nuovo banner vecchio
00
Gennaio 2010

home - indice

 

FASCISMI IN EVOLUZIONE.

Il monoclassismo istituzionale in Italia

Alessandro D’Aloia

 

1. Termini classici.

«Tutto scorre, non si può tornare due volte nello stesso fiume» (Eraclito).

Sono passati più di 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. L’idea del fascismo che abbiamo è datata. I significati delle parole si evolvono, cambiano con il passare del tempo, come i concetti che si hanno dei fenomeni. Oggi il senso di una parola come «regime» potrebbe essere diverso da quello consolidato. A sinistra in molti si sono posti il problema di comprendere questo mutamento di senso, a partire dalla constatazione che la «democrazia» in cui viviamo non è poi così democratica. [1]

Vana risulta essere la ricerca di definizioni che possano efficacemente descrivere quello che è possibile osservare nella nostra quotidianità. Si riportano di seguito le definizioni di: regime, dittatura, totalitarismo.

«Regime: sistema politico, forma di governo, organizzazione statuale; sistema di governo autoritario, dittatoriale; per antonomasia il regime fascista in Italia».

«Dittatura: regime politico in cui tutti i poteri sono concentrati in un solo organo, individuale o collegiale che li esercita al di fuori di ogni controllo: la dittatura fascista».

«Totalitarismo: sistema, regime politico in cui il potere viene concentrato nelle mani di un gruppo dominante, che assume il controllo di tutti gli aspetti della vita dello stato imponendo la propria esclusiva ideologia». (dizionario interattivo Garzanti)

È semplice notare come nelle due accezioni riportate della parola «regime», siano compresi significati  ben diversi fra loro. La stessa parola indica sia una «forma statuale» in generale che il fascismo, ovvero una forma statuale determinata storicamente. Mentre la prima accezione è neutra, la seconda è, in una repubblica parlamentare, negativa, almeno formalmente. Nell’uno e nell’altro caso la definizione di regime non ci aiuta molto a comprendere l’oggi.

La parola dittatura è più specifica, al di là degli altri significati che essa può assumere (per Roma antica o nella visione marxista), è chiaro almeno che si parla di dittatura quando la divisione dei tre poteri dello stato viene meno e tutti sono concentrati in un solo organo. [2]

Un altro termine equivalente a dittatura è quello di «monocrazia» ad indicare una forma di governo che assume tutti i poteri in un unico organo.

Più sfumato e flessibile, quindi adattabile a situazioni non apertamente dittatoriali in senso tradizionale, è il termine «totalitarismo» in cui si parla di concentrazione più in generale, di controllo di tutti gli aspetti della vita dello stato e di imposizione di una mono-ideologia. Ma siamo ancora abbastanza lontani dalla situazione attuale, nei termini in cui l’imposizione di un pensiero unico è ottenuta con un apparente «consenso popolare» universale.

Non è superfluo notare come sia l’accezione negativa di regime che la definizione di «dittatura» facciano entrambe riferimento all’esempio storico eccellente del fascismo.

Il fascismo, divenendo sinonimo di regime e dittatura finisce per predominare sul significato di stato autoritario ma eventualmente «non fascista». Da qui l’idea comune che un «regime» o assume i caratteri totalitari conosciuti storicamente o non è «regime», idea che circoscrive l’immagine negativa di una società non libera, almeno in Italia, nella forma storica del fascismo, confinando appunto nel passato il concetto di «antidemocrazia».

Se «regime» è il fascismo tale non può essere, ad esempio, la «repubblica parlamentare democratica».

Il problema non sembra di semplice soluzione neanche nella sua impostazione inversa. Si potrebbe pensare che basti definire il senso della parola «democrazia» ed ottenere per esclusione ciò che democratico non è, ma qui si apre un ulteriore, e se vogliamo, ancora più fuorviante fronte di discussione dato che a dispetto delle convinzioni diffuse, il concetto di democrazia non è assolutamente univoco, soprattutto quando si dia per scontato che basti dividere tre funzioni dello stato per ottenerla.

L’analisi del fascismo italiano (e per estensione dei «fascismi» internazionali), nella sua forma storica concreta, è nella versione fornita da Trotsky, completamente aderente alle caratteristiche salienti di ciò che va comunemente sotto il nome di «regime fascista». Vale la pena riportare di seguito un estratto dallo scritto «Democrazia e fascismo», molto chiaro, anche se non esaustivo dell’argomento:

«Tra la democrazia (parlamentare borghese) e il fascismo c’è una contraddizione. Questa contraddizione non è affatto «assoluta» o, per parlare in termini marxisti, non implica affatto la contrapposizione di due classi irriducibili. Ma implica due diversi sistemi di dominazione di una medesima classe. Questi due sistemi, il sistema parlamentare democratico e il sistema fascista, si basano su diverse combinazioni delle classi oppresse e sfruttate e cozzano inevitabilmente, e in forma acuta, l’una contro l’altro.

La socialdemocrazia, che oggi è la principale rappresentante del regime borghese parlamentare, si appoggia sugli operai. Il fascismo, per parte sua, si appoggia sulla piccola borghesia […]. Per la  borghesia monopolistica il regime parlamentare e il regime fascista non rappresentano che due diversi strumenti di dominio: ricorre all’uno o all’altro, secondo le condizioni storiche. […]. Fascistizzare lo Stato non significa solo mussolinizzare forme e metodi di direzione, ma anzitutto e soprattutto distruggere le organizzazioni operaie, ridurre il proletariato allo stato amorfo, creare un sistema di organismi che penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato.. appunto in ciò consiste l’essenza del regime fascista. […] . Ci sono momenti in cui la borghesia si appoggia e sulla socialdemocrazia e sul fascismo, cioè quando si serve simultaneamente della agenzia conciliatrice e dell’agenzia terroristica[3]

Come è possibile notare per Trotsky non basta comprendere quale classe beneficia di un regime fascista, ma è necessario anche definire la base sociale di un certo fenomeno politico. La socialdemocrazia, quanto il fascismo, come organizzazioni politiche dotate di propri apparati, sono dal punto di vista della borghesia due sue agenzie di difesa, una a carattere conciliatorio, l’altra a carattere terroristico. Questo schema è molto vicino, ad esempio, alla visione di Gramsci quando parla di coercizione e consenso come diverse tattiche che la borghesia utilizza per mantenere il proprio dominio sociale.

L’essenza del fascismo è individuata, da Trotsky, nella volontà cosciente di distruggere le organizzazioni operaie e ridurre il proletariato perciò allo stato amorfo. Tornerò più avanti sull’altro punto, gravido di implicazioni: creare un sistema di organismi che penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato.

Importante è l’obiettivo essenziale del fascismo ovvero quello di distruggere le organizzazioni operaie, cosa che non sempre è possibile, in assoluto, attraverso metodi «legali», infatti:

«Far marciare l’esercito contro il popolo è spesso impossibile: esso comincia a disgregarsi e alla fine si verifica il passaggio di una grande parte dei soldati dalla parte del popolo. Per questo il capitale è costretto a costituire bande armate particolari, specialmente allenate contro gli operai, come certe razze di cani sono allenate contro la selvaggina[4]»

Da cui l’immagine sintetica del fascismo come cane da guardia del capitalismo[5].

Per Trotsky, però, il fascismo è il nome dato al regime di Mussolini in Italia, da distinguere dai regimi autoritari sorti in altri contesti nazionali. Nel fascismo però ci sono dei caratteri di classe e degli obiettivi che costituiscono delle basi comuni dei diversi regimi autoritari e che risultano perciò in certa misura generalizzabili. Per questo motivo, sempre con riferimento a Trotsky, risulta più corretto utilizzare il termine di «bonapartismo», per indicare il soggetto politico «che appoggiandosi sulla lotta di due campi, con una dittatura burocratico-militare «salva» la «nazione» (dalla rivoluzione socialista)». Sebbene anche i bonapartismi abbiano differenti caratteri, la loro essenza è rappresentata dal fatto di essere «regimi che si reggono direttamente sul sostegno dell’apparato militar-poliziesco piuttosto che regimi con una base di massa» [6].

In questa definizione il bonapartismo è visto come sviluppo concluso di un processo particolare in cui una forza sostanzialmente statale-burocratica, riesce a mantenere temporaneamente il potere anche galleggiando al di sopra delle classi che le hanno permesso di giungere al potere. Il bonapartismo è una forma di potere astratta, staccata dalle masse, e in definitiva «instabile». Nell’elaborazione trotskysta il bonapartismo è un punto di arrivo di un processo vivo, in cui la fase di ascesa è definita con il termine «termidoro», in analogia con gli avvenimenti della grande rivoluzione francese. La fase termidoriana è quella in cui si intravedono già chiaramente elementi politici reazionari organizzati, che mirano al controllo della macchina statale e guadagnano consenso sociale sfruttando l’antagonismo esistente fra le diverse classi in lotta. Nella fase termidoriana il dato principale è individuato nel fatto che il bonapartismo non è ancora realizzato. La differenza qualitativa è di massimo interesse politico, dato che scambiare l’ascesa di un regime totalitario con la sua affermazione definitiva, significa abbandonare la lotta contro la reazione prima che questa abbia realmente vinto.

