LA RIVOLUZIONE NASCE ALL'ASILO

Alessandro D'Aloia

Tradimento
È dai tempi di Trotsky che si pone il grande tema del tradimento della rivoluzione, al punto che sarebbe meglio parlare dei tradimenti delle rivoluzioni o, se si preferisce, del tradimento ‘permanente’ della rivoluzione, giusto per restare sempre in ambito trotskista. Il povero Bronstein, vero nome di Trotsky utilizzato da Gramsci in carcere, ha subito molte critiche nonostante il massacro staliniano perpetrato tanto nei suoi confronti quanto dell’Unione sovietica, ma un merito non glielo si può negare: l’avere posto il problema, non certo la soluzione, del perché le cose in Unione sovietica, e poi nel mondo, non siano andate proprio come ci si sarebbe aspettati. Bronstein era un politico marxista, ma pur sempre un politico, perciò le risposte le cercava nell’ambito della politica, dove, come si vedrà, non potevano essere trovate, almeno non definitivamente. Nella Rivoluzione tradita Trotsky analizza l’esperienza sovietica indicando nello stalinismo il motivo della sua degenerazione, cosa certamente vera storicamente ma che non può, proprio per la specificità degli avvenimenti trattati, spiegare se il tradimento possa invece, in altre forme e in diverse condizioni, manifestarsi come conseguenza necessaria di tutte le rivoluzioni. Il problema dell’analisi trotskysta è che spiegando nel dettaglio la degenerazione della Rivoluzione d’ottobre storicizza necessariamente il fenomeno de-politicizzandolo e con questo sembra suggerire che al di fuori di quelle determinate condizioni non possa più darsi il tradimento delle intenzioni primigenie di una rivoluzione. Se questo atteggiamento poteva essere comprensibile ai tempi di Trosky di certo non può esserlo ancora oggi. In sostanza il tradimento è una vera e propria categoria della politica piuttosto che un evento storico particolare. Infatti accade che studiando le rivoluzioni successive, ma anche fenomeni solo in potenza rivoluzionari, si incontrano sempre le medesime costanti e vale a dire l’emergere e l’affermarsi, all’interno dello schieramento “rivoluzionario”, di spinte in contraddizione con la rivoluzione stessa e infine capaci di ristabilire una forma sempre nuova di un dominio di parte affatto vecchio. Ma già Gramsci analizzava il problema del trasformismo in politica, anche nella normale dialettica della rappresentanza parlamentare, quale applicazione del tradimento perpetrato quasi necessariamente dai rappresentati nei confronti dei rappresentati. Tornando all’ambito particolare dei processi rivoluzionari, la storia sembra assumere una ciclicità inesorabilmente reazionaria, ma analizzando la questione solo dall’angolo visuale delle dinamiche politiche, intese come dialettica tra opposti schieramenti in campo, non se ne esce, dal momento che il problema non è di natura strettamente politica, anche se ha ricadute soprattutto politiche. Lo stalinismo stesso, come emblema del tradimento, non può neanche essere letto in semplici termini di classe, dal momento che esso non era il prodotto politico di una classe diversa da quella al potere (seppure questa classe era al potere solo in termini indiretti e, in ultima analisi, di rappresentanza), ma qualcosa di molto più complicato, proprio perché generato nel seno stesso dalla classe operaia nella non semplice ricerca delle forme per istituzionalizzarsi. È invece importante insistere sull’accezione “psichica” piuttosto che “organizzativa” del “fattore soggettivo” dei processi rivoluzionari, dal momento che anche la lucidissima analisi dell’organizzazione di classe e dei suoi limiti, condotta da Lukacs nel 1922[1] non risponde al problema del come evitare ogni volta il risorgere della reazione pur nelle organizzazioni, e poi nelle istituzioni, della rivoluzione.  

