi sono elementi dello spazio, in grado di renderlo luogo del presente. L’assenza di corpi nello spazio è ciò che consegna un luogo al passato. Se lo spazio si oppone al tempo come manifestazione autonoma, il luogo è uno spazio non leggibile in assenza della dimensione temporale, cioè al di là del movimento dei corpi al suo interno. Il vuoto permettendo questo movimento, permette agli elementi materiali di cui si compone lo spazio di partecipare alla definizione di un luogo, alla sua nascita e alla sua vita.

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3. Abitare il vuoto

Ma cosa può significare abitare il vuoto? Intanto un vuoto per essere abitato deve essere delimitato, altrimenti è un vuoto indifferenziato, senza dentro e senza fuori. Abitare il vuoto, implica lo starci dentro. Il costruito è il suo limite. Il costruito è architettura. Ma abitare il vuoto non può significare semplicemente scorrerci dentro inseguendo un altrove. Abitare un vuoto deve indicare una condizione di approdo. Il vuoto è uno spazio in cui stare, diverso da una infrastruttura dell’andare. Una città è una pietrificazione della dialettica tra andare e stare in cui, salvo poche eccezioni, i vuoti risolvono la prima necessità e i pieni, il costruito, la seconda. Allora decostruire non può non significare anche cambiare i termini di questa dialettica storica. Ma affinché la decostruzione risulti efficace, al punto in cui siamo giunti, essa deve materializzarsi per difetto, non per addizione.

Lo spazio non è una creazione dell’architettura. Esso esiste già. L’architettura è lo strumento attraverso il quale si aggiunge una certa qualità allo spazio esistente. In una certa misura essa è un moltiplicatore dello spazio abitabile, data la sua capacità tecnica di trasformare lo spazio indifferenziato in spazio dove vivere e la sua capacità di ripetizione modulare, ma sostanzialmente essa non crea spazio, mentre lo occupa. Essa produce trasformazioni in senso antropologico, ma lo spazio a disposizione è limitato. Decostruire la città deve anche significare la coscienza di questo limite, la consapevolezza che ciò che si va a trasformare è già prezioso, per cui la trasformazione deve quanto meno aggiungere virtù allo spazio che si va a produrre.

La città storica era sempre un complemento specifico di un certo paesaggio di origine. La sua forma, ma anche i materiali di cui era fatta, non erano mai indifferenti al paesaggio. Essi lo continuavano senza la presunzione di ricrearlo. Per questo motivo le città della storia erano tutte diverse ed uniche, a differenza delle loro attuali periferie indifferenziate. Quello che è saltato con la modernità è il rapporto virtuoso tra costruito e paesaggio, entrati irrimediabilmente in conflitto.

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4. Architetture invisibili

Se questo rapporto deve essere in qualche modo recuperato, allora la nuova urbanistica è un’operazione di sottrazione. Essa ha bisogno di architetture invisibili, fatte di metri cubi con il segno meno davanti, in cui l’ingegneria è al servizio dello smontare, fondata su una vera e propria teoria e tecnica della de-costruzione. La rimozione della carcassa della Concordia alluvionata sulla costa del Giglio può essere un esempio concreto della difficoltà tecnica della rimozione di un deposito accidentale da un paesaggio in sé concluso. Davvero questa vicenda è doppiamente metaforica, simbolo dell’incagliamento megalomane del tardo capitalismo e di un possibile nuovo inizio a partire dal rimuovere. Trasformare lo spazio attuale attraverso architetture invisibili che producano nuove visioni, prospettive inedite. Ridurre gli ambiti privati, aumentare quelli pubblici. Ridurre le distanze fisiche tra le occupazioni, ma interdire il lavoro domestico attraverso i contratti di fornitura elettrica. Al massimo dodici ore di corrente per uso domestico e solo per la notte. Si lavora fuori casa, con gli altri.

Programmare i computer perché non funzionino più di quattro ore al giorno, meglio, fare in modo che possano funzionare solo in luoghi appositi in cui si recano tutti coloro che devono lavorare con un computer. Stare insieme mentre si lavora, anche se si fa qualcosa di individuale. Chiedere agli altri cosa stanno facendo, organizzare collaborazioni su attività simili. Concepire una spazialità urbana che inviti ad assumere comportamenti collaborativi. Aprire varchi, togliere muri, non solo di pietre, tra le persone. Studiare i dispositivi di isolamento e le loro possibilità di essere utilizzati in modi opposti, altrimenti eliminarli.

Rendere illegale la detenzione di televisori. Riaprire le sale di proiezione e discutere di cosa proiettare. Discuterne molto anche a costo di non proiettare nulla.