Tutto questo ha un valore eccezionale nella comprensione esatta del fascismo come evento storico determinato. Dato però che l’essenza del fascismo è individuata nella distruzione delle organizzazioni operaie, va da sé che in un contesto storico-politico, come quello attuale, in cui tali organizzazioni laddove sopravvivono non costituiscono una minaccia reale, risulta difficile immaginare un regime che nasca con lo stesso intento, apertamente distruttivo e violento nei confronti di un «apparato» operaio che di fatto già non esiste più o ha comunque perso la sua influenza di massa. Un altro aspetto fondamentale del bonapartismo è l’antagonismo di classe in vigore e chiaramente polarizzato nella società attraverso lo scontro di organizzazioni di classe attive ed operanti. A rigore dunque oggi non sarebbe corretto parlare di fascismo, o di bonapartismo. Da questo punto di vista, nell’ipotesi che un regime esista oggi, diventa necessario quanto meno individuarne l’essenza attuale ed il fine concreto, in una situazione in cui l’opposizione politica al capitalismo versa in una condizione di debolezza nazionale ed internazionale, forse senza precedenti nella storia del movimento operaio.

Di fronte al mutamento delle condizioni storiche ed alla necessità di descrivere con concetti validi tale mutamento si hanno, in generale, due possibilità: o si estende il significato della parola originaria a ciò che non vi era compreso all’inizio, o si propone un termine nuovo.

Siamo in una situazione in cui il significato originario sembra restrittivo, mentre il linguaggio comune non ci ha ancora fornito una parola adeguata a descrivere la realtà mutata della natura del potere che osserviamo.

Se l’estensione di significato non è probabilmente il metodo più corretto per cogliere appieno le modificazioni della realtà, perché al di là dell’immediatezza dell’operazione semantica rischia di confondere i nuovi significati con quelli storici, tuttavia è proprio in questa direzione che si è proceduto, almeno nel paio di esempi che voglio riportare, i quali sono al di là di questa scelta preziosi perché forniscono altri elementi importanti nella comprensione del mutamento di regime del «regime». Di passata è utile ricordare che ciò che è successo al termine «fascista» trova un parallelo nel termine «mafia». È infatti noto che ci siano diversi tipi di mafia localmente differenziate e con nomi e tradizioni diverse, ma è chiaro ciò che il termine sta ad indicare, tanto che è divenuto uso comune parlare di mafie, come di fascismi. Questo parallelo fra i due termini non esaurisce, per altro, le relazioni fra i due fenomeni che essi descrivono.

 (torna su)

2. Le facce del fascismo

Nel libro «Col, sangue agli occhi, il «fascismo americano» ed altri scritti»[7] dato alle stampe una settimana prima che l’autore venisse assassinato in carcere, G. L. Jackson nell’estendere il significato della parola «fascismo» ad un sistema totalitario internazionale, con varie forme nazionali, nega l’importanza e l’esistenza stessa di una compiuta ideologia fascista. Essa è, per l’autore, flessibile al fine di adattarsi alle diverse situazioni storiche e geografiche, quindi l’ideologia fascista è in sé contraddittoria e non costituisce un punto valido di analisi per la comprensione del fenomeno nella sua globalità.

«Ma c’è un fatto che mi spinge ad insistere tenacemente sulla non-importanza dell’ideologia: poiché era lo sradicamento e la disgregazione sociale di quel determinato periodo a far reagire la maggior parte degli intellettuali fascisti, ogni volta che la situazione cambiava aspetto, essi erano in larga misura costretti a ripudiare quasi tutta la loro ideologia precedente». (pag. 143)

«Ma c’è una ragione ultima per cui bisogna negare nel fascismo l’importanza dell’ideologia: il fatto che il fascismo assume più di una forma. Infatti ha dimostrato storicamente di possedere tre diverse facce. La prima è quella di «non al potere», quando cerca di essere più o meno rivoluzionario e sovversivo, anticapitalista e antisocialista. La seconda è quella «al potere ma non saldamente», quando il fascismo assume quegli aspetti sensazionalistici che vediamo al cinema o leggiamo nei romanzi da quattro soldi, e la classe dirigente lo usa strumentalmente come un regime capace di sopprimere il partito d’avanguardia e il movimento popolare e operaio. La terza faccia del fascismo è quella «al potere saldamente». In questa fase può permettere persino alcune forme di dissenso. […] Il prodotto finito, l’assetto fascista vero e proprio, è diametralmente opposto alla sua ideologia d’origine».

Come appare chiaramente le tre facce del fascismo di Jackson, aggiungono una terza fase allo schema classico di termidoro e bonapartismo, quella di al «potere saldamente». L’ultima fase, quella post-fascista, coincide con la normale «democrazia parlamentare» in cui la classe dominante borghese riprende in mano le redini della situazione non attraverso artifici di qualche sorta ma attraverso la «normale» vita istituzionale di uno stato «democratico», in cui sono tollerate tutte le forme di dissenso che non mettano seriamente in discussione gli equilibri di potere. Per Jackson quindi la fase post-bonapartista è, a tutti gli effetti, un’estensione del fascismo, un suo perfezionamento.

Per ciò che concerne l’ideologia fascista, in effetti l’unica sua costante, comune tra l’altro all’ideologia dominante della borghesia «saldamente al potere», è il viscerale anticomunismo, tutto il resto risponde ad un semplice criterio di flessibilità. L’ideologia fascista è un coacervo di ideologismi spiccioli e primordiali pronti all’uso, da montare all’occorrenza contro il nemico di turno da affiancare al nemico di sempre. Quindi già nel fascismo originario l’ideologia è secondaria anche se così non sembrerebbe.

A proposito del carattere sostanzialmente a-ideologico del fascismo, può tornare utile anche un piccolo saggio di U. Eco dal titolo «Il fascismo eterno» in «Cinque scritti morali»[8], per altri versi fuorviante ma sicuramente efficace nel titolo e parzialmente illuminante nel seguente passaggio: «[…] il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy (sfumato). Il fascismo non era un’ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni.».

Se con Trotsky l’analisi del fascismo si arresta, per forza di causa maggiore, al secondo stadio con Jackson abbiamo quanto meno la descrizione di ciò che è avvenuto in seguito alla II guerra mondiale, nel mondo occidentale a «capitalismo avanzato».

Da un punto di vista economico il carattere del fascismo Jacksoniano è individuato nella centralizzazione: «Comunque, l’economia fascista è tutta incentrata sul tentativo di attuare dei controlli mediante la centralizzazione: controllo monopolistico sul capitale, blocco dei prezzi, congelamento dei salari, e un commercio estero accuratamente equilibrato». (pag. 155)

«Tutti questi fatti possono essere considerati come altrettante verifiche del tentativo di mettere in atto quei controlli centralizzatori che caratterizzano l’assetto fascista classico» (pag. 158)

«[…] l’intero mondo occidentale precipitò nella recessione e in una profondissima depressione. Due nazioni non vennero coinvolte, se non minimamente, in questo disastro generale: la Russia, che si era tolta dal giro con una rivoluzione socialista riuscita; e l’Italia, che si era dotata di un’economia fortemente centralizzata e, almeno tendenzialmente, chiusa all’influsso di quelle degli altri stati borghesi. […] L’elemento chiave che rese del tutto singolare la politica economica dell’assetto fascista fu l’insistenza sul fatto che «è il governo che interviene per fare le riforme». Questo era l’opposto della «mano invisibile» che, secondo Adam Smith, avrebbe coordinato l’attività economica…» (pag. 148)

Gramsci chiama questo stesso processo di centralizzazione con il termine di «Rivoluzione passiva» di seguito così definita e applicata nella fattispecie proprio al fascismo italiano: «si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l'intervento legislativo dello Stato e attraverso l'organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l'elemento «piano di produzione», verrebbe accentuata cioè la socializzazione e la cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l'appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l'unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell'industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più avanzate forme industriali di paesi che monopolizzano le materie prime ed hanno accumulato capitali imponenti». (Q. 10, I, par. 9)

Tanto per Jackson quanto per Gramsci quindi il fascismo classico è monopolistico e accentratore in economia, ad indicazione del fatto che la pianificazione economica in sé non è elemento estraneo al capitalismo e di conseguenza non sufficiente al socialismo, seppure necessaria. Con il fascismo il capitale impara ad auto-regolamentarsi in termini macroeconomici per sopravvivere, anche se ovviamente ciò non basta. Questo non sarebbe possibile se il capitalismo non fosse già giunto nella sua fase imperialista e fosse ancora vicino all’immagine mitica di una «concorrenza leale» e diffusa.

«Quando le esportazioni crollano, come successe negli anni ’30 con la depressione, crolla corrispondentemente anche il valore della moneta nazionale, con la conseguenza di un’automatica diminuzione delle importazioni. Inizia allora la lotta per pareggiare la bilancia dei pagamenti, che impone un massiccio intervento governativo; questo porta inesorabilmente ad una politica economica inflazionistica, e a volte gli interessi locali si scontrano con quelli della classe dirigente del paese guida.» (pag. 158)

In questo scontro di interessi locali e sovra locali si può leggere il motivo principale del nazionalismo  esacerbato del fascismo, mentre il massiccio intervento dall’alto, tipo «New Deal», non è molto diverso dallo spirito che ha caratterizzato, ad esempio, l’intervento statale in favore delle banche, che nell’attuale crisi economico-finanziaria ha determinato il passaggio della politica internazionale dall’iperliberismo reazionario degli ultimi anni, allo «statalismo» ultrareazionario degli ultimi mesi. Il New Deal non fu una concessione al popolo, ma un’infusione di liquidità di cui il capitalismo aveva bisogno per sopravvivere. Nei momenti di crisi acuta, come l’attuale, lo stato nazionale borghese viene utilizzato come un enorme «ammortizzatore economico» a garanzia degli interessi dei banchieri che hanno speculano fino al giorno prima sui bisogni primari della popolazione lavoratrice cui non basta più una vita per sdebitarsi dai loro padroni. La democrazia parlamentare permette al capitale monopolistico oggi tutto questo perfettamente.

