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01
Maggio 2010

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Senescenza (del) Capitale

IL CAPITALISMO INVECCHIA?

Nicola Marziale, Marco Amalfi

 

L’esercizio di discussione lanciato da il manifesto a cavallo tra il 2009 ed il 2010, intervistando un certo numero di economisti, chiamati a rispondere su alcune domande, uguali per tutti, sul tema generale «il capitalismo invecchia?», rappresenta un momento alto di discussione sui temi dell’economia politica, alto come rarissimamente si è visto nei quotidiani italiani, quale che ne sia l’orientamento politico e, men che mai, sui periodici a maggiore caratterizzazione economica. La formulazione della domanda tradisce tracce di materialismo storico di chi l’esercizio l’ha pensato e proposto[1]. La formulazione delle risposte tradisce l’irrintracciabilità del materialismo storico nei paradigmi teorici in cui gli intervistati si muovono. Con accenti diversi, naturalmente, a volte anche con espliciti riferimenti storicistici, la risposta non è mai stata: «sì, certo!». Ora se da un lato potremmo chiederci perché il lungimirante opiniâtre intervistatore si sia rivolto a persone che non riescono nemmeno ad inquadrare teoreticamente la domanda tema generale, dall’altro potremmo salvare gli intervistati attribuendogli grande senso di responsabilità di militanza scientifico-politica che non inducesse a facili entusiasmi meccanicisti.

Proveremo ad argomentare, a nostro avviso, in sostanziale adesione alle tesi di fondo di questa rivista, che il capitalismo non solo non sta invecchiando, ma anzi è già decrepito da decenni, perché non sviluppa le forze produttive a livello globale, produce anarchicamente eteroguidato rispetto ai bisogni delle persone, determina, in ultima analisi, rapporti sociali strutturali e sovrastrutturali, basati sull’oppressione della minoranza sulla maggioranza del genere umano.

Il senso di questo intervento, a partire dalla critica dell’economia politica, contemporanea e non, è quello di indicare le ragioni strutturali per le quali il capitalismo, pertanto, non è il sistema economico che potrà garantire, ben lungi che indefinitamente, ma nemmeno nel breve/medio periodo il progresso (nemmeno paretiano[2]) del genere umano.

 

Siamo hegeliani, nel senso che condividiamo la caratterizzazione del manifestarsi della necessità attraverso il caso sosteneva Hegel. La necessità cui ci si riferisce è una concatenazione di eventi, oppure di passaggi logici, che può darsi nella misura in cui nello stato temporalmente precedente si verifichino una serie di condizioni tali per cui lo stato successivo può senz’altro darsi, perché implicito nello stato delle cose, ma non necessariamente si darà nei modi e nei tempi nei quali la logica formale, o di qualsiasi altro tipo, potrebbe prevedere si diano. Il senso profondo di alcune grandi scoperte matematiche (ancora più facile a capirsi con quelle di fisica matematica[3]) sta proprio nella percezione, ex abrupto, di passaggi catastrofici[4] tra sistemi logici, in cui il «vecchio», che non riesce più a spiegare quanto si va dando o scoprendo nella realtà fisica, vien sostituito dal «nuovo», rivoluzionario, non proprio e non solo nel senso kuhniano[5], che getta basi epistemologiche per un balzo in avanti. Paradigma identico seguono, secondo il materialismo storico, l’evoluzione sociale, antropologica, storica. Paradigma identico si dà, infine, secondo parte consistente dell’epistemologia delle scienze «dure» nello sviluppo dei pianeti (tra cui, evidentemente, la Terra ed i suoi abitanti) e della materia nei suoi diversi stati, fisici e chimici.

Novello passero solitario, l’economista politico ortodosso, non si cale dell’allegria che lo sviluppo della conoscenza umana dovrebbe infondere, ma schiva gli spassi e autosufficiente continua a guardare gli alberi e mancare le foreste e continuare a farsi domande sbagliate cui, per ciò stesso, non potrà far altro che dare rassicurantissime, per loro, risposte, nella migliore delle ipotesi inutili.

In quanto segue, minimizzeremo il ricorso a cifre, disponibili un po’ dappertutto, chiedendo al lettore di non considerare, bonariamente, apodittiche le cose che diremo e di cercarsi in autonomia eventuali riscontri e fonti, dei quali tuttavia, ove d’interesse, saremo ben lieti di dare ascolto e seguito.

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Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un  confronto con la crisi del ’29?