Epifania della reazione
È stato solo dalla nascita della psicanalisi, e dalla critica rivoluzionaria che marxisti come Wilhelm Reich hanno condotto nei confronti del freudismo, che si è cominciata a volgere l’attenzione agli aspetti soggettivi del fenomeno, intendendo però con questo termine non genericamente il “fattore soggettivo” del processo rivoluzionario, in genere inteso come l’aspetto organizzativo della massa di soggetti che entrano in gioco in un tale processo, ma proprio la “natura”, se così si può dire, degli stessi individui che formano il fattore soggettivo: i soggetti in quanto materia prima del processo rivoluzionario e della sua intima dialettica. In Psicologia di massa del fascismo Reich si chiede come sia possibile il fascismo e ammette che il suo trionfo, seppure temporaneo, non è il risultato di processi che avvengono alle spalle e sulla pelle delle persone, ma al contrario qualcosa che accade con il consenso delle persone, con il consenso anche e soprattutto di quelli che nulla hanno da guadagnarci. Questo il paradosso con il quale bisogna cominciare a saper fare i conti. Il fascismo se è visceralmente odiato ed osteggiato da una parte della società, è desiderato e magari altrettanto visceralmente amato da un’altra parte della società. Per Reich l’amore della gente per il nazi-fascismo non era una maschera sociale necessaria ad evitare la repressione implicita destinata ai non allineati, ma, nella normalità dei casi, una condivisione di fondo per un modello di potere autoritario e violento che esprimeva abbastanza esattamente ciò che la gente si aspettava, e peggio ancora “desiderava”, a quel punto della storia. In altre parole il movente sociale del fascismo non era rappresentato dalla paura razionale della repressione (questa passava in secondo piano agli occhi di chi non si riteneva, a vario titolo, destinatario delle violenze di stato), ma dalla paura irrazionale dell’altro da sé, il quale invece perversamente si desiderava divenisse oggetto della repressione statale. Il problema individuato da Reich è che alla gente il totalitarismo in fondo può piacere e probabilmente più della democrazia, non in assoluto ma in determinate condizioni di produzione dei soggetti. Chiaramente non è così per tutti, ma è così per una parte consistente della popolazione che al momento giusto, nelle adeguate condizioni, riesce a diventare maggioranza sociale. Questa parte della popolazione, fatta da gente normalissima, rappresenta una base sociale sulla quale il fascismo si innesta sfruttando i momenti ad esso più propizi, ma non è il fascismo a creare la sua base sociale, quella già esiste. Bisogna allora chiedersi perché questa esista e dove si produca. In questi tempi neri che siamo costretti a vivere ognuno di noi avrà fatto l’esperienza diretta di scoprire venature reazionarie più o meno definite e coscienti in persone a noi vicine, insospettabili a prima vista, che non aspettavano altro per potersi manifestare, uscendo finalmente allo scoperto. Questo manifestarsi è uno sgorgare piuttosto improvviso di un sentimento fascista che era, fino a quel momento, latente.  