Mentre nel fascismo al potere ma non saldamente lo Stato è esso intero un’agenzia terroristica contro la popolazione e in particolar modo contro il proletariato, nel potere borghese post-fascista l’agenzia terroristica continua la sua funzione essenziale ma in modo occulto. Nel fascismo lo stato appare effettivamente per quello che è, in seguito invece ogni aspetto specifico della gestione statale assume un’apparenza in contraddizione con la propria essenza. Jackson sostiene che la democrazia parlamentare americana è l’esempio più perfezionato di sistema di dominio sociale di classe. Egli infatti è del parere che ciò che in altri esempi storici viene fornito in eredità al potere appunto come lascito storico, in America viene fabbricato e centralizzato appositamente nell’Istituzione statale. Se in Italia ad esempio il cosiddetto «antistato» (nome fantasioso per una succursale statale) rappresentato dalle agenzie terroristiche della criminalità organizzata è una formazione stratificata storicamente che offre quasi gratuitamente il suo servizio al capitale (data la convergenza di interessi), negli usa è lo stato stesso a doversi dotare di agenzie con le stesse funzioni. Per Jackson tali agenzie sono la cia e l’fbi, organizzazioni cioè governative, con propaggini extranazionali che hanno il compito di agire occultamente contro qualsiasi forma di opposizione reale al potere dominante. Se la mafia ha svolto storicamente la funzione di contrastare mediante l’eliminazione fisica, esponenti dell’opposizione di classe in Italia, quando le condizioni storiche non permettevano metodi diversi (prima e dopo il ventennio ad esempio), negli usa tale funzione è affidata appunto a delle organizzazioni poliziesche alle dirette dipendenze del governo. In questi termini la gestione centralizzata della repressione fisica negli Usa risulta essere un’elaborazione ulteriormente perfezionata di quanto portato alla ribalta dagli esempi storici delle organizzazioni criminali italiane e del fascismo. Tanto le mafie quanto il fascismo sono esempi imperfetti rispetto al sistema americano (da molti ritenuto addirittura il più democratico del mondo). È anche logico comprendere come dal punto di vista della funzione della repressione di classe, fascismo e mafie siano tra loro in concorrenza, mentre negli Usa tali «difetti» e confusioni siano assenti.

«La classe dirigente usa è composta da un milione di uomini, dalle loro famiglie - […] - dai loro protetti e dai loro uomini di fiducia. Usano le università della Ivy League e gli istituti di giurisprudenza super-riservati sia come scuole private per i loro rampolli sia come centri di addestramento per i mercenari del corporativismo. Il loro dominio è preciso, ferreo, e passa attraverso l’esercito, la cia, l’fbi, le fondazioni private e gli istituti finanziari.» (pag. 168)

«Ma il capitalismo si riformò, senza chiedere scusa a nessuno e proseguì per la sua strada, costruendosi una struttura centralizzata nazionale ed internazionale che non ha paragoni in nessuna delle gerarchie presenti o passate» (pag. 169)

Per Jackson dunque «fascismo» non è più il nome da dare al regime mussoliniano, ma il nome dell’intero sistema di potere contemporaneo, caratterizzato da un capitale monopolistico centralizzato che basa il suo potere su agenzie di controllo occulte dietro un apparato dall’apparenza democratica.

«Chi scrive è convinto non solo che il fascismo negli usa esiste, me che è la soluzione più logica e più avanzata a cui è giunto un capitalismo già consunto e morente, rinascendo come un’araba fenice dalle sue stesse ceneri».

«Il capitalismo di tipo usa nasconde la sua natura socio-politica essenzialmente totalitaria dietro l’illusione di una società a partecipazione popolare.» (pag. 140 e 141)

 (torna su)

3. La prima repubblica

Tornando in Italia possiamo vedere attraverso un esempio illustre la descrizione letteraria ed efficacissima della fase del fascismo jacksoniano «saldamente al potere». È infatti Pasolini, che in «Petrolio» ci offre la rappresentazione della trasformazione avvenuta nella gestione del potere con il passaggio dal periodo precedente la II guerra mondiale al periodo «repubblicano». Egli, descrivendo la formazione e la personalità del protagonista, individua nel modo seguente l’essenza «spirituale» della classe destinata al potere nell’Italia repubblicana:

«Appunto 6 Continua la follia prefatoria: Carlo secondo»

«Carlo è nato a Torino [...]. Ha frequentato le scuole elementari e medie a Ravenna; ha studiato poi ingegneria all'università di Bologna dove nel 1956 si è laureato. A scuola è sempre stato bravo, uno dei primi della classe: ma era bravo in tutte le materie, e quindi nella sua intelligenza c'era evidentemente qualcosa di meccanico, che funzionava bene. […] Appena laureato, egli si era guardato intorno (perché fino a quel momento il suo mondo era stato unico) e si era subito confermato nella bontà delle sue idee: ossia del suo cattolicesimo 'esistenziale', del suo illuminismo, della sua tristezza un po' ansiosa di moderato, del suo sostanziale pragmatismo che accettava l'integrazione (allora non si chiamava ancora così) per poter realizzarsi e ottenere risultati che andassero oltre gli interessi della classe in cui si integrava, componendosi in quell'unità che è il bene dell'uomo.

Si interessò subito di ricerche petrolifere; ma questo non significa che egli optasse decisamente per il fare, oppure che l'unico suo pensiero fosse la carriera. (Tanto è vero che egli non si è sposato, e tutt'ora è scapolo). Continuò a vivere il proprio lavoro all'eni, anche come riflessione intellettuale. Bologna era una città comunista, o genericamente di sinistra, tendeva a essere egemonica, e d'altronde non aveva reali alternative. Carlo aveva anche amici che frequentavano lettere o scienze politiche; aveva vissuto la civiltà dell'impegno a cui aveva aderito come i giovani aderiscono alle cose del presente, al codice. Alcuni dei suoi amici furono tra i fondatori della rivista «Il Mulino», ed egli continuò a frequentarli: anzi, la sua cultura non specializzata, si formò lì. Conobbe subito la nuova sociologia americana, e le nuove forme di cattolicesimo sociale; conobbe subito i primi testi dei comunisti dissenzienti. Quando arrivarono gli Anni Sessanta, egli era pronto a viverli. Era anzi quello il suo momento. Fu quello il momento in cui divenne un cattolico di sinistra: e questo gli consentì da una parte di differenziarsi o distinguersi dal potere, e, nel tempo stesso, attraverso il suo lavoro specifico e specialistico in quella punta tecnicamente avanzata che era l'eni anche dopo la morte di Mattei, di inserirsi quasi con spavalderia (mai ostentata) nello 'spazio' dove si trova il potere reale.

[…] Nel momento stesso in cui Carlo si staccava dall'Italia, riconoscendone le caratteristiche come antiche e poetiche, egli si specializzava in quella particolare scienza italianistica che è la partecipazione al potere. Egli era perfettamente libero di desiderare il potere: sia pure un potere non detto, non nominato, definito solo empiricamente; sia pure senza vanità, e quasi quasi, verrebbe voglia di dire, senza ambizione e con ascetismo. Si trattava certo di una libertà meravigliosa, che sterilizzava la colpa, rendeva inefficiente il male: una libertà come nata da se stessa, e dotata di tale forza reale da consentire di rendere immune dalla curiosità della coscienza tutta una parte dell'universo storico.»[9]

Carlo non è un borghese di destra, egli è un progressista, oggi diremmo un «riformista», un elemento cioè adatto alla mediazione necessaria con i rappresentanti politici della Resistenza italiana. La «sterilizzazione della colpa» gli permetteva di fare coscientemente quello che si doveva fare.

Nella visione di Pasolini il potere repubblicano italiano ha comunque una doppia anima, se Carlo è il modello pubblico, Troya è quello oscuro.

