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Gennaio 2014

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Recensioni

SALVATORE PRINZI, «SUL BUON USO DELL'IMPAZIENZA»

Annelise D'Egidio

 

La Storia è un lungo, spesso controverso e comunque sempre un tortuosissimo cammino. A renderla così avvincente: l’impazienza, connotazione caratteriale – cioè difetto – divenuta oggi vero e proprio modo d’essere. Ma perché allora ragionarvi, dedicandovi addirittura un libro intero? Quali i benefici sperati? Quella che, di primo acchito, appare una contraddizione logica, risulterà essere invece, a fine lettura, un articolato tentativo di districarsi tra «crisi, movimenti e organizzazione» – come recita il sottotitolo di questo primo libro di Salvatore Prinzi, giovane ricercatore (manco a dirlo) precario. Mentre Marx si prende la sua piena rivincita ed è il convitato di pietra di ogni talk show politico che la televisione ci propina, Sul buon uso dell’impazienza prova ad intrecciare teoria e realtà, politica e memoria, passato e futuro, senza smarrire la concretezza. I tre capitoli in cui si articola hanno un filo comune, che è l’impazienza, o, per meglio dire, le sue celebri disavventure: il fallimento inappellabile del ’68, la scarsa incisività del successivo altermondismo, la Primavera araba e gli strascichi della crisi finanziaria del 2008. Ma non solo: alla storia dell’impazienza o, se si preferisce, alle storie (ordinarie) di straordinaria impazienza, si associa, nell’ultimo capitolo, una disamina dei suoi esiti peggiori – e qui ritorna di prepotenza l’attualità. Dietro coloro che senza conoscerlo affatto, danno ragione a Marx, si cela l’uso indiscriminato della sentenza, cioè la frase a effetto, la parola che fa audience e che dietro di sé non ha alcun ragionamento. Il marketing della politica, dove spadroneggiano lifting, parrucchini e paillettes, è negazione totale del senso di appartenenza ad una comunità, della sua identità, della sua storia e della sua memoria. In definitiva, per dirla con Gramsci, di «ogni buon senso». E quest’ultimo annega indifeso tra uno spot pubblicitario e un altro, surclassato dai tempi tecnici di messa in onda, che sono, in senso assoluto, l’epifania televisiva del tempo reale, ovvero l’architrave del nostro esistere “liquido”. Sono possibili vie d’uscita (ma si badi non cure definitivamente efficaci, piuttosto utili accorgimenti, rimedi in forma di correttivi minimi) per l’impazienza, la quale, è bene ricordarlo, avendo provocato la cacciata dei progenitori dall’Eden, è la vera origine della storia umana?

