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Ottobre 2013

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Per uno studio del marxismo

L'ODIERNO SISTEMA DI SFRUTTAMENTO DEI MIGRANTI NELL'ITALIA MERIDIONALE

Vincenzo Fiano

 

Il seguente articolo è tratto dai paragrafi 4 e 5 del iv capitolo della tesi in Filosofia politica intitolata «L’officina delle migrazioni, movimenti migratori e sviluppo capitalistico».

 

Definiamo la “Castel Volturno Area” come un vasto quadrilatero tra le province di Caserta e Napoli che sulla costa collega Napoli e Mondragone, mentre il lato interno va da San Felice a Cancello fino al territorio a nord di Capua. Comune denominatore del territorio è un’alta concentrazione di forza lavoro immigrata di diverse nazionalità, titolare di vari status giuridici, impiegata per lo più in lavori giornalieri, prevalentemente nell’agricoltura, nell’edilizia e, ultimamente, anche nei grandi centri di stoccaggio e smistamento di ogni tipo di merci.

In questo articolo non intendiamo riferirci alla presenza migratoria complessiva nel meridione, ma a quel segmento particolare che si inserisce in queste mansioni, tentando di delinearne con più precisione il profilo, le condizioni e soprattutto i perché e le modalità della loro concentrazione nella suddetta area.

Nel 2005 Medici Senza Frontiere ha steso un puntuale rapporto intervistando ben 770 lavoratori stagionali rintracciati nelle regioni della Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Dato il tipo di mansione entro cui si snoda l’indagine, la maggior parte degli intervistati (91,40%) sono uomini e, in totale, il 67,1% proviene dall’Africa sub-sahariana, il 20% dal Maghreb, dall’Europa dell’Est il 12,5% e dal Medio Oriente solo lo 0,4%[1].

Nella seguente tabella, si indicano le specifiche nazionalità più ricorrenti:

 

Grafico 1 – Paesi D’origine

 grafico 1

 

Il Ghana e la Liberia sono chiaramente i Paesi di provenienza preponderanti, ma bisogna tener presente che questo dato è ricavato da un’indagine svolta in una dimensione interregionale e in una categoria specifica di lavoro: quella dei braccianti; alcune percentuali non trovano riscontro nella dimensione meno estesa della “Castel Volturno Area”, dove la componente nigeriana, completamente assente nella precedente tabella, è invece molto forte; il dato più interessante, comunque, è che gli immigrati presenti in questo circuito di lavoro provengono prettamente da aree del pianeta flagellate da fame, povertà, dittature militari, guerre e conflitti etnico-tribali, carestie; da paesi, dunque, dove lo scambio diseguale produce più regressione che sviluppo in proporzione ai paesi imperialisti: «L’Africa sub-sahariana – stretta nella morsa dei piani di aggiustamento e degli aiuti umanitari – ha registrato, a partire dagli anni Ottanta, una diminuzione del 2% annuo del reddito, ritornando ai livelli precedenti l’indipendenza»[2].

Dal rapporto di msf emerge che più della metà degli immigrati implicati in questo circuito di lavoro a “nero” è clandestina, il 23,4% ha un permesso di soggiorno per richiesta di asilo, il 18,9% invece detiene il pds per altri motivi (lavoro, studio, cure mediche) e solo il 6,3% ha ottenuto la protezione internazionale nelle forme che allora erano il pds per “Motivi Umanitari” e lo status di rifugiato politico, quindi precedentemente alla definizione dello status “intermedio” definito dalla protezione sussidiaria istituita dall’ue e disciplinata dal D.Lgs 251/2007[3]. C’è da tener presente, però, che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo, al mese di marzo del 2005, era ancora soggetto alla legge 39/90, comunemente Legge Martelli, che non lo considerava “valido per lavoro”, quindi, di fatto, almeno il 75% degli immigrati intervistati non era giuridicamente nelle condizioni di stipulare un regolare contratto di lavoro. La situazione cambiò poco dopo col Decreto Legislativo n.140/05 che attuò il recepimento della direttiva europea 2003/9/CE sugli standard minimi di accoglienza, rendendo il pds per richiesta di asilo valido per lavorare qualora entro i primi sei mesi dalla presentazione della domanda il richiedente non fosse ancora stato intervistato dall’allora Commissione Centrale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato[4]. In ogni caso, dei lavoratori intervistati, il 95% non aveva comunque un regolare contratto.

