Da L'Ippocrate, n. 2

REDDITO UNIVERSALE. Perché è necessario, per tutti

Piero Bevilacqua 

È il capitalismo, bellezza! Ci tengo a rammentare in via preliminare che chi scrive è andato in giro per l’Italia a perorare la causa del reddito di cittadinanza (meglio chiamarlo forse di dignità, ma ritornerà nel merito) qualche anno prima che nascesse il Movimento 5 Stelle. Non è una rivendicazione personale, ma una precisazione storica. In Italia, per disinformazione o per debolezza di memoria, si tende a dare la primogenitura di questa proposta, anzi a identificare quello che da tempo è un vero e proprio movimento rivendicativo, con la formazione politica fondata da Beppe Grillo. È dalla fine del passato decennio che in Italia opera, con molteplici iniziative e pubblicazioni, il Basic Income Network Italia (Bin Italia), collegata a una rete mondiale unificata dallo stesso fine. Non considero tale rivendicazione un obiettivo rivoluzionario, ma un passaggio obbligato di medio periodo delle società industrializzate. D’altra parte, com’è largamente noto, in alcuni paesi europei governati da un un ceto politico meno inetto e corrotto del nostro, tale forma di welfare vige ormai da anni in diverse forme e versioni. Personalmente, considero la riforma più auspicabile nelle società capitalistiche, atta a creare nuovi posti di lavoro e distribuire più equamente il reddito, la riduzione della durata della giornata lavorativa. In coerenza con quanto è avvenuto nell’ormai secolare storia delle società industriali. Lavorare meno, lavorare tutti, secondo il felice slogan italiano, conosciuto anche all’estero, dovrebbe essere lo sbocco naturale nella situazione presente. Secondo quanto prevedeva e auspicava il maggiore economista del XX secolo, Keynes, nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930). Anche Marx prospettava una drastica riduzione del tempo di lavoro destinato ad attività produttive, ma quale esito del superamento della società divisa in classi. Ebbene, il nostro tempo assiste al più paradossale capovolgimento di un corso storico secolare. Nonostante la crescita costante della produttività del lavoro degli ultimi decenni, la durata della giornata di lavoro, anziché diminuire, è aumentata. Hanno cominciato, come sempre gli Usa, dove negli anni ’90 i lavoratori erano occupati in media 350 ore in più all’anno rispetto ai lavoratori europei. (J. B. Schor, The Overworked American. The Unespected decline of Leisure, Wall Street Journal, New York 1993; P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011). Mentre era in corso una celebratissima crescita economica, la giornata lavorativa si allungava anziché accorciarsi. Tale orientamento ormai da anni va estendendosi anche ad altri paesi e all’Europa. È una tendenza che si manifesta attraverso la crescita degli straordinari tra i lavoratori stabilmente occupati, ma che investe anche il dilagante esercito dei lavoratori precari, i quali spesso non godono neppure di una “giornata lavorativa” in senso proprio. (R. Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Einaudi, Torino 2018; R. Ciccarelli, Forza lavoro: il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2018). È questo peraltro un ambito in cui la precarietà e frammentarietà delle prestazioni maschera la disoccupazione dilagante. D’altra parte l’espansione del tempo di lavoro investe non solo la produzione ma anche la distribuzione. Centri commerciali, supermercati, piccole botteghe aperte anche la domenica, a Pasqua e a Natale, ed anche il Primo Maggio. Mi sono dilungato su questo aspetto per sottolineare il carattere dirompente di un evento storico i cui effetti sulle strategie del capitalismo vengono di solito trascurate. Il crollo dell’Urss, la crisi generale del movimento comunista internazionale, il declino o la trasformazione in senso moderato del le socialdemocrazie e dei sindacati, in Europa e in Usa, hanno fornito al capitalismo un rapporto di dominio sulla forza lavoro quale forse aveva solo agli esordi della Rivoluzione industriale. Al mutato scenario politico, che ha privato il movimento operaio dei suoi tradizionali punti di forza, che ha perfino annichilito il suo immaginario simbolico, il patrimonio delle sue speranze, si è aggiunto, per il capitale, l’inedito, schiacciante vantaggio della possibilità di delocalizzare le imprese. È stata questa gigantesca opportunità il vero motore della cosiddetta globalizzazione: la libertà e la possibilità materiale – grazie alla rivoluzione informatica – di trasferire una fabbrica là dove i salari operai sono più bassi, le condizioni fiscali e normative più favorevoli al capitale. Il potere di un imprenditore di dislocare in un altro paese la propria azienda, di fronte alla richiesta delle maestranze di migliori condizioni di lavoro, o solo davanti alla semplice richiesta di conservare il lavoro, instaura un rapporto così drammaticamente asimmetrico tra capitale e lavoratori da spazzare via, dalle fondamenta, la possibilità stessa del conflitto. Il capitale acquista un tale dominio sulla controparte, una tale forza politica – essendo il centro erogatore del reddito della grande massa dei cittadini mentre lo stato è sempre meno autorizzato a investire – che a lungo andare, se nulla cambia, minerà le istituzioni democratiche. Del resto si tratta di un processo già in atto. Da alcuni anni si è preso a parlare di postdemocrazia (C.Crouch, Postdemocrazia, 2009). Dunque, il primo aspetto da considerare è squisitamente politico. Si leggono tante analisi sulla situazione economica e sembra che i processi esaminati siano tutti politicamente neutri, spogliati da interessi di classe, quasi meccanismi naturali. E invece i processi economici sono mossi da interessi spesso feroci, il capitalismo – come dovrebbe essere noto a chi non ha una posizione agiografica di fronte ai fenomeni in corso – sta conducendo e vincendo una vasta e multilaterale battaglia di classe (L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012). I gruppi economici dominanti hanno un vivo interesse a far mancare il lavoro: in questo modo hanno a disposizione una vasta platea di forza lavoro docile, disponibile, flessibile. È davvero la situazione ideale per combattere la competizione intercapitalistica su scala globale. Ma non c’è solo uno specifico interesse politico delle imprese a militare contro una politica keynesiana di piena occupazione. È la natura del capitalismo che è profondamente cambiata: un modo di produzione che assorbe sempre meno lavoro. È da anni che alcuni osservatori hanno cominciato a parlare di jobless growth, di crescitasenza occupazione. Poi la crisi del 2008 ha portato la devastazione che è nota e quindi, anche a distanza di 10 anni, si pensa, soprattutto in Italia, che sia solo questione di “uscire dalla crisi” di superare una congiuntura sfavorevole e che tutto riprenderà come prima. Ma non è così. Esemplare quello che sta accadendo negli Stati Uniti, che dalla crisi (da essi stessi provocata) sono usciti da un pezzo: «L’effetto occupazionale della crescita del Pil è oggi più blando di quanto non accadeva anni fa. Il caso americano insegna: nonostante l’economia segni da anni un andamento positivo, il tasso di occupazione degli Usa rimane ai minimi storici (addirittura paragonabile a quello della grande depressione). I bassi tassi di disoccupazione non devono ingannare: molti americani semplicemente hanno smesso di cercare lavoro. Il problema è che l’aumento del Pil è connesso principalmente ai settori più innovativi ed efficienti (spesso legati alla domanda estera). Così crescono profitti, investimenti e produttività; ma solo in misura modesta l’occupazione» (M. Magatti, Vantaggi e svantaggi della total job society, “Vita e Pensiero”, dicembre 2017). Se, dunque, la più potente economia del pianeta, pur in pieno sviluppo economico, non riesce a garantire non dirò piena occupazione, ma neppure un lavoro dignitoso e ben remunerato, come può l’indebitata Italia, con i suoi indici di incremento del Pil di “uno virgola qualcosa”, garantire alcunché a chi è in cerca di un lavoro, mentre per imposizione dogmatica e per interessi germanici viene impedito allo stato di fare grandi investimenti? Cosa accadrà nel nostro Mezzogiorno, che in alcuni ambiti è tornato indietro di qualche decennio? I giubili propagandistici di ripresa economica che abbiamo sentito sulla bocca dei presidenti del Consiglio e degli uomini degli ultimi due governi sono, dal punto di vista dell’occupazione, delle blandizie o – se vogliamo concedere la buona fede – delle pure illusioni. È un modo di osservare i processi secondo un vecchio meccanismo mentale: pensare che il futuro torni a replicare quel che già è accaduto in passato. E dunque si inneggia alla ripresa, all’Italia che è “ripartita”. Comprensibile slogan elettorale, dal momento che i partiti sono immersi in una sempiterna campagna elettorale. Quale Italia è ripartita? L’analfabetismo analitico, la coazione a ripetere, l’incapacità di associare alle parole un brandello di pensiero, impedisce a quasi tutto il ceto politico italiano di vedere che è ripartito il processo di accumulazione del capitale, ma non lo sviluppo della società. Non ci sarà ripresa significativa dell’occupazione con questi ritmi di crescita. Crescita, del resto, non tutta auspicabile se deve avvenire a spese degli equilibri territoriali e ambientali. Ma non ci sarà soprattutto perché non la futura, ma la prossima crescita economica sarà sempre più segnata dalla sostituzione del lavoro umano con macchine, con dispositivi elettronici. Nei prossimi anni avremo l’avvento della cosiddetta industria 4.0, caratterizzata dall’uso capillare dei robot, l’internet delle cose industriali, l’integrazione orizzontale delle macchine che si relazionano tra loro, la stampante 3D, ecc. E, novità assoluta, l’automazione digitale si applicherà non solo alle operazioni manuali, ma anche alle attività cognitive. Nei prossimi anni nelle società industriali si prevede la sparizione di milioni di posti di lavoro. (M. Ford, The Ligths in the tunnel. Automation, accelerating technology and the economy of the future, Createspace Indipendent Pub 2009; E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’epoca della tecnologia trionfante, Feltrinelli, Milano 2015). Andiamo dunque incontro a una società insostenibile e paradossale: un incremento senza precedenti della ricchezza in termini di prodotti e di servizi, con sempre meno occupazione. E tale scarsità di lavoro è destinata a produrre docilità soggettiva delle nuove generazioni, scoraggiamento sociale e politico e dunque impossibilità di un antagonismo che costringa il capitale nell’unica direzione che sarebbe vantaggiosa per tutti: una equa distribuzione del poco lavoro necessario e del reddito disponibile.