Per cominciare un’annotazione preliminare (e forse anche ovvia): se l’impazienza apprendesse la fine arte della pazienza, se ne carpisse l’antico segreto – ossia, il metodo, la costanza, l’organizzazione – allora potrebbe farsi strada e andare lontano. Il che non significa però necessariamente vincere, anzi non coincide mai con la vittoria. D’altronde, se oltre alle vittorie epiche (Maratona, Canne, Farsalo, Filippi..), la Storia ammettesse anche le «sentenze irrevocabili», noi non saremmo mai potuti diventare così diversi dai nostri antenati! Ciò significa, in altri termini, che oggi la pazienza regnerebbe sovrana, perché tutto sarebbe calmo, senza la frenesia del traffico, lo strombazzare dei clacson, lo stress della velocità. Chiaramente, un mondo soffocato dalla cappa delle breaking news e distratto dal luccichio delle vetrine, pensa per attimi, s’informa coi flash, parla per slogan. In perenne bilico tra collasso ed esplosione, s’inebria di questo rischio e ne dipende come il cocainomane dalla cocaina. C’è sballo solo se la posta in gioco cresce, dunque il divertimento coincide col rischio e questo aumenta più il tempo è frazionato. È risaputo: il tempo è denaro, come recita l’unico comandamento su cui si regge la più diffusa delle religioni – il capitalismo. Ma se il tempo è scambiabile come la più triviale delle merci, allora ecco che diventa riproducibile ed incrementabile: ingannevole e falso; cioè spettacolare. Nel vortice dello spettacolo, il tempo è centrifugato fino a polverizzarsi in atomi di «tempo reale», che di reale, peraltro, non hanno nulla, semmai sono iper-reali. È qui, proprio qui, che entra in gioco l’impazienza paziente, quell’instancabile tormento cui Zeus condannò Sisifo – rifare ogni giorno, giorno dopo giorno, per tutta l’eternità, la solita, inutile fatica. Vegliare, vigilare, sbagliando e ri-sbagliando: se è il negativo a muovere la Storia, allora chi sbaglia, lo sconfitto, ne è assoluto protagonista. Caccia sterile più che pesca abbondante, quest’epopea dei Don Chisciotte del passato riporta alla mente il supplizio del povero Tantalo. Un «quasi aver vinto» che sfuma ogni volta a causa di un dettaglio piccolo, piccolissimo, di una variabile non prevista o non calcolata bene, di quell’attimo non colto, di quel varco inafferrabile, di un ostacolo che si materializza all’improvviso, di una resistenza venuta da-non-si-sa-dove e che non si pensava potesse farsi trovare lì. Più ci si avvicina, più la meta sfugge: è la legge – inesorabile – che Paul Valery scopre grazie ad un fiammifero resistente. Perdere, saper perdere, il patire della patientia, appunto. Ma non si rischierà piuttosto di illudersi, con magre, magrissime consolazioni? La risposta è implicita nella storia dei movimenti dello scorso secolo, scorrevolmente attraversati nel primo capitolo del libro: «ceder un peu c’est capituler beaucoup», la profezia che da Nantes ’68 in poi non ha smesso ancora di essere vera e che tiene, tutt’insieme, tranquilli, oppressi ed oppressori, sotto una nuvola di odio cortese – secondo la spiazzante e quanto mai attuale “istantanea” di Franco Fortini. Come in una guerra di trincea, lo schieramento che mantiene la posizione e serra i ranghi certo non arretra e non perde (uomini), eppure questa strategia non ha nulla a che fare con la vittoria. Occorre un guizzo, una soluzione, un colpo da maestro: basterà? Soprattutto, basterà se le forze scemano, se il nemico è più potente che mai e nonostante gli errori commessi (come già si chiedeva Brecht)? Azzardare risposte o, peggio, previsioni è proprio dell’impazienza e non aiuta quando lo scontro si consuma fra le trincee. Più che di guizzi, c’è bisogno di progetti, di idee, di rapporti, di parole, non per forza ricercate, di mediazione, di organizzazione. C’è bisogno di (im)pazienza! Soprattutto dinnanzi all’indolenza di chi dovrebbe avere risposte e soluzioni che non è neppure in grado di ipotizzare. Ecco perché Sul buon uso dell’impazienza, più che fare il peana degli sconfitti ed il panegirico delle utopie, pone sul tappeto questioni cruciali del nostro tempo, della storia nostra. Quant’altro mondo si nasconde dietro il mondo che ci si presenta? Quanto mondo abbiamo lasciato sprofondare per pigrizia? Cosa indicano le resistenze degli oggetti, di cosa sono il segno? Perché quella realtà che non si piega al disegno precostituito è subito rimossa? È un caso o piuttosto una tara? E se fosse, la rimozione stessa, pienamente funzionale al disegno? A chi o a cosa appartiene il disegno? Chi rappresenta? Di quali interessi è espressione? Ha senso lavorare alla ricerca di risposte per tali domande, considerando i tempi che stiamo vivendo? Vale la pena pazientare, «imparare alla dura scuola della pazienza» come si esprime Bensaïd, ciò che l’impazienza sempre dimentica: la differenza la fanno le domande e non le risposte. Anche, soprattutto, in tempi di crisi. Perché una domanda apre, squarcia, semina, muta gli equilibri in campo, mentre una risposta sta già lì, preconfezionata, facile da maneggiare, pronta per l’uso. È il parere del tecnico, dello scienziato, di chi ha un’autorità sufficientemente riconosciuta per cimentarsi col pensiero. È la voce ammessa, il discorso consentito e tautologico (si badi bene: consentito perché tautologico) su cui si regge l’istantaneità fulminea della società spettacolare, un enorme cloud che sospende oggetti e persone, astraendoli in una dimensione surreale di attesa. Rispetto a quest’attesa, che è già rassegnazione, l’impazienza – il lato negativo, la parte di campo in cui giocano gli sconfitti – ha argomenti estremamente più interessanti da far valere. Se crisi è anche opportunità e se la storia umana non è che un eterno arrancare, c’è una bella notizia. Non tutto è perduto, perché c’è ancora del tempo. Chi non ci sta ha tempo per battersi, passo dopo passo, casamatta dopo casamatta. La tattica, l’arma dei deboli secondo il gesuita M. de Certeau, si arricchisce del coraggio dei «veri individui del nostro tempo», «quegli eroi che nessuno ha cantato», «i martiri anonimi» – come li definiva più di quarant’anni fa Max Horkheimer. Il quale auspicava che di quest’epica lotta (che è alle porte, che sta sempre per ri-cominciare), la filosofia fosse testimone, traducendo in parole udibili quelle «voci mortali», quelle voci sconfitte ridotte al silenzio della tirannia.

 

DICEMBRE 2013

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