Abbiamo quindi nel meridione alcuni fulcri produttivi che specialmente nell’agricoltura, possono disporre di una manodopera flessibile geograficamente e socialmente, assolutamente vulnerabile dal punto di vista sociale ed economico, sotto la pressione costante di un esercito di riserva variabile. Ogni mattina questi immigrati si recano sulle rotonde, agli incroci delle strade e nelle campagne offrendosi “in vetrina” alla scelta dei caporali e dei datori di lavoro che li portano con sé a lavorare per quella giornata.

È il sistema dei kalifoo ground, la piazza degli schiavi: kalifoo in Libia, dove sono passati quasi tutti gli immigrati dell’Africa sub-sahariana presenti in questi territorio, significa “schiavo a giornata”. Qui non ci sono garanzie, spesso non si pattuisce a priori il salario e talvolta il risultato della contrattazione viene anche disatteso; l’orario medio di lavoro è sulle 12 ore, mentre per quanto riguarda il salario, nella “Castel Volturno Area” il 76% ha dichiarato di ricevere meno di 25 euro al giorno. Ritagliarsi un rapporto di lavoro più stabile molto spesso significa riuscire ad assicurarsi di portare a termine il lavoro specifico che si sta portando avanti, ma è quasi impossibile che da questa forma di incontro tra domanda ed offerta possano scaturire dei contratti.

La modalità lavorativa più diffusa è quella a giornata da cui, secondo Marx, fuoriesce «la forma di salario più insicura»[5]; in alcune zone particolari rinveniamo anche il salario a cottimo: nelle raccolte stagionali il lavoro viene ricompensato con pochi spiccioli per ogni cassa di frutta, verdure, ortaggi, agrumi raccolti. Questa forma particolare di salario

 

dà al capitalista una esatta misura dell’intensità del lavoro. Solo il tempo di lavoro che s’incorpora in una quantità di prodotti precedentemente determinata e fissata in base all’esperienza, viene considerato tempo di lavoro socialmente necessario e come tale viene retribuito. […] Quando l’operaio non esplica un certo rendimento medio, quando non è capace di produrre un certo minimo di lavoro giornaliero, viene licenziato[6].

 

A questo punto focalizziamo ulteriormente il nostro sguardo sulla “Castel Volturno Area” per due motivi: innanzitutto perché non perdiamo comunque il contatto con gli altri centri di questo sfruttamento meridionale, dato che molto spesso i migranti in esso risucchiati seguono la produzione in base alle stagioni: «In Campania come in Sicilia, a Palazzo San Gervasio in Basilicata come a Foggia in Puglia, i migranti vivono la stessa condizione. Anzi di più: sono proprio gli stessi volti, le stesse braccia»[7]; scegliamo di focalizzarci sulla “Castel Volturno Area”, però, anche per il motivo inverso, e cioè che mentre nelle altre aree e regioni del Sud la presenza di questa forza lavoro immigrata conosce dei picchi solamente in occasione delle “raccolte”, in Campania la presenza resta stabile per tutto l’anno.

 

Grafico 2 – Tempo di permanenza nell’area di lavoro

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Fonte: Medici Senza Frontiere – Missione Italia, I Frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto.

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La “Castel Volturno Area” si afferma, sotto questo aspetto, sia come un centro di smistamento di una parte della manodopera impegnata del lavoro stagionale, fermo restando che quest’ultimo si trova anche nella stessa Campania, che al tempo stesso come un sistema produttivo in grado di valorizzare il lavoro vivo degli immigrati non solo per parziali frazioni temporali ma per l’intero anno, grazie al loro impiego in altri tipi di mestieri che vanno oltre l’agricoltura, come l’edilizia, lo stoccaggio e distribuzione di merci, nonché in piccole fabbriche che vivono di subappalti potendo offrire prezzi altamente vantaggiosi proprio grazie agli immigrati.