 

Spezzare il circolo vizioso

Per spezzare questo nefasto circolo vizioso non abbiamo altro mezzo, oggi, che imporre il reddito di dignità, dare alle persone, ai nostri giovani, un minimo di sicurezza materiale perché incomincino ad essere autonomi nelle proprie scelte di vita. Nel Sud ormai milioni di persone non sono politicamente e civilmente più libere, perché costrette a uniformarsi alle influenze di chi promette loro una occasione di lavoro! Chi teme l’assistenzialismo e la “passivizzazione” degli individui, per un reddito ricevuto senza merito, dovrebbe ricordarsi di questa attuale, drammatica situazione di dipendenza. Ma dovrebbe soprattutto capire che il mondo è profondamente cambiato, è mutata la natura del capitalismo ed è comprensibile, ma sbagliato, valutare le condizioni del nostro tempo con la vecchia etica del lavoro. Non è necessario lavorare una giornata al fine di produrre merci a servizio di qualche privato o a sbrigare pratiche in un ufficio pubblico per poter pretendere un salario. Certo, fornisce un’intima soddisfazione morale essere retribuiti per un compito dignitosamente svolto. Ma se tali compiti scarseggiano non si può andare a cercare qualunque lavoro per ricevere un reddito. D’altra parte, viviamo ormai tutti immersi in una società panlavoristica. Ognuno di noi, anche il disoccupato, contribuisce per la sua parte alla valorizzazione del capitale, alla produzione della ricchezza sociale. Lo fa mentre telefona a qualunque ora delgiorno e della notte, naviga su internet, si sposta da un ufficio all’altro in cerca di lavoro, consuma pubblicità televisiva o sui siti, svolge lavoretti, va in giro a fare acquisti, ecc. È mutata e continua a mutare la natura della ricchezza, ma cambiano, diventano diffusi, sotterranei, capillari e invisibili, i modi in cui essa viene prodotta all’interno di un capitalismo pervasivo che succhia profitti da tutto ciò che si muove.