La produzione della reazione
È proprio da questo nucleo di riflessioni che muovono gli autori dell’Anti-Edipo (dato alle stampe nel 1972) nella loro analisi del perché accade che «Si vedono i più sfavoriti, investire con passione il sistema che li opprime»[2]. Deleuze e Guattari partono da Reich e dal ribaltamento del pregiudizio che vede il fascismo come un fenomeno violento sostanzialmente imposto alla società mediante la coercizione. Questo pregiudizio spiega alcune cose ma non tutto e già Gramsci, in effetti, parlava di possibilità combinatorie tra coercizione e consenso nella dialettica del potere. Nell’anti-Edipo la scena è dominata dal ruolo dell’inconscio, ruolo che non necessariamente è in sintonia con quello svolto dalla coscienza, con la conseguenza, tutt’altro che piacevole, di una possibile e, in fondo, sempre agente contraddizione tra il cosciente e il pre-cosciente all’interno del medesimo soggetto. Lo svolgersi di questa contraddizione quasi mai è patente con l’effetto che il soggetto può benissimo credersi un gran rivoluzionario pur avendo comportamenti e paranoie tipiche di un reazionario. E chiunque abbia frequentato ambienti politici di sinistra può ben rappresentarsi tutto un inventario di tipi umani sedicenti rivoluzionari o meno ma stranamente in disaccordo su qualsiasi argomento non rispondente all’autorità di una forma riconosciuta ed accettata di ideologia (qui intesa come autorità indiscutibile) o di capo. Anche la storia, soprattutto post-sessantottina, offre una serie mirabile di soggetti, gli esempi si sprecano, che dalla primitiva schizofrenia tra un inconscio reazionario e una coscienza volenterosamente rivoluzionaria, risolta temporaneamente a favore della seconda in un contesto politico che imponeva una sorta di morale anti-reazionaria, hanno alla fine abdicato al proprio istinto mettendosi finalmente in armonia, al primo cambio di clima politico, con la reazione che albergava in loro. Il tradimento non è arrivato successivamente, per un qualche motivo, ma è sempre stato lì pronto a venire fuori al momento giusto. Anche perché il tradimento non è il cedimento ad un interesse del momento, un rivoluzionario è incapace di tradire se non è prima un traditore. Il problema del tradimento delle rivoluzioni può essere sintetizzato così: si vuole far compiere la rivoluzione a dei reazionari (che non sanno di esserlo). Gli autori dell’anti-Edipo analizzano le dinamiche di gruppo, ma c’è tutto un gruppo già solo all’interno di un solo individuo, per cui essi individuano come due poli dell’inconscio ai quali il soggetto tende anche più o meno stabilmente. Di questi due poli uno è quello paranoico, l’altro quello “schizo”. «Tra lo schizo e il rivoluzionario c’è esattamente la differenza che passa tra chi fugge e colui che sa far fuggire ciò ch’egli fugge»[3], nulla assicura che lo schizo produca un rivoluzionario «Lo schizo non è rivoluzionario, ma il processo schizofrenico (di cui lo schizo non è che l’interruzione, o la continuazione nel vuoto) è il potenziale della rivoluzione», allo stesso modo la paranoia a monte del carattere fascista non implica per forza un camerata attivo e consapevole. I caratteri pre-consci possono mischiarsi secondo tutta una teoria di sfumature con investimenti di tipo conscio più o meno efficaci nel mascherare le impostazioni di base, se così si può dire. Ora, sono gli stessi autori a dirlo, accade che molti tra coloro che hanno o dovrebbero avere un interesse oggettivo rivoluzionario mantengono un investimento preconscio di tipo reazionario e, più di rado, che certuni, il cui interesse è oggettivamente reazionario, operino un investimento preconscio rivoluzionario[4] (citato non letteralmente). Sostanzialmente accade più facilmente, anche solo per una questione numerica, che si possa scorgere un reazionario tra chi non dovrebbe esserlo e non, viceversa, un rivoluzionario tra chi non dovrebbe esserlo, da un punto di vista ovviamente degli interessi di classe. In un modo o nell’altro il bilancio finisce sempre per essere sfavorevole alla rivoluzione e favorevole alla conservazione delle condizioni date. L’anti-Edipo è un testo fondamentale per la teoria politica pur non essendo, apparentemente, un testo di teoria politica. Il suo principale obiettivo è capire perché ogni volta riaccade la sconfitta della rivoluzione, tanto da diventare, lentamente, una sconfitta scontata. Questo testo getta una luce nuova su tutto l’enorme problema del tradimento, ma nella risposta che dà alla domanda: come evitare che accada sempre daccapo? probabilmente non risponde, nonostante l’apparenza. Sin dal titolo il testo individua chiaramente il problema. Ma è Edipo[5] stesso che esistendo non permette la propria negazione. Infatti accade che se il complesso edipico trova nella famiglia il proprio luogo privilegiato di azione non è possibile liberarsene in quanto ciò richiederebbe una rivoluzione sociale capace di superare la famiglia quale nucleo elementare della struttura sociale, ma questa rivoluzione è resa impossibile dal complesso edipico stesso, il quale crea il traditore della rivoluzione prima che questa possa in qualche modo essere concepita. In sostanza l’eliminazione delle condizioni sociali di edipizzazione dei soggetti diventa condizione necessaria, non sufficiente, per poter concepire una rivoluzione e allora si sta dicendo che bisogna intervenire sulle condizioni di produzione dei soggetti prima di poter chiamare questi soggetti a cambiare il modo di produzione del capitale, che poi è modo di produzione non solo di merci ma di soggetti stessi. Ma si tornerà più avanti sulla questione se possano esistere, in questo modo di produzione, delle condizioni di produzione dei soggetti diverse da quelle edipiche. L’anti-Edipo conduce una battaglia serratissima nei confronti del freudismo, in parte continuando quando iniziato da Reich, ma così facendo finisce per spostare il fuoco della critica sulla psicanalisi piuttosto che sulla struttura sociale che ha permesso alla psicanalisi di prosperare, che invece è la vera questione. Infatti la domanda che gli autori dell’anti-Edipo alla fine non si pongono è: dato che i soggetti tendenzialmente paranoici, come quelli tendenzialmente schizo, sono numericamente determinati in un certo momento cosa li avrà preventivamente prodotti? Si dirà che è ovvio: la famiglia in prima istanza, l’intera società in seconda. Questo è naturalmente scontato, ma se la famiglia e la società sono condizioni standard, almeno in un determinato contesto storico, cosa produce un potenziale fascista o, viceversa, un potenziale rivoluzionario dal momento che la loro massa non è comunque predeterminata? E in definitiva esisterà un modo per evitare la produzione di soggetti paranoidi potenzialmente fascisti?  