Ebbene, la peculiarità di questi ultimi nella “Castel Volturno Area” è una sorprendente capacità di valorizzazione continua e generale, che li rende detentori del leggendario potere di Re Mida, in grado di trasformare in oro tutto ciò che tocca. L’applicazione di tale capacità verso le cose che gli sono attorno è direttamente proporzionale però all’impoverimento fisico, materiale e spirituale a cui va incontro, e alla conseguente alienazione che subisce.

Precedentemente[8] abbiamo fatto riferimento alla crescente alienazione nella totalizzazione del rapporto di capitale teorizzata da Officina, che approfondisce la teorizzazione dell’Individuo Sociale Produttivo come il grande pilastro della produzione e della ricchezza e la perdita della concretezza del lavoro, risucchiata nel capitale costante in favore di un’astrazione sempre maggiore. Ebbene, questo processo non interessa solamente la forza lavoro a contatto col sistema macchinino, coi computer e con gli altri strumenti ad alta tecnologia, ma conquista anche quei settori dell’economia, come l’agricoltura o l’edilizia, dove, nella sua applicazione, il lavoro concreto sembra ancora egemonizzare quello astratto. Invece, non è così: gli africani della “Castel Volturno Area” sono la punta più avanzata dell’estensione in profondità del rapporto di capitale applicata a questo tipo di settori: essi quando raggiungono le rotonde non sono contadini, piastrellisti, muratori, carpentieri ecc., ma barattoli di forza lavoro congelata che quotidianamente il capitale decide dove svuotare. È il trionfo del lavoro astratto su quello concreto, la sconfitta delle determinazioni e delle abilità particolari del lavoratore in favore del valore-lavoro che va ad alimentare la potenza dell’Individuo Produttivo Sociale, che a sua volta si adopera, come sistema complessivo, per impoverire sempre di più questi proletari. Per questo, qualunque sia il tipo di lavoro che l’immigrato compie, egli vi scioglie il suo enorme valore lavoro congelato e lo trasforma in oro non avendo la possibilità di denunciare il suo datore di lavoro senza rischiare di essere a sua volta denunciato per clandestinità, né di pretendere soldi o di contrattare sulle condizioni e sugli orari, non andando in ospedale in caso di incidente sul lavoro, non usufruendo dell’assistenza sanitaria: dal Rapporto di msf emerge che il 90,1% degli intervistati ne è privo.

Ma non finisce qui: il suo potere simile a quello di re Mida si estende anche ad altri livelli, come quello degli alloggi.

La situazione edilizia sul litorale domitio è molto complessa: dopo la Seconda Guerra Mondiale si ricostruirono le infrastrutture bombardate e la Domitiana fu ultimata nel 1954; da allora fenomeni come l’abusivismo edilizio senza scrupoli divennero abitudinari. Il caso più clamoroso è sicuramente quello del Villaggio Coppola, sorto negli anni ’60 e conosciuto anche come “Pinetamare”: una speculazione torbida iniziata con la declassificazione della foce vecchia, cioè nel passaggio dal demanio indisponibile a quello disponibile di 160.000 mq e con una stima dell’ute di soli 14.800.000 delle vecchie lire[9]. Scrisse Francesco Erbani su «La Repubblica» del 9 luglio 2002 che «più della metà del villaggio è abusivamente edificato su terreni del demanio statale o di quello comunale, il resto su suoli privati, ma comunque senza concessioni o con concessioni illegittime». Secondo il giornalista «non c’è niente di simile, in Italia, al Villaggio Coppola Pinetamare. Niente di così grande e niente di così abusivo», a tal punto da definirlo «un paradigma dello scempio» che «ha devastato cinque chilometri di un delicato cordone di dune ricoperte di vegetazione e adagiate sullo sfondo di un’immensa pineta, costretta a cedere al cemento persino il suo nome»[10].