 

Che tipo di reddito?

Che cosa intendiamo per reddito di dignità? Pur non essendo nostra competenza entrare nel merito tecnico della sua misura ed applicazione, non ci sottraiamo all’obbligo di una definizione essenziale. Esso dovrebbe essere un reddito di base universale e incondizionato, per tutti coloro che fonti di reddito non possiedono. Crediamo non siano auspicabili le tante forme di workfare attive da tempo in Europa, che subordinano l’erogazione del sussidio a obblighi di lavoro e di addestramento destinati a schiavizzare gli individui. Il film di Ken Loach, Io, Daniel Blake (2016) ci ha dato una testimonianza esemplare e indimenticabile di come il reddito minimo applicato nel Regno Unito assoggetti i subalterni a meccanismi implacabili e perfino persecutori di subordinazione. Possiamo provare a immaginare quali dinamiche sociali potrebbe innescare una sifatta elargizione? Pensiamo ai nostri giovani laureati che vorrebbero continuare le proprie ricerche e studi. Essi non scapperebbero magari a fare i camerieri a Londra, dopo mesi e mesi di ricerca di un posto di lavoro in Calabria o in Sicilia. Avrebbero l’agio di continuare i loro studi e anche quel minimo di sicurezza per tentare insieme ad altri giovani di avviare qualche impresa, iniziative culturali, centri di ricerca, ecc. Anche il padre di famiglia disoccupato non resterebbe certo inerte a fruire del modesto reddito pubblico. Chi ha attitudine al lavoro produttivo e comunque all’intrapresa, avrebbe vari campi in cui applicare i suoi talenti per integrare il proprio reddito di base: dall’agricoltura all’allevamento animale, dall’enogastronomia al turismo, dall’edilizia di restauro, al piccolo commercio, ai trasporti, al volantariato, ecc. Occorre precisare che non intendiamo suggerire qui l’idea di una società abitata da un popolo di oziosi. Viene meno il lavoro e tramonta l’etica del lavoro, ma non l’attitudine umana all’operosità. L’intelligenza e l’energia delle persone si può applicare a un vasto campo di ambiti. Il “vecchio Adamo che è in noi”, come Keynes definiva quell’innato bisogno dell’uomo a operare, può essere soddisfatto non solo con le attività produttive, che ovviamente non spariranno e non saranno tutte automatizzabili, ma con tante attività di cura. Cura dell’ambiente, del territorio, del paesaggio, accoglienza e lavoro di me-diazione culturale con gli immigrati, assistenza agli anziani, creazione di welfare locale, ecc. Naturalmente perché questi processi si sviluppino occorre ridare centralità al potere pubblico. Soprattutto i comuni devono essere messi in condizione di investire in infrastrutture, in cura delle città e dei manufatti urbani, in restauro del territorio, cura dell’ambiente, gestione dei servizi, dall’acqua alla sanità, alla scuola, ecc. E occorre perciò rovesciare la funesta ideologia che ha trovato così tanti proseliti negli ultimi 30 anni, secondo cui funziona solo ciò che è promosso dall’iniziativa privata. Occorre rimettere al centro il pubblico, cioé noi, la collettività dei cittadini, accrescendo la trasparenza degli atti e dei procedimenti amministrativi e incrementando così efficienza, democrazia e partecipazione collettiva. In una società resa operosa dall’iniziativa pubblica e da una cultura diffusa del bene comune ci sarà poco posto per l’inerte passività del singolo.