Abortire Edipo
Gli autori dell’anti-Edipo conoscevano bene Wilhelm Reich, ma nella loro opera, al contrario, non compare mai il nome di quella figura che per certi versi, anche se su un fronte non specificamente psicoanalitico (e non specificamente marxista), rappresenta una sorta di Reich nostrana. Ma sono giustificati per questo, essendo francesi. Si tratta, e qualcuno potrà restarne sbalordito, di Maria Montessori. Il discorso partito dalla sua radice politica, dopo aver deviato in un binario psicoanalitico approda alla pedagogia per, infine, ritornare alla politica con i suoi effetti. La focalizzazione sulla pedagogia è, se si pensa, la ovvia conseguenza dell’anti-Edipo, anche se le vie più banali, a volte restano inesplorate. È rara infatti, per non dire inesistente, l’attenzione politica alla pedagogia: questa perfetta sconosciuta. Per trovare un politico che trattava, tra le altre cose, anche di pedagogia bisogna probabilmente tornare a Gramsci, al quale certo non sfuggiva l’importanza dei modelli educativi che una scuola di Stato propone. Se le condizioni in cui il bambino si viene a trovare sono costituite dalla famiglia in prima istanza e dalla società in seconda, quest’ultima si manifesta al bambino originariamente attraverso la scuola dell’infanzia e primaria. Il ruolo svolto dalla scuola non può in nessun modo essere considerato secondario o addirittura ininfluente. Al contrario c’è un perfetto disinteresse politico rispetto alla scuola. Va detto chiaramente: ciò che succede nella scuola, come questa funzioni e in base a quali teorie pedagogiche si formino generazioni e generazioni di soggetti è un problema completamente trascurato dalla politica a dispetto dell’ossessività con la quale, soprattutto in Italia, essa interviene nella riformare permanentemente l’istituzione scolastica. Il riformatore compulsivo sembra non conoscere lontanamente l’oggetto del proprio intervento, attribuendo agli aspetti organizzativo-economici, per non dire contabili, la totalità della propria attenzione e trascurando completamente l’aspetto pedagogico, curiosamente immune da qualsivoglia tentativo di riforma. Non molto diversamente si può dire del personale scolastico, il quale almeno percepisce l’esistenza di un problema che tenta di risolvere a suo modo, senza che per altro possa trovare guide di sorta in grado di illuminargli il percorso, al di fuori di sentieri di ricerca e comprensione battuti per lo più personalmente e in splendido isolamento. Ma è il caso di capire in che modo Montessori entra a pieno titolo in questo discorso. In Montessori, al di là del suo metodo didattico, esiste una critica profonda e probabilmente senza appello, al modo di produzione del soggetto nella società contemporanea. Il suo metodo è concepito in modo da negare le condizioni che, normalmente, a loro volta negano le possibilità che la psiche del bambino possa svilupparsi secondo un piano naturale, dove per “naturale” deve intendersi qualcosa di completamente sconosciuto perché sostanzialmente annientato dalla cultura educativa dominante, la quale, al netto della medicalizzazione della società, persiste praticamente immutata dall’alba della civilizzazione. Quindi la critica alla cultura educativa contemporanea è allo stesso tempo la critica alla cultura educativa tout court. Su questo stesso tema è stato pubblicato anche un recentissimo lavoro dell’antropologo Matteo Meschiari intitolato Bambini. Un manifesto politico, che ugualmente ai francesi dell’Anti-Edipo, però pare ignorare la nostra Reich. Meschiari afferma, dal suo punto di vista, che il capitalismo è nato almeno diecimila anni fa, con l’accumulazione originaria. Sappiamo che così non è, ma sappiamo anche che il capitalismo non butta a mare ciò che gli può tornare utile, come ad esempio un modello di riproduzione sociale basato sulla repressione dell’autonomia di giudizio del soggetto e sulla speculare necessità della sua etero direzione. Tutto questo apparato di riproduzione sociale era certamente già in essere ben prima dello sviluppo capitalistico dell’economia ed il capitalismo non ha dovuto che incorporare e, al limite, perfezionare e sistematizzare quanto ereditato. Da questo punto di vista è perfettamente normale che la pedagogia in generale e montessoriana in particolare, resti quasi del tutto sconosciuta alle istituzioni educative operanti nel capitalismo e cioè la famiglia e la scuola, dal momento che queste si pongono quali istituzioni conservative per eccellenza. Ovviamente ciò che qui interessa non è il metodo montessoriano inteso come tecnica didattica ma gli obiettivi che il modello pedagogico si prefigge insieme alla critica implicita dei metodi educativi dominanti, i quali costituiscono chiaramente l’insieme delle tecniche di riproduzione dei soggetti nel modo di produzione capitalista.  