L’abusivismo edilizio avviatosi verso la fine degli anni ’50 ha prodotto innumerevoli palazzi, poi rimasti vuoti, che furono utilizzati per ospitare le vittime del terremoto del 1980 e quelle del fenomeno del bradisismo di Pozzuoli; poi «molti di questi sono rimasti, altri se ne sono andati portandosi via tutto quello che potevano: water, porte, termosifoni»[11].

Sono questi gli alloggi in cui oggi risiedono gli immigrati. La vocazione turistica del litorale, negli anni ’60 e ’70 fu molto sviluppata, ma dopo queste tristi parentesi della storia campana la valutazione turistica complessiva scese parecchio, le condizioni delle case rimaste vuote erano pietose e difficilmente sarebbero potute essere nuovamente abitate senza seri lavori di ristrutturazione.

Qui entrano in ballo gli immigrati: la loro valorizzazione del “patrimonio” edilizio è talmente alta che ristrutturando le abitazioni, farne palazzi lussuosi e fittarli a prezzi esorbitanti non sarebbe mai ugualmente redditizio. Essi abitano in queste catapecchie sovraffollate, spesso senza luce, acqua o gas, pagando un fitto mensile a persona che mediamente è sopra i 50 euro: anche Re Mida si dovrebbe inchinare di fronte questa straordinaria capacità di trasformazione dei ruderi in oro! Infatti in case di pochi mq si affollano cinque, otto, dieci e più persone che versano la quota mensile per l’affitto ad un padrone di casa senza che quest’ultimo abbia mai stipulato un contratto e pagato dovute le tasse. Perciò, aldilà della retorica e dei messaggi razzisti, se gli africani lasciassero Castel Volturno sarebbe un disastro economico e sociale senza precedenti, forse anche peggio di quello causato dai bombardamenti subiti nella guerra.

L’ultimo aspetto su cui ci soffermiamo è quello generale del duplice movimento che da un lato questi migranti percorrono dal loro Paese fino alla “Castel Volturno Area”, dall’altro sulle rimesse che fanno il percorso a ritroso: quasi la totalità di questi immigrati, infatti, rappresenta un investimento compiuto dalla famiglia che aspetta fiduciosa i proventi.

L’immigrato quando era nel suo Paese era inserito in uno scarso contesto produttivo, pertanto il suo valore corrispondeva ad un’alta quota del valore-lavoro complessivo del proprio paese; le sue erano ore povere, esattamente come il sistema che alimentavano. Perciò, la migrazione che lo porta nella “Castel Volturno Area” corrisponde a una sua maturazione che ne rende possibile una spremitura più fruttuosa dal punto di vista del capitale attraverso la perdita della sua caratterizzazione umana, con la clandestinità, e lavorativa, perché in Italia quest’immigrato non ha più il suo lavoro che lo caratterizzava in Africa, ma un giorno sarà carpentiere, l’altro falegname, l’altro ancora muratore e poi raccoglierà pomodori. In sostanza, egli diventa puro valore-lavoro, e poco importa dove e come andrà a realizzarsi.

L’evoluzione della sua capacità di valorizzazione è direttamente proporzionale anche al peggioramento del suo stato di salute: «Tra tutti gli stranieri visitati da msf» soltanto «il 5,6% è risultato sano, cioè con diagnosi di “buon stato di salute”»; esiste un luogo comune razzista che ritiene che questi immigrati «si portino dall’Africa le malattie», ma i dati di msf smentiscono anche questa ipotesi:

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Grafico 3 – Diagnosi di malattia infettiva/non infettiva in relazione al tempo di permanenza in Italia

 grafico 3

 

Grafico 4 – Numero di sospetti diagnostici acuti, cronici e totali in relazione al tempo di permanenza in Italia

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Più l’immigrato dedica i suoi sforzi alla vita del capitale e alla sua riproduzione, più volta le spalle alla sua vita e alla sua riproduzione: anche la sua voce va ad unirsi a quella dell’operaio che accusava il capitale: «la cosa che tu rappresenti davanti a me non ha cuore nel petto che le palpiti. Quel che sembra vi palpiti è il battito del mio proprio cuore»[12]. Riteniamo importante sottolineare, oltre alle innovazioni che si esprimono in questo segmento del proletariato nell’attuale stadio di sviluppo capitalistico, anche le continuità con le fasi precedenti, segnali inequivocabili di una battaglia sul valore che ancora non si spegne:

 

Al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa. Quel che gli sta esclusivamente a cuore è il massimo di forza lavorativa che può rendere fluida in una giornata di lavoro. Raggiunge il suo scopo accorciando la durata della forza lavorativa, al pari di un avido agricoltore che ottiene dalla sua terra una rendita maggiore rapinandone la fertilità[13].