«Appunto 22 Il cosiddetto impero dei troya: lui, Troya

[…] . Questo è tutto ciò che si sa della prima parte della sua vita: una nebulosa e piatta leggenda, che Troya non si era curato mai, in alcun modo, di chiarire […]. Non amava assolutamente nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile 'fonte' d'informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire. […]»[10]

È interessante notare come sia nel primo che nel secondo passaggio, Pasolini descriva il carattere anonimo, privo di ostentazione del potere reale, molto diverso in questo dal potere urlato ed arrogante tanto nella forma quanto nella sostanza del periodo fascista. Se Carlo è il potere ufficiale esso ha comunque dietro di sé una qualche organizzazione occulta che può arrivare dove lui non può. Il potere occulto italiano cerca di darsi una struttura centralizzata sulla scia dell’esempio americano. La p2 è figlia di questa fase della repubblica italiana. Ora nel pieno del potere dissimulato chi comanda veramente ricerca la garanzia della riservatezza, valore da custodire a costo della sistematica sparizione pilotata di ogni riferimento possibile al potere. Il dominio reale è «immorale» per questo la storia della repubblica italiana è letteralmente costellata di vuoti di coscienza collettiva, di misteri politici irrisolti, assorbiti lentamente dal tempo e rimossi dalla memoria nazionale. C’è una classe, la borghesia, che si sente destinata al potere e che lo assume quasi come fosse una missione, nella coscienza che il potere di classe è socialmente ingiusto ma necessario per il «bene generale». Questo è ciò che Carlo ripete a se stesso. L’incoscienza dell’abuso, negli anni seguenti la Resistenza era impossibile per chiunque fosse dotato di senno, per questo la morale cattolica fungeva da sterilizzatrice della colpa, fornendo l’alibi sociale alla borghesia affinché occupasse la posizione di dominio sociale, dopo il disastro bellico che essa stessa aveva, in definitiva, procurato. La Resistenza era portatrice di una visione, socializzata durante gli anni di lotta, che, all’opposto, assegnava al proletariato il ruolo di direzione della società che doveva risorgere dalla guerra. Espropriare il proletariato di questo «diritto storico» era possibile perciò solo in forma dolce, e sostanzialmente dissimulata, pena il fallimento dell’operazione.

«Appunto 82 Terzo momento basilare del poema

Attraversato il giardino della visione, Carlo entra nel suo appartamento vuoto ed abbandonato. […].

Si riveste e telefona a una clinica poco lontana da casa sua, verso il piazzale delle Muse: prende i dovuti accordi per farsi ricoverare la sera stessa. Non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento del primario: un qualsiasi dottore alle prime armi avrebbe potuto bastare: infatti l’operazione a cui Carlo ha deciso di sottoporsi è tra le più antiche e semplici: la castrazione. La libertà vale bene un paio di palle:

La mia vita è soave

oggi, senza perché;

levata s’è da me

non so qual cosa grave…»[11]

La democrazia parlamentare, come operazione chirurgica di amputazione della «virilità» fascista, fardello divenuto inutile, era lo strumento perfetto in mano alla borghesia ormai più che matura (senile) per offrire al popolo l’illusione della partecipazione democratica ad una realtà completamente pilotata da poteri (senza ulteriori attributi) occulti e realmente determinanti, esattamente come sostiene Jackson. Il potere nella sua veste democristiana ed ufficiale appare modesto, votato al sacrificio, discreto, moderato e tollerante, non più «un» potere «fascista» ma  «il» potere definitivo (saldamente al potere), sopra le classi e sopra il tempo. La paura della Resistenza, del suo significato e della minaccia latente che la sua base sociale continuava a rappresentare anche a guerra finita, rendeva la borghesia italiana opportunamente circospetta e la portava a ridefinire completamente il proprio sistema di gestione dello Stato. Il ritardo storico della forma pienamente repubblicana offriva tra l’altro la possibilità di introdurre la «democrazia parlamentare» come una grossa novità a riprova del progressismo e della giustizia del sistema politico succeduto al fascismo. In tale rinnovamento potevano, anzi dovevano, avere un ruolo anche le forze politiche che avrebbero dovuto rappresentare l’opposizione al capitalismo. Con la democrazia parlamentare la borghesia lungi dal concedere democrazia alle masse riaffermava prepotentemente il proprio dominio di classe dopo la parentesi fascista (andata fuori controllo), riprendendo in mano direttamente le leve dello stato ed in più riusciva a fare questo sostanzialmente cooptando in questa enorme mistificazione post-fascista l’opposizione di classe attraverso le sue rappresentanze politiche e sindacali. Il capitalismo passa dalla reazione infantile scatenata dalla paura del socialismo incombente, alla fase matura (politicamente), in cui forte del diretto coinvolgimento degli apparati del proletariato, raffina in modo ossessivo il dispositivo consensuale rispetto a quello coercitivo, riuscendo sostanzialmente a sublimare l’ingiustizia sociale e a dissimulare la repressione, grazie soprattutto al ruolo giocato dalla sinistra post-rivoluzionaria (epigona della Resistenza). È nella «pace sociale» (relativamente alla guerra) della fase repubblicana, che l’opposizione al sistema politico-economico borghese viene annullata nel confine della pura rappresentazione parlamentare e strappata dal piano della realtà concreta. L’opposizione politico-sociale al capitalismo incomincia a non credere e a rinunciare alla possibilità di una ricostruzione diversa dell’Italia post-fascista proprio nel periodo in cui acquista visibilità e dignità istituzionale. Quello che ad essa sembra, magari anche in buona fede, un’importante conquista è a tutti gli effetti il preludio della sconfitta definitiva. Con la propria «istituzionalizzazione» l’opposizione politica passa dal piano dell’alternativa strategica al sistema dominante a quello dell’amministrazione del conflitto nel sistema dominante per suo conto. Essa ha accettato il confronto con il nemico sul terreno a questi più proprio, vi ha trovato casa e vi si è adagiata. La borghesia ha ottenuto la sua sopravvivenza e la sua legittimazione post-fascista semplicemente offrendo vitto e alloggio alla rappresentanza politica del suo nemico di classe in cambio del riconoscimento della (falsa) estraneità all’orrore fascista.

Ma chi sono ora invece i veri fascisti? Pasolini è molto chiaro nel seguente passaggio:

«Appunto 126 Manifestazione fascista (seguito)

Si trattava di una manifestazione fascista. I cartelli inneggiavano a grossi caratteri e con slogans che imitavano quelli della Nuova Sinistra, a Almirante e a Birindelli. […]. Carlo da sotto un porticato alto, insieme a un gruppetto di persone (comuni cittadini che disapprovavano), stette ad osservare quei manifestanti […]. L’occasione era favorevole alla contemplazione. La casualità poneva Carlo al di fuori della mischia. Egli poteva guardare quella gente come se fosse estranea; o come se egli stesso fosse uno straniero.

[…] C’erano fra i manifestanti uomini di mezza età (e anche qualche giovane) in camicia nera; qualcuno faceva (verso i fotografi) un provocatorio saluto fascista; si vedevano sventolare anche dei ‘gagliardetti’.

Ma ciò non impedì a Carlo di trarre con la massima lucidità le sue conclusioni ‘ispirate’, che furono pressappoco le seguenti.

No. Questi non sono più i fascisti. Tra loro ci sono dei ‘ritardati’, che sono i fascisti classici, ma non contano più (o contano come contano le sopravvivenze in un contesto storico). La delusione è atroce. La fine del fascismo segna la fine di un’epoca e di un universo. È finito il mondo contadino e popolare. Era dalle parti più miserabili di questo che il fascismo raccoglieva le sue bande di sicari innocenti e virili. Sono anche finiti i ceti medi la cui cultura borghese era ancora fondata su una cultura popolare (simile a quella dei sicari): contadina, pastorale, marinara, povera. Differenziata (da regione a regione, da città a città, da centro a periferia). Eccentrica, particolaristica. Quindi reale. Il nuovo potere (di cui Carlo faceva parte direttamente) si era appoggiato nel dopoguerra a queste forme culturali reali, ma elettoralmente sanfediste. Aveva fatto cioè la stessa cosa che aveva fatto il fascismo. 

[…] Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti.

[…] Ora non erano che dei penosi fantasmi, il cui diritto a girare per la città derivava probabilmente solo da una decisione della cia. I veri fascisti erano in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo, non quei piangenti bambini stupidi che non conoscevano l’origine del loro dolore. […]»[12]

  (torna su)

4. La fine della Resistenza

L’ingresso delle forze proletarie organizzate in partiti e sindacati, rispettivamente nel parlamento borghese e nell’amministrazione quotidiana dell’ordine industriale, non prima ma dopo una fase oggettivamente rivoluzionaria, quindi in funzione conservativa, ha permesso l’instaurazione di un nuovo equilibrio politico (post-fascista), talmente efficace e duraturo che persino un movimento rivoluzionario di massa e internazionale come quello del ’68 ha potuto essere assorbito, sostanzialmente senza colpo ferire, dall’equilibrio generale. È spiacevole, di fronte alle evocazioni del ’68, scoprire fra i suoi animatori ufficiali la persuasione diffusa di aver «cambiato il mondo». Questi rivoluzionari di successo ben accomodati ancora oggi, ricordando i loro vent’anni, vanno incredibilmente fieri di una sconfitta di dimensioni epocali propensi come sono a scambiare una modifica nei costumi di una società (per altro già innescata dal boom economico) per il «mutamento del mondo» e una fase irripetibile delle loro esistenze individuali (i bei vent’anni) per l’epopea di un’intera società. Essi hanno solo tolto il tappo ad una liberalizzazione dei costumi che era già intrinseca nell’avanzamento del benessere post-bellico capitalista. I progressi reali che si sono ottenuti, come lo statuto dei lavoratori, la legge sull’aborto, il divorzio, restano comunque una conquista diretta delle masse in movimento e un sottoprodotto di una rivoluzione mancata. Ma la cosa notevole è che tale assenza di fronte alla Storia si è prodotta alla presenza di un partito comunista fortissimo in termini di consenso sociale e non a caso. In questo sistema di dominio la forza politica delle classi sfruttate serve ad essere deboli. Il ’68, anche se fatto dai giovani, era figlio della Resistenza, il prodotto di una società ancora in grado di percepire le disparità nonostante l’avanzare di un benessere monco e consumista, e di concepire un’idea alternativa dell’esistenza. Con il ’68 il sistema borghese di gestione del potere riapplicava con successo, a vent’anni di distanza, ciò che aveva già fatto con la Resistenza, assestandole il colpo di grazia, vale a dire che cooptava nelle proprie istituzioni, la critica che la società sviluppava autonomamente contro le stesse, in una forma puramente rappresentativa. Nella democrazia borghese la rappresentazione della realtà si sostituisce ad essa. Lo stato concedeva momentaneamente, sotto una spinta sociale viva, delle riforme progressiste, in un’ottica di futuro lento e graduale riassorbimento di quanto permesso al momento. Per questo le forme di istituzionalizzazione concesse dal sistema sono, in un modo o nell’altro, la morte della critica sociale, una mistificazione totale della democrazia, esse sotto la veste di una vittoria presente celano una sconfitta futura. Chi accetta il gioco nel sistema alle regole del sistema, abdica alla propria funzione sociale. Come dice invece Jackson; «Lo stato corporativo non permette nessuna opposizione che sia autenticamente libera.», o ancora: «La rivoluzione è contro la legge. Non sarà permessa, non in forme valide.», non certo negli stessi ambiti legali. Che assurdità è mai pensare di rivoltare un sistema legalmente? Ma non è proprio nella convinzione di una simile possibilità che le organizzazioni politiche di sinistra hanno mantenuto le proprie masse di riferimento per 50 anni?