 

Nel rispondere alla prima domanda, pertanto, cercheremo di alzare il tiro, premesso che l’unica caratteristica comune ad ogni crisi è quella di non essere eterna, dicendo che l’attuale crisi è, come ogni altra, finanziaria e reale, ciclica e sistemica, più «grave» di quella del ’29.

L’apertura hegeliana ritorna nella prima parte della risposta. Per quale motivo la strategia vincente per un trentennio, ovvero la spinta all’investimento finanziario puro, la deregulation dei mercati, l’incremento della penetrazione capitalistica ai quattro angoli del pianeta, ad un certo punto si trasforma nel suo contrario? Si è rotto qualcosa, che si può in qualche modo aggiustare, o c’è dell’altro?

Nulla era errato prima, nei comportamenti degli agenti economici, nulla è errato adesso. Il senso inerente, la legge di sviluppo, per dirla in termini marxiani, del capitalismo è la massimizzazione del saggio di profitto[6], nel trentennio precedente la produzione di massa ha progressivamente ceduto il posto alla finanziarizzazione perché, anche qui ci viene indispensabile la teoria marxiana, lo sviluppo delle forze produttive si è accompagnato ad una crescita della composizione organica del capitale, il capitale fisso, quegli investimenti produttivi che facevano sì che la produzione di massa potesse darsi (i robot, per intenderci). Tuttavia, il rendimento di tali investimenti, o meglio, il valore da essi trasferito ai beni prodotti non può essere altro che la quota di «ammortamento» relativa al frammento d’investimento in capitale fisso socialmente necessario per produrre ciascuna unità di una determinata merce. In altri termini, la corsa alla massimizzazione dell’estrazione del plusvalore dal lavoro umano, l’unico che può produrne, ha progressivamente abbattuto la possibilità di fare profitto producendo «tradizionalmente», per l’azione della concorrenza tra i capitalisti, tra i diversi paesi come all’interno di uno stesso paese. I capitalisti hanno dovuto accontentarsi di guadagni relativi più bassi, nonostante l’incremento assoluto e relativo dei saggi di sfruttamento della classe lavoratrice, attraverso l’impoverimento relativo di questa nei paesi avanzati e la proletarizzazione di amplissime masse lavoratrici nei paesi in via di sviluppo. Tutto questo è divenuto progressivamente troppo oneroso per la classe capitalista, il cui sogno è, come per tutti, quello di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. È proprio in questo il ruolo della finanza. Come la produzione capitalistica nasce per il soddisfacimento dei bisogni delle persone, la finanza nasce per il soddisfacimento dei bisogni produttivi del capitalismo ma, come nel caso della produzione, col tempo diviene troppo oneroso, anche in termini di costo opportunità, mantenersi lungo vecchi schemi di produzione. Da qui la finanza supertecnologizzata e matematizzata e d’azzardo che si è venuta sviluppando negli ultimi vent’anni. Per questo nuovo modo di produrre profitto, le variabili intervenienti sono incomparabilmente di meno, in primis non ci sono persone, in quanto chi ci capisce di queste cose è un’esigua minoranza, non ci sono masse di lavoratori da organizzare, investimenti, spazi e distanze fisici, e con un tocco di mouse si sposta l’equivalente di una fabbrica da un mercato all’altro, con la massima flessibilità, alla ricerca dell’affare.

Questo è perfettamente sensato, come è perfettamente sensato che se sei più bravo a farlo rischierai di più, e questa è la ragione, a contrario, per cui la crisi ha colpito meno, sul fronte finanziario, paesi più arretrati capitalisticamente, come l’Italia, in cui queste capacità erano estremamente ridotte, ma che, per converso, colpirà moltissimo il lato «reale» dell’economia, sul quale minimi sono i margini di manovra per i capitalisti poco sviluppati, nonostante il tasso d’interesse reale quasi negativo (vent’anni fa era sette/otto volte maggiore).

Ergo il carburante era pronto, mancava una miccia, che poteva essere una cosa o l’altra, hegelianamente. Negli usa è stata la crisi dei subprime, in altri paesi il peso del debito pubblico, in altri quello privato, in altri il tasso di cambio della moneta. Nel paese capitalisticamente più avanzato l’innesco è provenuto da qualcosa di molto reale: una miccia dietro cui sta precisamente l’enorme sfruttamento reale subito dalla classe lavoratrice america che ha venduto a credito la propria adesione ideologica al capitalismo per rendersi conto, troppo tardi, che l’avevano fregata e senza avere, adesso, una soluzione. L’adesione ideologica al modello dell’economia «vero» nel senso che propugnano i liberisti «naturalisti» di ieri e di oggi (dai «giganti» Friedman[7], Fukuyama[8], Lucas[9] fino ai nostri «nani» Alesina e Giavazzi[10], tanto per fare qualche nome) dicevamo prima è pure condizione necessaria a che la posposizione della crisi prima, e la sua esposizione poi, si diano nelle forme in cui si danno concretamente.