 

Il valore prodotto dall’immigrato, alla fine, si divide in due parti, una, quella maggiore, che passa per il coefficiente rappresentato dall’ips e si concretizza infine nelle merci prodotte; una che tiene per sé e per la sua riproduzione, a volte completamente insufficiente: secondo il Rapporto di msf

 

molti stranieri hanno dichiarato di non avere denaro sufficiente per comprare cibo regolarmente […] l’apporto calorico” nella normalità “è gravemente inferiore alle 2100 kcal al giorno indicate come fabbisogno giornaliero dell’intervistato-tipo incontrato in Campania: maschio, giovane e impiegato in agricoltura[14].

 

L’ultima parte del valore viene indirizzata alla propria famiglia, nel proprio paese d’origine, il cui sistema produttivo e nettamente più arretrato e meno abile a sfruttarlo: è così che questo valore, sotto forma di denaro, subisce la stessa metamorfosi destinata alla merce coinvolta nello scambio diseguale tra i diversi paesi; con ciò non si vuol sostenere l’inutilità di questo denaro per le famiglie che lo ricevono, ma esse, così come il loro paese, rispetto al valore prodotto in Italia e alla sua moltiplicazione ad opera dell’ ips italiano, hanno ceduto molta più ricchezza di quanta ne abbiano avuta in cambio.

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Conclusioni

La conclusione che possiamo delineare è il superamento della fase suprema del capitalismo teorizzata da Lenin e al tempo stesso la permanenza, seppure in forme innovative e sempre più sofisticate, dello sfruttamento capitalistico e dello scontro sul valore. Ritenendo quest’ultimo ormai superato, molti movimenti, associazioni ed organizzazione antirazziste si spendono sulla questione della cittadinanza; non a caso, tra le battaglie maggiormente diffuse in Italia negli ultimi anni c’è stata quella sui cpt e, successivamente, sui cie. Queste stesse organizzazioni sono solite deridere pubblicamente l’importanza del permesso di soggiorno, considerato se non un limite quantomeno un “pezzo di carta inutile”; in realtà, più che un cittadino non ancora riconosciuto, ci piace pensare l’immigrato ancora come un soggetto di classe, e precisamente come uno degli spezzoni del proletariato maggiormente vittime dell’odierno sfruttamento capitalistico. Il permesso di soggiorno, per i migranti della “Castel Volturno Area”, così come per tutti gli altri, è un argine alle pretese sempre più massacranti e alienanti del capitale e quindi uno strumento di contrattazione sul lavoro che può riflettersi positivamente sulle condizioni dell’intera classe lavoratrice. Nella fase della totalizzazione del rapporto di capitale, in cui i confini della produzione si dissolvono nell’intera vita sociale e viceversa, non ha più senso tener alti gli steccati che hanno separato la lotta economica da quella politica; ciò non per un anacronismo della prima che sposta tutto lo scontro nella dimensione della seconda, ma perché

 

c’è un tenersi insieme delle due cose. […] la lotta politica è null’altro che la lotta economica del proletariato, condotta però coerentemente, in tutta la sua estensione; così come la lotta economica è null’altro che la lotta politica nel suo nocciolo fondamentale, ovvero quando parte dalla materialità stessa della contraddizione[15].