La democrazia parlamentare borghese è riassumibile in un rumore costante attorno alle questioni secondarie, ed un silenzio assordante sui fatti essenziali, essa è un mastodontico diversivo e questo nella sua fase più dignitosa. Può produrre leggi e costumi più o meno giusti, più o meno accettabili, ma nell’assunto strutturale dell’ingiustizia di fondo di una società divisa in classi e basata sul dominio della proprietà privata concentrata, cioè di chi possiede di più. La sinistra riformista si accontenta di partecipare al rumore costante, e cosa peggiore, ne è sempre più consapevole. Tale rumore sarebbe impossibile senza la presenza di una parte che fa chiasso.

 (torna su)

5. Il vuoto politico dell’89

Questa situazione mistificatoria, nel suo assetto postbellico ha mantenuto intatta la sua efficacia almeno fino all’89. La rappresentazione istituzionalizzata di un conflitto di classe richiedeva, per apparire realistica, il mantenimento di due ideologie contrapposte, che si autoalimentavano vicendevolmente in un ordine che però continuava ad essere capitalista a dispetto della potenza elettorale delle forze politiche di sinistra, per le quali il momento non sarebbe mai stato maturo per una transizione al socialismo, neanche, s’intende, poniamo con il 60% dei voti nazionali, come si può evincere dallo spirito che informava la politica dei dirigenti comunisti negli anni immediatamente posteriori alla guerra, ben sintetizzato nel seguente passaggio del diario di Davide Lajolo, direttore dell’Unità prima a Torino poi a Milano: «La vita del pci in questo periodo di guerra fredda è durissima. Possediamo tanta forza popolare per travolgere chi mal governa, ma usarla vuol dire precipitare il paese nel disastro e nel caos e la parte più crudele la sopporterebbero i lavoratori. Poiché siamo un partito di lavoratori il primo nostro compito è impedire a loro una vita più grama. Non è facile farlo capire ai braccianti e agli operai che devono sopportare soprusi e angherie dai padroni e dai governanti».[13]

Il rispetto del gioco delle parti consentiva ad entrambi gli schieramenti ideologici la loro stessa legittimazione infinita. Qualsiasi cosa accadesse era sempre possibile sostenere che «così» era meglio che in «un altro modo». Qui il dominio completo della borghesia era già un fatto, infatti: «Nella Repubblica nata dalla Resistenza è stato liberato dal carcere il torturatore Valerio Borghese. Nello stesso tempo hanno incarcerato il partigiano Dante Gorreri uno degli antifascisti più noti e stimati e stimati di Parma».[14]

Con l’89, il crollo del regime stalinista, crea un problema oggettivo agli equilibri di potere costituiti. Uno dei due termini della rappresentazione istituzionale italiana viene meno, per motivi esogeni. La natura della nostrana sinistra istituzionalizzata era talmente indipendente dalla propria iniziativa politica che essa non era neanche capace di scomparire per mano propria. Paradossalmente questo venir meno dell’equilibrio mette in crisi proprio la borghesia e la sua rappresentanza politica, a dimostrazione, una volta di più, di quanto le fosse essenziale, per la propria sopravvivenza politica, il ruolo di un avversario istituzionalizzabile.

Con la caduta di questo equilibrio quarantennale la borghesia italiana ha dovuto rimodulare completamente gli schemi formali su cui aveva assettato il proprio sistema, super oliato, di gestione unilaterale della società. Essa è stata costretta a ridisegnare la facciata del proprio castello mistificatorio. La sua raffinata capacità manipolatoria, di carattere orwelliano, le ha permesso di conferire un aspetto moralmente accettabile al processo di riassetto politico che ha intrapreso dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, mettendo da parte un’intera casta politica definita corrotta e ri-battezzando col nome di «seconda repubblica» il medesimo controllo unilaterale della vita pubblica nazionale, riuscendo a vestire lo stesso corpo corrotto con un abito nuovo, moralmente vergine, sull’onda della pulizia mediatica del processo «mani pulite». Il passaggio, in Italia, dalla prima repubblica basata sul conflitto ideologico apparente, alla seconda apparentemente post-ideologica, ha significato la sostituzione di una casta politica con un’altra e il ritocco in termini peggiorativi delle proprie istituzioni (passaggio al maggioritario, controriforma della Costituzione e del mercato del lavoro, eliminazione della scala mobile, svendita su larga scala della struttura patrimoniale dello stato), ma nella convinzione diffusa, e qui è il bello, che i corrotti attuali siano «dei nuovi moralizzatori» e che la corruzione della prima repubblica fosse il risultato di una democrazia troppo larga e perciò difettosa.

 (torna su)

6. L’inaugurazione della seconda repubblica

La deposizione, in Italia, di un’intera generazione politica e delle sue tradizioni consolidate ha aperto una frattura fra quella parte di politica legata ai vecchi schemi ideologici (la destra classica e quella di chiara estrazione democristiana e la «sinistra» riformista) e quella parte «a-ideologica», non inquadrabile immediatamente negli schemi consueti, che approfittando del vuoto politico creatosi lo ha riempito prontamente, esattamente come il bonapartismo riesce a guadagnare terreno approfittando delle crisi di potere che ciclicamente si verificano nel sistema politico e sociale. Tutto questo non era previsto. A questo nuovo settore della borghesia (figlio bastardo della stessa) lo schema di due ideologie chiaramente contrapposte, per quanto solo rappresentato, sta troppo stretto, perché richiede comunque tempo e perizia e, cosa non secondaria, una base economica in grado di sostenere tempi lunghi per una visione meno compressa nel tempo. Questa neo-borghesia (divenuta tale nel frattempo), vuole tutto e subito, è arrogante e rozza, non ha più nulla a che spartire con i dirigenti sul tipo di Carlo di «Petrolio», non vuole più la mediazione con la società di massa, anche perché non ha di fronte nessuna Resistenza, sepolta da sessanta anni di grigia polvere parlamentare, e alle spalle nessun stabile nemico dichiarato a legittimarla. I nemici di ieri (interni ed esteri) possono essere gli amici di oggi e viceversa domani (esattamente come succedeva alle tre superpotenze di «1984» di George Orwell). Questa situazione richiede flessibilità ideologica, vale a dire «a-ideologismo». Oggi Berlusconi è grande amico di Putin, il capo del kgb (e Chavez può essere amico di Ahmadinejad). Questa borghesia a-ideologica è quella più reazionaria, quella che non crede a se stessa, neanche lontanamente, come ad una classe che ha una «missione» per «il bene generale», ma solamente come settore di classe che assume come missione il «proprio bene» e si sente forte come mai in questo, non completamente a torto. A questa borghesia arricchita non interessa neanche ritinteggiare dignitosamente le pareti dell’edificio statale che ha occupato, i suoi doppiopetti gessati sono infatti pieni di polvere e calcinacci. Lo stato è nella sua parte materiale e pubblica, cioè quella patrimoniale, un problema ingombrante e costoso, che non vale la pena di tenere in piedi. L’atteggiamento verso questa parte dello stato è quello che si ha verso tutte le  sezioni dell’economia che richiedono dedizione e organizzazione delle risorse perché continuino a svolgere le proprie funzioni sociali. Esse non sono remunerative con lo stesso grado di comodità delle operazioni di pura finanza (speculative) e per esse vale la soluzione universale del capitalismo improduttivo: fare a pezzi e vendere.

In questo atteggiamento verso l’economia «produttiva», il potere odierno è diametralmente diverso dal regime classico, cosa che lo rende strutturalmente incapace di realizzare una qualunque utilità sociale. Esso ha realizzato compiutamente la propria essenza parassitaria, vive in una seconda repubblica sfasciando ciò che la sua stessa classe di provenienza ha realizzato nella prima (sfascismo).