 

Da qui si chiarisce come il senso della seconda parte della risposta sia legato ad una concezione dell’economia politica in cui le crisi sono shock, elementi eccezionali, non la natura inerente del sistema economico che, in quanto basato sull’anarchia, di mercato, non può, per ciò stesso, avere regole né limitazioni nel tempo o nello spazio, ma può averne nelle dimensioni reali delle variabili in gioco. Pertanto qualcosa di congiunturale diventa strutturale nella misura in cui porta al minimo i salari, al livello di sussistenza, fisso nei modelli dell’economia politica classica, al di sotto del quale il lavoratore non riesce ad essere tale. In definitiva, finché ci sono margini perché sia possibile abbassare il salario (sia quello monetario diretto che quello indiretto attraverso il welfare, evidentemente) la crisi avrà sempre una via d’uscita, ma non per questo potrà essere intesa attraverso le categorie della temporaneità, che strutturalmente non possono essere di un sistema che si vorrebbe «naturale». La categoria della crisi è centrale nel capitalismo, essa è il momento supremo attraverso il quale si definiscono i rapporti sociali all’interno del sistema economico, per ciò stesso è ineliminabile, per ciò stesso, l’unica caratteristica comune a tutte le crisi è il fatto che non possa durare per sempre, e che qualcuno dovrà pagarla: il capitale fittizio, con la sua sparizione o la classe lavoratrice con l’aumento dello sfruttamento. Lo stato di crisi, pertanto, non può essere né permanente, né definitivo, ma si risolve precisamente nella soluzione dello scontro sociale per l’appropriazione del plusvalore: o ai lavoratori, o ai capitalisti, con quello che potrà conseguirne in termini politici.

Nel particolare di questa crisi, la  maniera di produzione,  il modello di accumulazione (e non solo di distribuzione, come qualcuno ritiene), basato sulla finanziarizzazione resiste con la forza delle immense risorse in grado di mobilitare che, anche se temperate dalla crisi, restano al di sopra di quanto nelle possibilità di controllo dei sistemi di regolazione in essere[11]. In più, conta l’elemento strutturale della fine del modello di globalizzazione basato sull’indebitamento americano e su una politica monetaria «dollarizzata» e lo smascheramento del(lo) (stra)potere di (poche) banche e (pochi) intermediari sull’economia reale. In congiuntura, l’autoreferenzialità del sistema finanziario, le «bolle» ed i relativi crack, che si succedono sempre più devastanti e ravvicinati (in media uno ogni tre anni).

Ne consegue la risposta sul terzo passaggio. È curioso, in effetti, come i paragoni in cifre vadano cercati con il lanternino. A noi basterà evidenziare che la crisi attuale si riferisce ad un mondo con un indice di penetrazione del capitalismo pressoché totale su tutta l’attività economica terrestre, tutta legata dalle leggi di movimento che ricordavamo sopra. Nel ’29 il crollo dei corsi azionari fu maggiore e la velocità di propagazione della crisi minore. Quella crisi finì con i milioni di morti della seconda guerra mondiale. Questa crisi non è finita.

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Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale?

 

Il trade off tra studiare la matematica e studiare la storia è del tutto infondato: dall’una e dall’altra si possono trarre lezioni importanti e passaggi di grande eleganza, così come se ne possono derivare ritualità propagandistiche, inutili o dannose. Nell’una e nell’altra, in definitiva, se non si vogliano vedere delle cose si farà di tutto per non vederle, ergo se ci si richiama allo studio della storia per individuare i germi della follia delle superspeculazioni che precedono i tracolli finanziari, basterà ripetere, come nel caso degli esperti di politica economica, che errori del passato sarebbero oggi impossibili (ad esempio il rialzo dei tassi in un frangente di crisi tipo ’29, cosa che infatti non si ripete oggi, stante l’abbondanza di liquidità che caratterizza il sistema economico contemporaneo) per sterilizzarne la memoria riducendola a mera curiosità. Non è un fatto di storia o di matematica, quindi, ma di obiettivi politico-ideologici cui si vuole piegare le discipline (tutte ugualmente passibili di tale sottomissione). La matematizzazione ha dei portati interessanti per le classi dominanti: i) poche persone ne sanno, ergo poche persone possono capire che cosa stia succedendo; ii) un certo quid «esoterico» della matematica (non solo nella nostra scuoletta gentiliana via via sempre più indebolita) ne allontana gli spiriti «deboli» e; iii) per converso, conferisce un grandissimo crisma di oggettività alla cose che con essa si dicono.