 

Una risposta alla classica obiezione

Infine, una risposta all’obiezione più sostanziale e rilevante all’introduzione del reddito di dignità: quella della scarsità delle risorse finanziarie disponibili. Obiezione da affrontare con serietà, ma che consente di svolgere una riflessione politica oggi assolutamente necessaria. Ora non c’è dubbio che un Paese con il nostro debito pubblico non è nelle migliori condizioni per affrontare questa spesa rilevante. Ma su tale punto occorre premettere una riflessione generale. Dobbiamo porci la domanda radicale: una forza politica che rappresenti davvero la parte più debole della società deve farsi carico della sostenibilità finanziaria delle proprie rivendicazioni? Certo, non può pretendere di avere la Luna, perché nessuno gliela può dare. Ma della sostenibilità finanziaria si deve fare carico il governo, non una forza di opposizione che sia veramente tale, che rappresenti realmente gli interessi dei ceti più deboli e svantaggiati. E questo per una ragione molto semplice: il bilancio dello stato, specie dello stato di un paese ricco come il nostro, non è la pura somma aritmetica di entrate e uscite, ma è un vero “campo di forze”. La sua composizione è il risultato degli antagonismi dei più forti che si spartiscono la torta, è un bilancio di classe che dà a chi è in posizione di preminenza e toglie a chi non ha voce. Come si spiegherebbe altrimenti l’enormità del fatto che, annualmente, vanno alle nostre forze armate bel 25 miliardi di euro, 5 dei quali solo per armamenti? Cinque miliardi per uccidere esseri umani e distruggere territori in qualche parte del mondo in violazione all’articolo 11 della nostra Costituzione. Come si spiegherebbe altrimenti – stando ai bollettini annuali della Banca d’Italia – che al 30% delle famiglie più povere va appena l’1% della ricchezza nazionale, mentre il 30% delle più ricche ne detiene ben il 75%? Il bilancio dello stato si compone non solo di uscite – ad esempio di esborsi pubblici, che in tutti questi anni sono andati alle imprese nel tentativo di accrescere l’occupazione – ma anche di una gerarchia fiscale non progressiva. Si accresce la ricchezza privata di chi è già ricco, mentre lo stato non accresce i propri introiti fiscali come dovrebbe se in Italia esistesse una forza politica di opposizione. Dunque, questo farsi carico della sostenibilità finanziaria del reddito di dignità è un problema politico, non economico, una questione sociale e di classe, non di quantità. Tale rispetto delle compatibilità è solo il riflesso e la testimonianza della capitolazione delle forze politiche che erano state di sinistra. Esse, diventate forze di governo, hanno finito col guardare all’economia con la stessa cultura dell’avversario, come un insieme di leggi naturali e immodificabili, senza più scorgere i meccanismi classisti che la muovono e orientano. Il linguaggio dominante riflette in maniera fedele l’abbandono dell’analisi radicale della realtà e l’ac-cettazione del punto di vista dell’avversario: scompaiono, dal lessico corrente, parole come capitale, capitalistico, profitto, processo di accumulazione, mentre godono invece di esclusiva circolazione – quale unica moneta valida – impresa, imprenditore, sviluppo, mercato, crescita. Tutti termini neutri e positivi, lemmi di una semantica che illustra il dominio assoluto del punto di vista del capitale nel nostro tempo. Perciò la battaglia per il reddito di dignità può anche essere la leva politica e culturale in grado di ridare alla sinistra una visione non subalterna del capitalismo attuale, e una prospettiva di lotta realmente egalitaria.  

MARZO 2020