Il suo a-ideologismo sbandierato non significa affatto che le azioni di queste forze politiche non siano riconducibili sempre e comunque all’ideologia borghese, ma solo che il rispetto formale dei postulati ideologici assume, nella propaganda, un aspetto totalmente secondario rispetto alle necessità del momento particolare e rispetto ad altri metodi di fabbricazione del consenso politico. Un’esemplificazione emblematica di questa secondarietà dell’ideologia è riscontrabile anche fuori dall’Italia, ad esempio, nel governo tedesco fondato sulla «grande coalizione» fra forze storicamente avverse. Il partito storico della borghesia ha governato assieme al partito storico dei lavoratori, negli interessi del capitale. Dopo una simile e definitiva deposizione dell’ideologia propagandistica consolidata, quale speranza possono più nutrire i lavoratori nel sistema democratico attuale? Nessuno chiede loro più neanche di credere che questa politica possa servirgli a qualsiasi cosa. Ma questo fatto colossale, cioè la negazione dell’esistenza stessa di un conflitto di classe, non sembra aver scosso nessuno. Esso appare normalizzato.

Questa trasformazione del costume politico viene da qualcuno stigmatizzata come «post-democratica». Si tratta in tutta evidenza di un post-qualcosa, ma definire post-democratica la fase attuale, implica la convinzione che quella precedente fosse effettivamente democratica, mentre era comunque solo un simulacro di democraticità. Nell’assetto unipolare degli equilibri internazionali il sistema di gestione del potere supera la necessità della rappresentazione formale di una composizione delle istanze sociali assumendo, in sostanza, l’assetto di quello che per molto tempo è stato visto come «regime» dalle società basate su repubbliche parlamentari borghesi. Anche se formalmente in Italia esistono ancora più partiti, qualsiasi partito momentaneamente al potere gestirebbe lo stato nei medesimi interessi di classe. L’alternanza possibile lo è solo nell’ambito dei gruppi di potere, non nell’ambito reale delle classi che formano la società. Questa situazione non è, in termini di controllo sociale, molto distante dal partito unico, o dal partito/stato. Ma il carattere mistificatorio del sistema consente un’apparenza poli-partitica in un’epoca mono-ideologica mentre chiama tutto questo «bi-polarismo». Nella prima repubblica il partito comunista doveva partecipare alla dialettica parlamentare, ma comunque non arrivare mai alla maggioranza, perché la spinta sociale progressista che uno scenario del genere avrebbe potuto causare poteva costituire una minaccia reale per la borghesia, visto il non completo assopimento dei valori della Resistenza. La base sociale della sinistra nella prima repubblica credeva ancora all’obiettivo massimo, poteva essere divisa, in buona fede, sulle modalità per ottenerlo, ma non sulla sua necessità storica. Oggi la «sinistra» parlamentare, può invece andare al governo senza che questo significhi un bel niente da un punto di vista delle ricadute economico-sociali e culturali concrete. I politici da salotto, non fanno parte di «partiti» (questo termine implica uno schieramento di classe, almeno formale), ma di diversi clubs borghesi.

In questa ristrutturazione delle dinamiche del potere formale, si è venuto affermando un modo nuovo (relativamente agli ultimi decenni) di guadagnare consenso nella società italiana. Oggi la politica urla, non dibatte, e le urla riescono efficacemente a coprire l’assoluta mancanza di logica delle affermazioni che vengono lanciate nei salotti televisivi. Oggi esibire il proprio ottundimento mentale e andarne fieri è divenuto un elemento di forza e di simpatia, fa un effetto di sincerità che veicola una pronta immedesimazione. Il popolo è, non a torto, diffidente dei mulini di belle parole, pertanto comincia a simpatizzare con le brutte espressioni. Di fronte a tale spettacolo triviale, la ragione degli argomenti resta ammutolita e perde il potere di influenzare l’opinione pubblica. La messa in ridicolo di questi atteggiamenti da bar del quartiere è addirittura controproducente. La superstite critica televisiva della sub-politica attuale diventa semplicemente un marketing in funzione della stessa. Probabilmente le sarà concesso di continuare ad informare.

L’inaugurazione di questo «nuovo periodo» è stata esemplare. La violenza storica del sistema di potere italiano ha preso a manifestarsi in modo spettacolare. La spettacolarizzazione in epoca democristiana non era ammessa, la violenza doveva essere discreta, invisibile, efficace, gli attentati sistematicamente depistati. Con l’uccisione di Falcone e Borsellino, l’attentato è divenuto pubblico, esibito, non più nascosto e silenzioso, un’intera epoca è stata archiviata. Dopo l’89 le forze occulte, come la criminalità organizzata si manifestano apertamente, vogliono il loro spazio politico, reclamano la loro esistenza ed una posizione stabile nella ristrutturazione in corso del potere. Nella seconda repubblica non si gioca più dietro le quinte. Le mafie sono ancora un’agenzia terroristica dello stato ma non più solo questo, esse, dopo aver avuto sempre più spazio che in altri paesi in uno stato borghese tradizionalmente debole ed arretrato, possono finalmente competere con gli altri settori del capitale sullo stesso piano economico ed istituzionale. La quiete della loro violenza costa la loro cooptazione nel sistema politico ufficiale. Gli attentati pubblici non sono sopiti perché la mafia è stata sconfitta. La struttura organizzativa delle mafie non è più il passato ma il futuro del sistema di potere italiano. Un nuovo modello si erge a riferimento nella democrazia della seconda repubblica, Saviano lo ha descritto molto bene. Il potere di oggi viene dalla provincia.

Da un punto di vista esclusivamente formale, la seconda repubblica rappresenta dunque un evidentissimo assestamento delle «regole» e dei costumi collettivi che ne derivano, su un terreno più arretrato della convivenza sociale. La violenza ritrova spazio mediatico nella società, il parlamento riflette questa imbarbarimento e lo rigetta nella società dopo averlo masticato per bene. In questo contesto nascono e si rafforzano partiti apertamente impresentabili, solo qualche anno prima, come la Lega Nord e Forza Italia, ai quali non è opposta nessuna resistenza istituzionale, in quanto non esiste più nessuna Resistenza socio-culturale organizzata. In questo contesto la massa è ideologicamente informe e gli unici moralizzatori di vecchio stampo, con qualche seguito, restano per ora il Papa e il Presidente della Repubblica, in futuro probabilmente solo il Papa.

L’amorfismo ideologico della gran parte della società è visibile in tante piccole cose, anche insignificanti. Oggi posso andare al cinema e vedere una pellicola sul Che e una settimana dopo una pellicola sugli amori del manganello educatore d’Italia, limitando i miei commenti sul modo in cui le due pellicole sono fatte, senza percepire stridore alcuno fra le due storie che mi vengono proposte sullo stesso identico piano, in un estetismo che annulla la storia, i fatti e la memoria. Tutto è equivalente. Posso, ad esempio, ridere alle battute di Benigni, o apprezzare il teatro di Dario Fo, e votare normalmente a destra, dopo aver magari anche alzato qualche pugno sull’onda delle note travolgenti dei Modena City Ramblers senza rendermi conto di una certa dissonanza nelle mie azioni, anzi considerando un’inutile restrizione la coerenza intellettuale rispetto al più sfrenato eclettismo inconcludente. Tutto oggi risulta scollegato. Ad una cultura nozionistica e specialistica di livello universitario corrisponde una coscienza sociale di livello sub-elementare. Eraclito diceva che sapere tante cose non insegna ad avere più intelligenza. Il dottorando precario più che considerare il suo stipendio da fame come un tratto che lo accomuna al precario del call center o all’operaio in cassa integrazione, tende a pensare a se stesso, e non completamente a torto, come ad una parte fondamentale dell’istituzione universitaria. L’operaio che fa dei turni assurdi può essere condotto ad immedesimarsi con le ragioni dei suoi padroni. Da qui a considerare «normale» che un datore di lavoro qualsiasi debba condizionare anche il voto dei propri dipendenti, come accade sempre più spesso, il passo è breve. In passato sarebbe stato il semplice amor proprio a rendere inaccettabile una simile ingerenza esterna alla propria coscienza. Questi piccoli padroncini odierni esercitano attraverso l’umiliazione gratuita la loro posizione sociale. Mentre l’eclettismo sociale di chi subisce tali comportamenti, completamente avulso dalla propria condizione materiale concreta, facendo apparire le cose per come non sono, rende enormemente più semplice il lavoro di chi dirige le istituzioni, in nome di questo vecchio ordine negriero, mentre le svuota di significato con la propria presenza. Tutto ciò cambia anche completamente i termini della questione su cosa sia da intendersi oggi per «regime». Se classicamente la repressione aperta della critica sociale si rende necessaria anche in forme dure ed evidenti è perché esiste un livello minimo di organizzazione della critica o un momento di pericolo reale per il potere. Se questi termini dell’equilibrio vengono annullati da una serie di fattori socialmente condizionanti la repressione diventa automatica ed implicita nel condizionamento stesso che la rende superflua. Siccome non lavoro in un campo di concentramento non significa che sia io a scegliere il lavoro che faccio. Il campo di concentramento non esiste più come luogo separato, se non nei confronti degli stranieri, dato che la società è essa intera un enorme campo di lavoro volontario. Ognuno lavora più di quanto dovrebbe, per meno di quanto gli sarebbe dovuto, a scapito di chi non lavora per niente e del suo proprio tempo di vita, spesso per aziende senza nessuna utilità sociale e fa tutto questo credendo che sia normale così, che questa sia la vita. Tanto sudore per nulla. Se il potere costituito della classe dominante riesce a creare consenso sociale attorno a qualsiasi idea sbagliata essa diventa «giusta» e perseguita efficacemente senza colpo ferire. Nessuno è più in grado di opporre collettivamente un’idea diversa di giustizia a quella fabbricata al momento e utile agli interessi del momento (del settore di potere al momento dominante), la confusione è tale da relativizzare tutti i valori che si credevano consolidati. In sostanza il regime democratico parlamentare è riuscito meglio del fascismo a «creare un sistema di organismi che penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato» (L. Trotsky).