Una vera manna, insomma, per la finanziarizzazione. Un po’ più rognosa, invece, per l’economia politica classica che, dovendo matematizzare concetti complessi quali l’equilibrio, le scelte, gli aggregati sociali, per riuscirci è costretta ad un riduzionismo feroce che la porta a tagliare complessità in ogni modo possibile, teorizzandola esplicitamente e, dove non basta, limitandosi a glissare sulle forzature esercitate nei modelli, quali quelle sugli andamenti «well-behaved»[12] delle funzioni matematiche che rappresentano le dinamiche dei modelli o il teorema di impossibilità del paretiano liberale[13].

 

Per provare ad esemplificare ulteriormente di cosa stiamo parlando è appena il caso di rilevare che i modelli mainstream, si riferiscono immancabilmente ad economie di puro scambio, non sequenziali, senza alcun conflitto di classe, quindi con un gap di sostanza rispetto al reale, che non può essere certo colmato dalla mera forma di un linguaggio.

Prendendo spunto dall’ultima crisi, non si può non notare che, specie nell’ultimo decennio, l’impiego della matematica in Finanza è dilagato. La matematica è stata spinta in Finanza seguendo gli obiettivi delle classi dominanti limitandosi, perciò, a concentrarsi sulla «forma» dei modelli, relegando al margine ciò che marginale non era (ovvero la sostanza degli oggetti matematici utilizzati, cosa questi rappresentassero nella realtà). Perché se di «modelli» parliamo, proprio il modulus, l’essenza dell’oggetto di studio, dovrebbe stare al centro del discorso. Ad esempio, per interpretare correttamente il comportamento degli operatori finanziari sarebbe essenziale distinguere tra «funzione cognitiva» e «funzione manipolativa», tra razionalità economica e comportamento imitativo; ma nulla di tutto ciò compare nei contributi più diffusi. I quali hanno rimosso sistematicamente l’intrinseca incertezza dei mercati finanziari, sempre più basata sul venire meno della separazione tra economia reale e finanziaria. Abbiamo quindi una particolare debolezza ontologica dei modelli di calcolo di probabilità utilizzati per valutare i rischi che è riconducibile al mancato riconoscimento della natura endogena delle interazioni degli attori. Se la razionalità è una buona guida per leggere il mondo in tempi normali, senz’altro lo è meno in situazioni di stress positivo (le bolle speculative) o negativo (le crisi). L’ortodossia non ha previsto la crisi, e fa tanta fatica ad uscire dall’impasse in cui è caduta, perché non può tenere conto di questo fattore, accecata dalla purezza delle deduzioni.

Nella gestione di rischi finanziari, per insistere sulla finanza, si è giunti a modelli di misurazione dei rischi sofisticatissimi dal punto di vista del calculus. Tali modelli, tuttavia, perché siano trattabili sono basati sempre sull’assunzione di stazionarietà[14], nell’ipotesi, quanto meno opinabile che, nel vorticoso mondo finanziario, esistano proprietà che rimangono costanti tra il passato ed il futuro.

La questione non è affatto banale: in termini statistici, i risk managers devono affrontare lo spinoso problema di stimare lo «spessore» della coda di una distribuzione di perdita, della quale, per definizione, si hanno ben pochi dati disponibili. Dato che la maggior parte delle osservazioni sono «centrali», la distribuzione «fittata»[15] è adatta, primariamente, a fare previsioni per i valori «centrali». Quindi, credere che i modelli di risk-management, con la loro matematica e la buona performance in giorni «normali», siano ben «equipaggiati» per prevedere gli eventi estremi futuri è, quanto meno, fuori luogo. Esistono senz’altro schemi di risk management che possono gestire meglio di altri questo genere di difetto, ma nessun modello riesce a sbarazzarsene in via definitiva. E questo dovrebbe essere tenuto sempre ben presente. Altrimenti, si rischia seriamente di produrre un enorme armamentario matematico capace di difendere i corsi dei titoli, e in generale il valore di un’attività finanziaria, da fluttuazioni piccole e non significative al costo, però, di incrementare la propria esposizione a quelle più importanti, che davvero dovremmo temere. O, a essere più precisi, lo si rischia nuovamente. «Trasformare un modello in una formula quantitativa  - diceva Keynes, che era un buon matematico – significa distruggerne ogni utilità come strumento intellettuale».