Procedere con mente sgombra e non per rappresentazioni. Non modificare gli spazi con idee preconcette, solo perché si vuole replicare in un luogo ciò che si è osservato in un altro. Ogni luogo ha diritto alla sua propria forma. Pensare allo spazio nelle sue quattro dimensioni, come qualcosa da riempire con i corpi e non alla sua resa in due dimensioni come soggetto fotografico per riviste.

Concentrare gli sforzi sulla città e lasciare in pace il paesaggio superstite. Curare gli alberi e le vecchie pietre. Riflettere sulla grandiosa capacità microclimatica delle piante. Pensare architetture vegetali. Mettere fuori legge i condizionatori. Uno spazio troppo caldo è sbagliato. Aggiustare tutto ciò che merita la nostra attenzione.

Disporre le attività nello spazio urbano in modo da rendere superflui gli spostamenti fuori dalla portata del camminare. Rendere illegali tutte le attività esterne al proprio comune di residenza e di conseguenza superflui gli arsenali privati di lamiera verniciata su quattro ruote. Prendere una strada ogni dieci e interdirla al traffico motorizzato. Ricordarsi dell’esistenza delle biciclette. Organizzare gite fuori porta in autobus. Visitare il paesaggio.

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5. Deframmentare il territorio

Potrebbe sembrare facile, ma ci vuole un gran lavoro per decostruire. Se ne può avere un’idea quando capita di essere costretti ad eliminare grandi quantità di file dalla memoria rigida del proprio PC. Non ci vuole niente ad aggiungere, ad ammassare dati e file anche inutili sul proprio hard disk vergine. È quando è pieno che comincia il lavoro vero, quello dell’archiviazione e della contestuale riscoperta di qualche perla dimenticata, tra la folla di giga-byte che ottunde ormai anche il processore. Anche se la metafora è inappropriata – dato che lo spazio reale non possiede supporti fisici esterni in cui poter trasferire ciò che non si usa più – può dare l’idea. Dopo aver liberato anche solo metà hard disk, una certa sensazione di leggerezza pervade le giornate a seguire, in cui sembra che si possa ripartire più forti di prima. De-costruire è salutare. C’è un’altra operazione informatica che sembra suggerircelo: la deframmentazione. Ognuno dovrebbe ogni tanto de-frammentare i propri hard disk. C’è un’utilità di sistema apposita che permette di farlo. Dopo un po’ di utilizzo i file si frammentano, diventano pulviscolo e per leggerli il computer impiega molto più tempo del normale. Allora l’applicazione interviene e riassembla ciò che è stato frammentato, e tutto riprende a girare meglio. È una metafora meravigliosa di ciò che servirebbe al territorio e non solo ad esso: una vasta, colossale opera di deframmentazione. Bisogna immaginare questa grossa spazzola che elimina il pulviscolo cementificato sul proprio supporto fisico, rendendo ambiente ciò che è vuoto e città ciò che è costruito, rimettendo le cose al loro posto e non sparse in giro senza ragione.

Anche le mappe catastali sono troppo piene, è risaputo. De-frammentare il catasto è un’operazione vitale per il corretto funzionamento della città.

Bisogna chiedersi come possano funzionare bene le città, se non lo fanno neanche i computer quando il loro contenuto è frammentato, oltre a chiedersi se il pianeta ce la può ancora fare a continuare a girare su se stesso con tutto questo peso addosso.

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6. Forme del vuoto

Non è semplice capire come maneggiare il vuoto. Utilizzarlo come principale materiale da costruzione richiede un approccio fortemente progettuale. Il vuoto di cui si parla è quello relativo al costruito. È, per così dire, un vuoto architettonico, non un vuoto umano. La decostruzione si chiede semplicemente dove lasciare il vuoto e dove aggiungerlo. Essa evita sempre di chiedersi dove toglierlo.

Con la stessa regola, tuttavia, si può anche passare nella dimensione temporale. Ognuno dovrebbe fare un’opera di de-costruzione anche della propria quotidianità. Le nostre giornate sono troppo accelerate, hanno bisogno di pause. Bisogna prendere una consistente dose di vuoto e piazzarla da qualche parte nella propria giornata. Non ha molto senso de-costruire la città senza fare la stessa cosa con le proprie giornate. C’è bisogno di alleggerire l’esistenza.