Questo sistema di organismi, che rappresentano lo Stato e tutte le sue istituzioni materiali ed immateriali, non agisce più con carattere repressivo a posteriori, ma preventivo, esso non deve più distruggere l’esistenza dell’organizzazione indipendente del proletariato ma «solo» impedirne la formazione, penetrando profondamente nelle masse, non come appendice estranea ma proprio come sistema di convinzioni intime e formative, come condizionamento mentale. Questa idea di Trotsky prevedeva già gli sviluppi post-fascisti. Lo stato borghese moderno lavora sulla psicologia e sul consenso di massa, destinando la coercizione riconoscibile ai soli casi localmente necessari ed estremi.

In termini di massa la coercizione vera e propria, in forma apertamente repressiva, è sempre qualcosa che riguarda «gli altri» (gli stranieri, i prigionieri di guerre lontane, i palestinesi, gli oppositori locali delle discariche ecc..) o situazioni «arretrate», percepite come ontologicamente «sfigate» e riesce ad apparire sempre, in definitiva, e in qualche modalità perversa, come giustificabile. La massa subisce forme di coercizione che sono indirette e subconscie. Un’efficace descrizione di questo sistema è contenuta nel romanzo fantastico «Il nuovo mondo» di Aldous Huxley, in cui la repressione della minima, informe opposizione ai modi di vita ortodossi, viene attuata non mediante la tortura sistematica di «1984» (di Gorge Orwell), ma attraverso la concessione di una liberazione dall’ortodossia, una vacanza in un’isola lontano dal centro del sistema, dove tutti gli individui, che per un motivo qualsiasi non rispondano perfettamente al condizionamento delle coscienze, vengono mandati a vivere in totale libertà. Questo sistema, basato non sulla tortura, ma su concessioni liberali e sulla «democratica marginalizzazione del dissenso» è agli occhi dell’autore, non a torto, considerato più efficace e duraturo di un aperto regime totalitario. Esso è dolce come il sonno. Oggi in una società dove ognuno può dire quello che vuole, per quel poco che questo può contare, vige un’ortodossia del pensiero e dei comportamenti praticamente completa.

Il sonno della coscienza e della ragione è il trionfo dell’irrazionalismo più incredibile, fomentato dall’eclettismo intellettuale dilagante che alimenta una flessibilità ideologica senza precedenti della politica, alla quale nessuno crede più di dover chiedere niente che lo riguardi personalmente. Chi chiede alla politica qualcosa è in politica. La politica è un mestiere come gli altri e se non può essere una fonte di sostentamento non interessa. L’abbandono apparente di un’ideologia conclusa da parte della politica è possibile per i padroni, perché in queste condizioni il sistema, ai loro occhi, non è più in pericolo. Quando un’ideologia è completamente dominante le è consentito il riposo, la dissoluzione. La macchina statale e le sue infinite diramazioni, non difendono più «lo Stato» (il capitale) dal socialismo incipiente (senza perdere tale capacità), ma diventano armi in mano ai diversi settori del capitale in lotta tra loro. Chi governa il paese governa anche contro la propria classe. Lo stato è mero strumento di concorrenza sleale. I diversi settori della borghesia sono costretti a definire piuttosto apertamente i propri schieramenti politici ed hanno perso la possibilità del lusso rappresentato da una politica ufficiale che fa il lavoro per conto loro. La vecchia borghesia, quella che si sente nobile e assennata, deve ora vedersela con la nuova borghesia, quella spregiudicata e senza dio. La politica non appartiene più alla società nel suo complesso e non si preoccupa più neanche di rappresentarla formalmente. La lotta politica istituzionale semplificandosi in termini di classe, (con l’estromissione del mondo del lavoro, che partecipa alle elezioni ma non all’eleggibilità) si complica in intrighi di puro potere, divenendo strumentale e insensata, un meccanismo autoalimentatesi nell’indifferenza crescente della massa. Questo stato di cose non ci permette di ragionare con i termini noti pur non rendendoli obsoleti. Essi si relativizzano a situazioni storicamente determinate.

 (torna su)

7. Il carattere apparentemente «non-violento» della violenza autoritaria

Termini classici come «fascismo», «termidoro» o «bonapartismo» hanno senso in un contesto di antagonismo di classe in fieri. L’attuale dismissione dell’ideologia corrisponde invece all’avvenuta estromissione del mondo del lavoro dalla rappresentazione politica della società. Il conflitto di classe resta alla base della società ma avviene su piani fortemente impari, favorevoli solo alla borghesia, e direttamente economico-materiali tanto che essa può permettersi di dare per scontato il dominio di classe e concentrarsi sulle sue lotte interne alle quali tutto è funzionalizzato. I gruppi di potere che occupano il parlamento sono perciò staccati socialmente dalla società, essi non rappresentano più nessuno all’infuori di se stessi, galleggiando sulle classi sociali. Il parlamento di oggi assomiglia a quello pre-repubblicano: una farsa gestita da un’unica classe. Per costituzione questo potere, per quanto stabilmente di classe, è sempre in bilico fra diversi settori della stessa classe. Chi domina è sempre colui che riesce a sfruttare meglio gli antagonismi del momento mettendo intorno a sé più interessi momentanei, di qualsiasi natura, facendo leva sugli strumenti dello stato che già riesce a controllare. La concentrazione crescente dei mezzi di controllo del consenso, se non è garanzia assoluta di potere è comunque una forte ipoteca sullo stesso, perché diseduca la massa, con il tempo, a mettere insieme i dati della propria esistenza con un minimo di costrutto logico. L’Italia, per le condizioni che si sono venute a creare, rappresenta all’interno degli attuali ordini «democratici» europei una situazione particolare in cui è possibile sperimentare fino a che punto si può spingere l’abuso dell’esercizio unilaterale del potere e lo sprezzo delle regole parlamentari in una società occidentale in cui la decomposizione dell’ideologia e della coscienza sociale della realtà è così elevata. In queste condizioni chi domina ha necessariamente un’attitudine bonapartista, intesa però solo come dotazione di strumenti molto potenti (non propriamente come utilizzo di mezzi direttamente militar-polizieschi) e capacità di sfruttare al meglio i vuoti di potere che gli si presentano. Il concetto stesso di polizia si psicologizza, Orwell parlava di psicopolizia. Questa situazione non presenta analogie storiche se non in campi esterni alla lotta di classe: quello delle contese fra famiglie mafiose o fra le bande armate per il controllo urbano. I riferimenti alla grande rivoluzione francese sono fin troppo nobilitanti. Qui, da un punto di vista di classe, si parla di puri intrichi di corte.

Questa situazione non assumerà, con molta probabilità, un carattere di aperta violenza di classe, perché non ce n’è bisogno, almeno fino a quando un’opposizione non istituzionale non sarà organizzata in qualche modo efficace. Senza tale organizzazione persino crisi economiche di portata crescente possono passare senza lasciare traccia reale nella modifica dei rapporti di produzione capitalistici. La falsificazione delle coscienze è giunta oggi ad un punto tale da aver sbriciolato la relazione logica fra crisi economica e rivoluzione sociale.

Alla democrazia monoclassista attuale non serve il manganello, anche se ce l’ha. E se pure dovrà utilizzarlo qua e là nessuno, al di fuori di chi lo avrà subito, lo avrà visto. Essa possiede tecniche di persuasione prive di effetti collaterali indesiderati e poi può fabbricarsi le leggi che vuole. Il suo autoritarismo deriva dal controllo assolutamente sbilanciato, in termini di classe, delle istituzioni pubbliche, che già possiede e che diventano perciò private. Le lotte di potere assumeranno sempre di più l’interesse sociale che hanno le lotte fra le famiglie mafiose: nessuno. Questo non significa però che ogni settore momentaneamente (o anche più stabilmente) al potere non tenderà ad «anarchizzare» in modo crescente lo stato, per poter trafficare impunemente con le proprie speculazioni. Ottenuto il dominio di classe, bisognerà pur ottenere il pieno beneficio che ne deriva. A che serve tanto potere concentrato se non si può rendere schiavo formale chi non ne ha? Il venir meno di un carattere visibilmente ideologico della violenza, non rende però meno violenta e classista la prospettiva. Questa violenza, verbale, psicologica e localmente repressiva in termini fisici, anche senza un chiaro intento di classe, non sarà concentrata come in passato, ma diffusa su scala crescente. La barbarie del capitalismo in putrefazione non è uno scenario futuro, esso è già presente. Chi aspetta i manganelli contro tutto e tutti in modo indifferenziato e contemporaneo per poter finalmente gridare al fascista potrebbe restare deluso. Il potere che usa il manganello contro un nuovo nemico ha già provveduto ad allearsi con il resto del «buon senso» comune ed è questo buon senso che fa spavento.