Da Trotsky a Montessori il filo rosso del pensiero antiedipico
«Desiderare di trasformare gli uomini adulti è vano»[6]. Quest’unica frase, che andrebbe presa alla lettera, demolisce l’intero presupposto su cui si basa la politica intesa nel senso nobile di chi milita nella speranza che un giorno le idee giuste avranno la meglio su quelle sbagliate. In politica la ragione ha poca responsabilità purtroppo e questo è noto almeno dai tempi della decostruzione della morale operata da Nietzsche. È ben altro ciò che agisce sulle scelte politiche delle persone. Per Montessori molto prima che per Meschiari, il bambino è l’unico strumento possibile per il progresso politico e sociale dell’umanità. Vale la pena di riportare il seguente stralcio: «L’infanzia è un periodo veramente importante poiché quando si voglia infondere nuove idee, modificare o migliorare abitudini e costumi del paese, accentuare più vigorosamente le caratteristiche di un popolo, dobbiamo prendere come strumento il bambino poiché assai poco si ottiene agendo sugli adulti. Se si aspira realmente a condizioni migliori, a una maggiore luce di civiltà nel popolo, bisogna pensare al bambino per ottenere i risultati a cui si mira. […] Per esercitare un’influenza sulla società è necessario orientarsi verso l’infanzia»[7]. Come non riconoscere in questa posizione un vero e proprio manifesto politico, tra l’altro scritto nel 1952 e quindi con una tempestività perfetta per la Repubblica italiana nata da pochi anni? Ma in generale il pensiero montessoriano è rimasto per lo più relegato al mondo della scuola considerato, quest’ultimo, come non comunicante con quello reale e perciò abbastanza ignorato dalla politica. Infatti i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La società continua a produrre, come prima e più di prima, soggetti paranoidi a settant’anni dalla fine del fascismo politico e dalla nascita delle istituzioni repubblicane, tra le quali anche la scuola pubblica contemporanea. Ma se il messaggio politico montessoriano è chiaro bisogna capire quali sono i suoi presupposti scientifici. Per Montessori l’infanzia rappresenta un’esclusività umana rispetto alle altre specie animali, dal momento che per l’uomo non esistono movimenti coordinati innati, né fini e che questi deve costruirseli da solo[8]. Ne consegue che per l’uomo si danno due momenti formativi, il primo pre-natale e funzionale alla formazione embrionale degli organi, si può dire fisico, il secondo post-natale e funzionale alla formazione della mente, cioè psichico. Ma il secondo periodo formativo, contrariamente a quello che si tende a credere, ha anch’esso una durata molto limitata: l’infanzia appunto ed avrà conseguenza su tutto il resto dell’esistenza del soggetto. Ciò che accade durante la formazione post-natale è determinante, nel bene e nel male, per il comportamento sociale del soggetto, vale a dire per il suo carattere individuale e per il personale modo di porsi nei confronti dell’altro da sé. In questa fase fondamentale della formazione del soggetto, la società attuale non pone attenzioni superiori o diverse da quanto non abbia fatto in passato, con la conseguenza che l’infanzia si svolge oggi come in passato, a meno, ovviamente dei progressi medici, nel senso che si è ridotta senz’altro la mortalità infantile senza però che questo abbia influito più di tanto sulle condizioni in cui il bambino forma la sua psiche. È cioè proprio l’aspetto formativo essenziale dell’uomo ad avere ricevuto meno attenzioni scientifiche ed in questo senso è proprio Montessori a rompere questa regola, ponendo per prima, e in splendida solitudine, l’accento sull’importanza dell’infanzia. Basandosi sulle ricerche degli psicologi «benché le loro interpretazioni siano illustrate solo secondo concetti freudiani»[9], Montessori si sofferma sulle cause che provocano l’emersione dei cosiddetti “caratteri regressivi” nei bambini, cioè quelle manifestazioni di una «specie di decisione inconscia dell’essere neonato: andare indietro, cioè regredire, anziché progredire nello sviluppo», una sorta di reazione all’inospitalità del mondo adulto che spinge il neonato a tornare da dove è venuto. Montessori parla di una serie di caratteri regressivi e porta l’esempio del sonno troppo lungo quale rifugio del neonato nel regno della subcoscienza. Un bambino preda di caratteri regressivi manifesta una sorta di sgomento verso il mondo, condizione che se resa persistente farà del bambino un adulto che «avrà sempre repulsione per il mondo, paura d’incontrarsi con altre persone e sarà sempre timido»[10]. Il ritratto perfetto del paranoide delineato da Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo. «La nostra trascuranza non fomenta ribelli, come sarebbe fra gli adulti, ma forma individui che sono più deboli di quello che dovrebbero essere; forma caratteri che diverranno un ostacolo alla vita dell’individuo e individui che saranno di ostacolo al progresso della civiltà»[11]. Poteva dirlo in modo più chiaro?  

