CAOS PROSSIMO VENTURO (articolo pubblicato su «La prima pietra»)
Massimo Ammendola
L’attuale crisi globale, secondo il
filosofo ed economista indiano Prem Shankar Jha, è solo l’ultima in
ordine di tempo nello sviluppo del capitalismo, essendo alla fine di uno
dei suoi cicli di espansione: è la quarta volta che infrange il suo
«contenitore» economico, politico e istituzionale, provocando il
cosiddetto «caos sistemico», ovvero il crollo delle istituzioni e delle
relazioni preesistenti, accompagnato da un prolungato conflitto tra gli
stati e all’interno di essi.
Ogni espansione, ha condotto alla
riorganizzazione di un’area del pianeta sempre più vasta, la quale ha
creato le condizioni per l’avvio del successivo ciclo di accumulazione e
per la nascita di una nuova potenza egemone. Al termine della quarta
fase di espansione, quella del «secolo americano», si può ipotizzare che
stiamo passando a una quinta fase targata Cindia.
In effetti, la storia dell’umanità è il
continuo tentativo di adattamento al cambiamento tecnologico:
quest’ultimo è il vero fattore propulsivo del capitalismo, perennemente
stimolato dal profitto. La società scivola in uno stato di cambiamento
costante, in cui è favorita la crescita della competizione: i
cambiamenti tecnologici nelle industrie dei trasporti e della
comunicazione sono la causa dell’ultimo ciclo di espansione. La costante
accelerazione ha sottoposto le istituzioni politiche a una pressione
sempre crescente e ha aumentato la violenza di ciascuna transizione.
Le origini di questo paradosso risiedono
nel movimento a forbice dell’accumulazione di capitale liquido e delle
opportunità di investimento. Dopo uno «scoppio di distruzione creativa»,
ovvero dopo la spesa iniziale per i nuovi mezzi di produzione che
sostituiscono i vecchi, i profitti crescono. Ma ogni sostituzione limita
le opportunità di ulteriori e rapidi aumenti di produttività, e scendono
le probabilità di profitto sugli investimenti futuri. Ciò crea una
pressione inesauribile da parte di quantità crescenti di profitti
generati dagli investimenti passati per trovare nuove opportunità.
Dietro le quinte degli eventi, agisce
quella che Karl Polanyi definì l’«Alta Finanza», funzionando come
un’organizzazione permanente ed indipendente, legata unicamente alle
banche centrali, che sta trasformando il pianeta in un unico centro di
produzione e commercializzazione.
È questo il momento in cui il
capitalismo assume la sua forma più egemonica e comincia a riorganizzare
vaste aree del mondo, con l’ausilio di una «ideologia legittimante» e
sostenuta dalla minaccia o dall’uso della forza: ogni ciclo
capitalistico ha pertanto dato vita a lunghi periodi di violenza, dal
momento che le città e le nazioni al centro del sistema hanno cercato di
riorganizzare la periferia per aumentare la redditività del capitale.
La globalizzazione potrebbe apparire
oggi come il collasso del capitalismo classico, specie in questo periodo
di crisi. Invece, come afferma Samir Amin, la globalizzazione è proprio
l’industrializzazione della periferia, uno sviluppo che si è manifestato
come parte dello smantellamento della produzione nazionale e della sua
ricostruzione in un sistema internazionale integrato di produzione
industriale. In sintesi, la produzione industriale cessa di essere
nazionale per diventare internazionale. Il capitalismo globale, cambia
forma, riorganizzandosi, distruggendo quello nazionale.
Gli agenti principali della
globalizzazione sono le grandi aziende multinazionali, che controllano
oltre i due terzi del commercio internazionale. Considerata la posta in
gioco, non stupisce che la politica sia schiava dell’economia. La smania
di stabilità delle grandi aziende è il fattore alla base di gran parte
dei processi di riorganizzazione politica oggi in corso nel mondo, ad
opera, soprattutto, degli Stati Uniti: aziende con sede in paesi dove la
produzione va avanti con un alto grado di stabilità politica ed un basso
livello di mobilitazione sindacale sono assai rare, quindi queste
condizioni devono essere create in modo artificioso e con la forza, ad
opera di uno stato forte, se non autoritario.
La risposta statunitense al caos
crescente si è tradotta nel tentativo di creare un impero: ma sia la
prima avvisaglia, ovvero l’intervento in Kosovo, sia i successivi
interventi in Iraq prima e in Libia poi, con in mezzo la serie di
rivoluzioni controllate della “primavera araba”, sono gli ambiziosi
tentativi di realizzarlo, che stanno portando ad un aumento del caos.
Caos presente anche all’interno degli
stati, dove stanno esplodendo i conflitti tra i nuovi vincitori e i
nuovi sconfitti della società. La formazione dei sindacati, la nascita
del socialismo e del comunismo, e il trionfo di quest’ultimo in vaste
aree di Europa e di Asia, furono risposte all’insostenibile «utopia
perversa» del capitalismo industriale nel terzo e quarto ciclo di
espansione. Ora, all’ingresso del quinto ciclo, le forze economiche
ricreando un’utopia perversa: legare il destino della nostra società a
un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata, un sistema
condannato alla crescita, che esternalizza i danni, facendoli ricadere
su di noi, sulle generazioni future e soprattutto sulla natura,
fornitrice di risorse e secchio della spazzatura, protagonista e vittima
del processo produttivo.
Un sistema che sovraproduce e che quindi
può durare solo sovracquistando, cioè attraverso l’iperconsumo, indotto
dal sistema pubblicitario e dall’obsolescenza accelerata e programmata
dei prodotti. Come se fossimo fuori dal tempo e dallo spazio.
All’utopia folle della crescita
illimitata, finora non vi è stata alcuna coerente risposta globale: il
capitalismo, con i suoi attori/imprenditori dello sviluppo (imprese
transnazionali, banchieri, responsabili politici, tecnocrati e mafie),
sta per spezzare definitivamente lo stampo dello stato-nazione,
generando enormi pressioni per fare a pezzi ogni istituzione umana, tra
cui le basi dello stato sociale, ostacolo allo sviluppo del capitalismo
globale.
È evidente che il mondo odierno in via
di globalizzazione è privo di timoniere, e i suoi leader, che suppongono
di avere il controllo degli eventi, sono solo dei re nudi. Wystan Hugh
Auden scrisse negli anni Trenta: «Le nostre vite sono determinate da
forze esterne che fingiamo di capire». Una frase che riassume la
condizione attuale dell’umanità.
DICEMBRE 2012