Il sistema economico capitalista è un cadavere tenuto in vita dall’accanimento terapeutico di mostruosi artifizi tecnologici e mirabolanti plastiche facciali. Se nessuno gli stacca la spina tuttavia esso continuerà a vegetare. «Un tempo si cospirava contro un ordine costituito. Oggi, cospirare a suo favore è un nuovo mestiere in grande sviluppo. […] Questa cospirazione fa parte del suo stesso funzionamento.»[15]

Gli scenari a venire in queste condizioni non potranno che assumere gli aspetti materialmente sempre più evidenti (anche se saranno prontamente normalizzati) di un’epoca di enorme, ma scintillante, decadenza civile. I ricchi lotteranno tra loro per la spartizione delle rendite, i poveri per la sopravvivenza. Tutti contro tutti è l’avvenire sulla medesima barca che affonda. Il barbaro della «nuova preistoria» si servirà di mezzi tecnologicamente avanzatissimi per esprimere la trivialità della propria lotta per la sopravvivenza.

 (torna su)

8. Forza e debolezza

Ma la perfezione di un sistema di controllo sociale non equivale alla sua forza. Il protrarsi di un dominio di classe basato sulla falsificazione aperta non è affidabile strategicamente (negli Stati Uniti la borghesia sembra averlo capito, dopo l’esperienza di Bush). Prima o poi gli mancherà la lucidità necessaria a prevedere l’andamento degli eventi. Finirà per credere esso stesso alla realtà che racconta. La sua mala fede diventerà completamente sincera.

L’abbandono della saggia circospezione democristiana nella gestione dello stato acuirà in modo sempre crescente le contraddizioni sociali.

L’estromissione dell’opposizione dalle gabbie istituzionali è proprio la strategia opposta a quella perseguita con efficacia dalla grande borghesia durante la prima repubblica. Qualsiasi ricostruzione di un’opposizione di classe sarà oggi costretta, suo malgrado, a trovare la propria strada fuori dalle istituzioni borghesi. La borghesia ha ricollocato il ruolo dell’opposizione al capitale e al suo sistema di significati e falsi valori nel posto che le compete storicamente: la società; chiudendo di propria iniziativa una parentesi più che sessantennale ad essa favorevole. Qualsiasi tentativo di riconquistare le posizioni istituzionali perdute da parte dell’opposizione si rivelerà come un inutile attardarsi su una prospettiva sconfitta storicamente. Si riparte da zero, ma questa volta dalla posizione giusta. Per più di 40 anni il partito comunista è stato forte elettoralmente ma incapace di dare seguito alla propria missione sociale, la sua forza era la sua debolezza, oggi l’insieme dei ceti sociali subalterni è politicamente orfano e può contare solo sulla propria iniziativa diretta, questa sua debolezza istituzionale può diventare la sua forza sociale. Il sistema di dominio può infatti estromettere il mondo del lavoro dalla rappresentazione politica, ma non può eliminare le contraddizioni che si sviluppano e si concentrano nel seno della società che esso domina. Se la ricostruzione di un’opposizione di classe al capitalismo saprà immunizzarsi da qualsiasi forma di rappresentabilità di se stessa essa potrà risultare efficacemente non istituzionalizzabile e perciò inutilizzabile per i fini della classe dominante. In questo possibile nuovo protagonismo di massa come nuova natura di un’opposizione di classe non istituzionalizzabile, tutta da elaborare, vi è una possibile chiave di volta rispetto ai sinistri errori del passato. L’opposizione di classe al capitalismo ha bisogno di un atto di creatività collettiva, che sappia dargli una forma di organizzazione più efficace di quelle in cui si è sclerotizzata. Ma questo protagonismo non è immaginabile senza la ricostruzione di criteri logici di percezione della realtà vissuta, senza affrontare l’immane problema della coscienza di sé da parte degli oggetti del potere. Se invece l’unico obiettivo delle forze di opposizione, a prescindere dalla vita reale, resta il parlamento borghese ormai privato anche della funzione di inscenare la rappresentazione formale della «democrazia» non ci sono molte speranze di scalfire lontanamente il periodo di monoclassismo istituzionale che prende forma dinanzi a noi. Anche tentativi che andassero a buon fine nella direzione della riconquista parziale delle istituzioni finirebbero solo per ritardare ulteriormente la deflagrazione delle contraddizioni riportando indietro l’orologio al mito di una prima repubblica ormai morta e sepolta. Quello che ancora resta in piedi delle conquiste dei movimenti del passato e che ha dato alla repubblica italiana una parvenza di democraticità è insufficiente per poterci costruire sopra un avvenire pacifico. Il ritmo con cui oggi l’economia genera espansioni e recessioni è diventato troppo veloce per i tempi della politica, ogni crisi porta via qualcosa che la successiva espansione non ripristinerà, questo stesso ritmo rende impossibile ogni residua speranza in miglioramenti economici socializzabili e sempre più evidente che la socializzazione ricorrerà ripetutamente solo in periodi di crisi acuta. Il problema è che la destrutturazione crescente dello stato borghese renderà sempre più complicato l’intervento pubblico nei momenti difficili.

 

OTTOBRE 2009

 (torna su)



[1] ad esempio l’editoriale di Falcemartello n. 217 dell’Aprile 2009 dove si parla di «regime in formazione», o il dibattito su Liberazione fra Cacciari, Asor Rosa e Bifo (verso l’ottobre del 2008), alcuni editoriali di Rossana Rossanda su Il Manifesto, il documento dal titolo «L’organizzazione autoritaria della Seconda Repubblica» di Leonardo Mazzei ed altri esempi che si potrebbero fare.

[2] «Le nuove forze operanti nella società italiana quel rinnovamento profondo che, atteggiandosi all’antica severità o almeno alla faccia severa de’ littori, aveva però già preso l’aire dalla loro dotazione di bastoncelli, […], si addiedero poi senza sciuparsi nei filosofemi […] a lastricare de’ più verbosi buoni propositi la patente via dell’inferno. Gassificate indi a funeraria minaccia e fattesi verbo e vento, cospirarono d’impeto in quella tromba d’aria e di polvere che levò se stessa fino a baciare il culo alle nuvole, struggitrice d’ogni separazione dei poteri e del vivente essere che si suol chiamare la patria; d’una distinzione dei «tre poteri»: che il grande sociologo dalla modesta e assettatuzza parrucca, osservando gl’istituti migliori de’ romani e i più giudiziosi e recenti della storia inglese, aveva così lucidamente distinto. […] L’effetto che la resurrezione in parola cavò di sue viscere, infoiata di poter finalmente disporre di tutte le disponibilità resele a disposizione dal potere, fu quello che si verifica ogni volta: voglio dire ad ogni assunzione intera del medesimo: conglomerare le tre balìe - […] - conglomerarle, tutte tre, in un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra».

(Carlo Emilio Gadda «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana». La Biblioteca di Repubblica 46, 2002, pagg. 66, 67)

[3] (Trotskij Scritti 1929-1936, Oscar Mondatori 1968, pagg. 338,339)

[4] (Trotskij Scritti 1929-1936, Oscar Mondatori 1968, pag. 486)

[5] «Il maremmone, cioè maremmano-spinone, si avventò: da credere volesse jugularsi od autoghigliottinarsi nel collare, un sottile anello di ferro dove i peli rabbuffavano, del fuoribondo: e a catena tesa riprincipiò ringhiare e latrare, scoppi reiteratamente frenetici: come declamasse irruenti versi del Foscolo senza tuttavia comprenderne il senso, e nemmeno il non senso, a un pubblico di soprappresi da cascaggine: deliberato ridestarli tutti e richiamarli a purgazione e a vigilia, né perdonar sopore neppure all’ultimo. L’indemoniato idiota, in ciò fare, smarriva tra incisivi radi e scontorti e la ferità de’ canini e licenziava fuor delle labbra, per fiocchi biancastri a ogni nuovo sussultare della capa, una sua bava poltigliosa come béchamelle: nelle arsi di così rorida rabbia levando al cielo sanguinolenti occhi di belva, quasi ad invocare il beneplacito de’ superni Bestioni, gli iddii di sua razza, è a propiziarne il nume, e a promuoverne il consenso a’ più stolti endecasillabi. […] .Quei petardi biliosi del suo rancore gli stavano lacerando la maledetta gargana, di cui per attimi […], si palesava il rossore cavernoso, come d’una spelonca d’inferno […]» (Carlo Emilio Gadda «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana». La Biblioteca di Repubblica 46, 2002, pagg. 203, 204)

[6] (Ted Grand, il lungo filo rosso, scritti scelti 1942-2002, A.C. Editoriale, 2007, pag.336).

[7] (Nuovo Politecnico, Einaudi 1972)

[8] (Eco «Cinque scritti morali». Passaggi Bompiani 1997, pag. 33)

[9] (Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pagg. 35, 36)

[10] (Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pag. 105)

[11] (Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pag. 421)

[12] (Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pagg 533, 534)

[13] (Davide Lajolo, «Venti Quattro Anni», storia spregiudicata di un uomo fortunato, Rizzoli Editore, 1981, pag. 129).

[14] (Davide Lajolo, «Venti Quattro Anni», storia spregiudicata di un uomo fortunato, Rizzoli Editore, 1981, pag. 110).

[15] (Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo. Baldini&Castaldi 1992, pag. 238).