La funzione educativa della scuola
La “trascuranza” verso i bambini è il tratto caratterizzante della pedagogia tradizionale ed è la condizione che i bambini, in generale, vivono venendo al mondo. Sembra una bestemmia, eppure Montessori non si riferisce alle cure fisiche che il neonato riceve, per quanto conduca una critica serrata anche di quelle, ma all’ignoranza dell’adulto nei confronti della psiche dei bambini, oggetto sconosciuto e mai indagato profondamente, ignoranza paragonabile a quella nei confronti della psiche umana prima di Freud. Questa ignoranza diffusa in tutte le culture assume tratti di vera e propria teoria di pratiche addirittura dannose per la crescita psichica dei bambini. La disamina delle pratiche educative diffuse e delle conseguenze di queste sui comportamenti dei bambini la si può trovare in un’altra opera di Montessori[12], scritta nel 1950. Qui, tanto per fare degli esempi, l’autrice mette in relazione tra loro le pratiche educative errate e i comportamenti “regressivi” dei bambini come: attaccamento, possesso, potere, complesso di inferiorità, paure, bugie e così via. Un esempio per tutti è quello che riguarda l’importanza dell’utilizzo delle mani per lo sviluppo mentale stesso del bambino. Montessori sostiene che la manualità è fondamentale nelle prime fasi dell’esistenza umana non tanto per lo sviluppo della manualità stessa ma per lo sviluppo corretto dell’intera personalità. Se questa è una necessità vitale, e nessuno si sentirebbe di negarlo, accade anche correntemente di accettare come giusta la continua inibizione della curiosità tattile dei bambini con un classico della tradizione educativa ovvero il “non si tocca”. Sulla negazione e l’inibizione della curiosità infantile è basata gran parte della pedagogia tradizionale. Non è questa l’occasione per commentare nello specifico le analisi di Montessori, ma risulta più importante stabilire il luogo principale della deviazione dello sviluppo psichico o mentale del bambino dal percorso che potrebbe seguire in assenza dell’intervento repressivo dell’adulto: la famiglia. Montessori non individua esplicitamente nella famiglia il problema, pur criticando l’impreparazione (pedagogica) dei genitori, che possono perfettamente non avere nessuna cognizione circa il proprio ruolo pur trovandosi, naturalmente, a svolgerlo. Senza negare la funzione dell’istinto genitoriale si può facilmente comprendere come questo possa avere un ruolo fondamentale per quanto concerne i bisogni fisiologici del bambino, ma come non possa, per sua natura, incidere sui bisogni della mente, che Montessori chiama “spirituali”, i quali chiamano in causa direttamente l’educazione e quindi la teoria, o se si vuole, l’ideologia che la informa. Per questo motivo per Montessori la scuola assume il ruolo fondamentale di luogo in cui compensare quanto la famiglia scompensa. Essa diventa quindi il luogo strategico della società che dovrebbe costruirsi sulla negazione delle condizioni che normalmente negano la corretta crescita mentale dei bambini. L’edipizzazione del soggetto viene qui affrontata alla radice. L’esperienza delle case dei bambini lascia ben sperare, in quanto sembra che attraverso un approccio pedagogico corretto sia possibile recuperare dai tre ai sei anni, quanto dovesse essere, anche involontariamente, represso in contesto familiare da zero a tre anni. Il problema è che purtroppo la scuola, in generale, non avendo una chiara impostazione pedagogica non garantisce in nessun modo la compensazione necessaria, mentre finisce per avvallare e addirittura accentuare le deviazioni della crescita verso i caratteri regressivi dei bambini. La scuola infatti si configura piuttosto come il luogo in cui le pratiche educative della tradizione si fanno teoria e si applicano intensivamente. Da questo punto di vista la scuola, anziché prendere la direzione auspicata da Montessori, permane nell’impostazione