Anche i discorsi di scala sono importanti. Se si guarda un paesaggio esso deve essere libero fin dove lo sguardo lo può abbracciare. Se si guarda una città è più interessante osservare una chiara differenza tra vuoti e pieni, una giusta dialettica tra le due dimensioni. Se si guarda un quartiere e non si intravede un vuoto, che è anche un centro, un polmone, allora si capisce subito che qualcosa non va. Lo stesso accade se si guarda un isolato, completamente pieno. Alla scala del singolo manufatto l’osservazione si fa chirurgica fino ad individuare i muri di troppo, gli ostacoli alle prospettive e ai percorsi in un condominio, ma anche in una casa. Le Corbusier immaginava città su pilotis il cui piano terra fosse completamente permeabile. A Bologna avevano già abbozzato l’idea con largo utilizzo di portici, infatti Bologna è bella. Ci si deve chiedere come mai la globalizzazione delle città abbia prodotto una ripetizione del brutto piuttosto che del bello, e perché anche gli architetti siano così schiavi del costruire, invece che profeti dell’abitare. Il cenno alla storia è fondamentale. La storia del mondo è una storia urbana, è storia di città. Il disurbanismo non è una teoria del costruttivismo sovietico di inizio secolo, è una pratica del capitalismo agente in modo pervasivo da più di mezzo secolo, che se non ha ancora completamente distrutto le città ha cambiato il modo di fare città, sostituendolo con il fare delle non-città, il cui principale elemento costitutivo è il non-luogo. Si deve imparare da ciò che è sopravvissuto a questa immensa onda alluvionale con epicentro in America e ancora attiva da molti decenni. Una nazione nata dalla distruzione dei luoghi precedenti, non ha saputo che concepire anche se stessa come negazione. A ben vedere tutto ciò che l’America esporta è intimamente distruttivo nei confronti della storia e del pianeta. Gli altri nel migliore dei casi stanno a guardare, nel peggiore cercano di imitare. Ed è ciò che è successo in Europa, che ad un tratto, senza neanche rendersene conto, ha considerato non moderne le sue antiche città, assumendo lo stesso metro di giudizio dell’unica nazione cresciuta sulla negazione dei luoghi.

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7. Vuoti disciplinari

Gli architetti dovrebbero avere qualcosa da dire sul territorio, sulla città, sulle politiche urbane e sui modi di vivere, e non solo dispensare consigli sulla ringhiera di un balcone, sul colore della facciata, sull’armonia della disposizione di un volume e dei pieni e dei vuoti in una partitura muraria, o peggio ancora su quale tappeto scegliere per il soggiorno.

L’urbanistica come disciplina normativa va anch’essa decostruita complessivamente. Essa era grande quando significava “disegnare la città” e il Mediterraneo ne era la culla, non quando è divenuta puro complesso di norme volte a dire ai privati quanto possono costruire. Vanno abolite le distanze minime tra edifici, reso illegale il modello dell’abitazione in mezzo al lotto di terreno. Dire che in campagna, o in ciò che ne resta, non si costruisce per niente. C’è già abbastanza da riparare. È necessario interdire l’iniziativa privata sul territorio. Il pubblico non deve solo mettere le regole, ma deve progettare lo spazio urbano. I privati se vogliono possono realizzare, e scegliere cosa realizzare, ma non come. Bisogna eliminare la professione libera. I professionisti devono lavorare per il pubblico su progetti urbani, stabilendo regole condivise e lavorando in gruppo, non stare al soldo dei capricci di grossi e piccoli privati. Si lavora per la comunità nel suo complesso, non per i suoi componenti facoltosi ad uno alla volta, né per il successo personale. Le professioni hanno bisogno di ritrovare un senso alla loro esistenza, il progetto ha bisogno di ritrovare la propria autorevolezza. Bisogna democratizzare le istituzioni di governo del territorio a partire da quelle statali, come le Soprintendenze. Ogni tecnico di conformazione spaziale deve partecipare alla sovrintendenza territoriale di appartenenza, a turno, e in un quadro di regole discusse chiaramente ed esplicitate formalmente. È necessario spersonalizzare le direzioni istituzionali al fine di eliminare le collusioni con le pressioni politico-economiche e rimettere al centro le ragioni del paesaggio. Urbanistica e tutela del paesaggio devono diventare una sola cosa e non posizioni di potere differenti e in crescente conflitto tra loro. Quest’idea che ogni regione si fa la propria legge urbanistica è distorta, come lo è quella per cui i Comuni e le loro popolazioni non debbano partecipare a svolgere la principale opera di salvaguardia del loro territorio. Bisogna trovare nuovi equilibri tra istanze locali e sovra-locali, e la popolazione residente deve avere un ruolo determinante in quest’opera de-costruttiva.

È necessario rivalutare termini come conservazione, imparare ad essere dei conservatori molto esigenti, che selezionano scrupolosamente l’oggetto delle loro attenzioni, mettendo al primo posto il territorio e i suoi paesaggi, al secondo posto le calcificazioni urbane della storia e al terzo posto le poche espressioni architettoniche nobili del novecento. Conservare come limite del de-costruire. De-costruzione come la possibilità stessa di conservare con coscienza.

 

SETTEMBRE 2013

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