 

In quest’ottica il permesso di soggiorno è sicuramente una rivendicazione economica, strumento di contrattazione e di miglioramento delle condizioni dei migranti e dell’intera classe, ma al tempo stesso esprime una capacità di ricomposizione di quest’ultima che, nella fase in cui stiamo, può sembrare difficile ricondurre ad una lotta per il potere, ma va comunque nella direzione della crescita anche politica del proletariato e della difficile conquista della legittimazione del per sé:

 

se si considera l’insieme delle lotte economiche storicamente prodottesi e il processo generale dell’auto-difesa dell’in sé operaio, allora non sarà difficile rinvenire in questo movimento storico il formarsi faticoso di quel per sé che corrisponde al “porsi della classe e dello schieramento di classe, della lotta di classe e più su della teoria rivoluzionaria, delle rotture rivoluzionarie, del comunismo”[16].

 

Siamo dunque su una linea ben lontana sia dal ritenere vinta la battaglia sul valore che dall’esaltazione della soggettività migrante di Negri ed Hardt; per certi aspetti si ritengono molto più attuali le parole con cui Marx nei Manoscritti economico filosofici del 1844 descrive l’alienazione, che scegliamo di riportare qui in buona parte:

«Quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi […]. L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto» che «diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea […] quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede». Tale lavoro «produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina […] Se prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva [...]. L’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé». Infine, «il lavoro estraniato strappando all’uomo l’oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie». In conclusione, «L’appropriazione si presenta come estraniazione, come alienazione, e l’alienazione come appropriazione, la condizione di straniero come la vera cittadinanza»[17].

Il significato specifico che Marx attribuisce qui ai termini che utilizza sarà sicuramente mutato e da aggiornare, ma il senso generale della citazione ancora inquadra bene il rapporto di alienazione che colpisce il proletariato attuale e quel suo segmento particolare che sono gli immigrati. L’in sé del proletario immigrato su cui ci siamo soffermati è al tempo stesso un essere per il capitale nelle sue determinazioni più immediate, come il datore di lavoro, la casa dove risiede in affitto, il prodotto della sua attività e gli arnesi che eventualmente usa; ma anche nelle sue astrazioni più generali, come l’Individuo Produttivo Sociale.

La dialettica tra l’in sé e il per altro non porta mai alla risoluzione totale della contraddizione ma al più al ridimensionamento temporaneo di un elemento rispetto all’altro; d’altra parte è da questi processi rivendicativi che partono da bisogni reali, dalla rivendicazione di un permesso di soggiorno all’ac-cesso a forme di reddito, e non solamente dai movimenti della coscienza, che possono nascere lentamente i meccanismi di affermazione del per sé come negazione del per altro e come superamento dell’in sé.

 

LUGLIO 2013

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[1] Medici Senza Frontiere – Missione Italia, I Frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto, 2005, p. 6, in:

http://www.medicisenzafrontiere.it/Immagini/file/pubblicazioni/RAPPORTO_frutti_ipocrisia.pdf

[2] L. Pradella, L’attualità del Capitale, Il Poligrafo, Padova 2010, p. 346.

[5] K. Marx, Il Capitale, Newton Roma, 1996, p. 511.

[6] Ibidem, pp. 402-403.

[7] ReteRADICI, Dossier Radici / Rosarno, 2011, p. 22, in:

http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1084.pdf .

[8] Cfr. La totalizzazione del rapporto di capitale, dello stesso autore, pubblicato sul numero 09 della rivista [N.d.R].

[9] A. De Jaco, Inchiesta su un Comune meridionale , Editori Riuniti, Roma 1972, p. 42.

[11] G. Poletti (Missionari Comboniani di Castel Volturno), “Castel Volturno: inferno o laboratorio del futuro?”, 07/11/ 2006, in: italy.peacelink.org.

[12] K. Marx cit., p. 182.

[13] Ibidem, p. 203.

[14] Medici Senza Frontiere – Missione Italia, cit., p. 50.

[15] Due o tre cosette da ripensare insieme, in Officina n. 9, marzo 1993, p. 2.

[16] Dialettica dell’antagonismo, in Officina n. 8, marzo – aprile 1992, p. 21.

[17] K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, in: K. Marx, Le opere che hanno cambiato il mondo, Newton Roma, 2011, pp. 85-92.