ottocentesca che Foucault descriveva come “disciplinare” (anche se in relazione soprattutto alle istituzioni dello Stato più specificamente funzionali a questo ruolo). Ma in fondo la scuola è stata e rimane una delle poche istituzioni statali basate sulla concentrazione e l’applicazione a grande scala di dispositivi di repressione della personalità umana. A questo punto diventa chiaro come il fuoco di tutto il discorso sul tradimento della rivoluzione, cominciato con Trotsky, finisca per girare attorno al destino della scuola. Messa così sembra addirittura banale eppure mai si è pensato alla politica come stretta conseguenza della pedagogia di stato. In sostanza la politica come sistema di potere e come lotta ideologica per lo stesso si dà nella forma conosciuta di perversione/tradimento di qualsiasi suo proponimento originario, nel lasso di tempo necessario alla sua realizzazione, esattamente in ragione del modello tradizionale di produzione del soggetto, che a differenza di tante altre istituzioni non è stato mai messo seriamente in discussione, pur permanendo in linea di massima invariato da periodi storici precedenti a quelli in cui si è sviluppato ed affermato il capitalismo. Il capitalismo attraverso la sua istituzione educativa per eccellenza: la scuola; non ha cambiato il modo di formare soggetti, e perciò il proprio approccio verso l’infanzia, rispetto ai periodi precedenti. Ha invece universalizzato un modello pedagogico basato sulla repressione dell’autonomia del soggetto e mirato a configurarsi quale “fabbrica di ubbidienza”[13]. Esiste uno scritto di Montessori intitolato Educare alla libertà. È evidente che l’opera montessoriana si pone come il vero antidoto all’edipizzazione altrimenti pressoché meccanica del soggetto nel contesto educativo culturalmente dominante. Per questo motivo salvare il concetto di rivoluzione dalla perversione del tradimento di se stessa implica la rivoluzione della pedagogia che da modello basato sul fondamento della necessità dell’etero-direzione del soggetto viri finalmente verso la valorizzazione del concetto di autonomia del soggetto, che non può darsi al di fuori dell’autonomia psichica del bambino. Il lavoro va impostato all’asilo se non si vuole ricominciare sempre d’accapo e la speranza è quella di poter approfittare del generalizzato disinteresse della politica in tale senso. Si tratta ovviamente di un’indicazione programmatica utile anche e soprattutto per la ricostruzione di una sinistra politica finalmente immune dal tradimento e meno disattenta ai processi di crescita e formazione dell’umanità.

LUGLIO 2019



[1] G. Lukàcs, Considerazioni metodologiche sulla questione dell'organizzazione in Storia e Coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1967.
[2] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pag. 397.
[3] Ibidem, p. 391
[4] Ibidem, p.395.
[5] Per comprendere, ove non fosse chiaro, il senso di questa affermazione, si consiglia la lettura del testo dei filosofi francesi, i quali individuano nel freudiano “complesso edipico” il luogo psichico in cui alla società capitalistica riesce la sostanziale tipizzazione del soggetto secondo le proprie compatibilità sociali, attraverso l’inibizione dei caratteri più irriducibili del desiderio considerato quale reale motore dell’inconscio. Cfr. anche A. D’Aloia, Storia e (in)coscienza di classe in «Città Future n. 02 – Ottobre 2010», link: http://www.cittafuture.org/02/01-Storia-e-(in)coscienza-di-classe.html.
[6] M. Montessori, La mente del bambino, Garzanti, Milano 2017, pp.66-67.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem, p. 74.
[9] Ibidem, p. 76.
[10] Ibidem, p. 78.
[11] Ibidem, p. 79.
[12] M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti Milano, 1999.
[13] E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, Feltrinelli, Milano 2011.

 

 

 

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