Tutte queste cose non sono nascoste in un libro segreto, sono alla portata (e note) a tutti, solo che semplicemente gli economisti mainstream non se ne curano e costruiscono modelli straordinariamente eleganti e straordinariamente ad hoc al problema del momento. L’abilità massima dell’economista neoclassico, pertanto, è l’abilità di fornire alla classe dominante risposte alla domanda politica di teoria. Nulla a che vedere con l’illuminismo delle discipline: anche se nessuno mentisse spudoratamente, basterebbe non farsi capire, o parlare d’altro.

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Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?

 

Se vale l’assunto che un operatore economico sia too big to fail, molto probabilmente varrà pure che altri siano too big to be regulated. Questo passaggio non darebbe solo ragione alla legge marxiana della concentrazione crescente dei mercati, ma spiega anche molta parte delle dinamiche di concorrenza industriale internazionale, in cui la cifra della concentrazione si dà, al momento, principalmente per le produzione a maggior valore aggiunto, economico e tecnologico (automotive, metallurgia, aerospaziale, militare, ict[16], agricoltura, biomedicale, finanza). In tutti questi settori la potestà normativa degli stati è sostanzialmente nulla come testimonia l’intero panorama regolatorio sia direttamente determinato dai grandi gruppi industriali internazionali, quali che siano i governi o i sistemi legislativi. Per fare un unico esempio sintomatico della portata di tale sproporzione basta ricordare che nel pieno della crisi finanziaria, l’unico intervento regolatorio significativo restrittivo è stata la proibizione delle vendite allo scoperto[17] su alcuni mercati, ma è durata meno di un mese. Tutte le riflessioni sulla limitazione di democrazia economia che minerebbero le basi della democrazie stessa parrebbero essere mere pruderie liberali di poco o punto valore analitico perché immemori, ad esempio che nel caso delle dittature nazifasciste, gran parte degli elementi di «democrazia economica» rimanevano valide, le imprese erano messe nelle migliori condizioni normative, il movimento operaio era schiacciato, i profeti del liberalismo divisi tra l’afasia e la connivenza. Nel panorama contemporaneo vieppiù, quella dello stato regolatore arbitro imparziale è una pia illusione, nella migliore delle ipotesi, una panzana per piccoloborghesi nell’intermedia, uno strumento di oppressione di massa nella peggiore.

Lo Stato, in quanto espressione del potere della classe dominante non può che farne gli interessi[18]. Tutto sta, pertanto, a cambiare classe dominante, se si ha intenzione di cambiare il ruolo dello stato rispetto al sistema economico. Le considerazioni sulla gradualità possibile od auspicata di questo passaggio sono un’altra discussione (ad esempio sulla situazione in Venezuela).

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Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington - Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?

 

Gli esercizi di riflessione geopolitico-economica, dall’avventato Fukuyama della fine della storia in poi, si caratterizzano per un elevatissimo tasso d’impressionismo. Ricordiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, tigri asiatiche e celtiche, nuovi ordini mondiali dollarizzati e magnifiche sorti e progressive di nuove monete sovranazionali. Nessuno dei modelli osannati nel corso degli ultimi trent’anni ha retto alla prova del tempo. Anche qui attraverso l’esercizio di necessità espresso dal caso sono sempre molteplici le spiegazioni per questa o quella dinamica storica, talvolta non senza fondamento. Oggi non ci sembra che si possa pensare diversamente agli stati monstre che guru vari propongono. La «suggestiva» Cindia è oggi un nucleo potentissimo di produzione a basso costo, e non necessariamente bassa qualità, né bassa tecnologia, né bassa gamma, basato come tale su un altrettanto potentissimo esercito industriale di riserva[19]. Prima che ne esplodesse il fenomeno, occorre ricordare attraverso capitali esteri ed oppressione spietata interna (il perdurare delle segregazioni indiane non è meno brutale del pugno di ferro del partito sedicente comunista cinese), è stata la volta dei paesi dell’est europeo, la cui parabola è durata poco più di un decennio, chi più chi meno, nel quale le risorse interne sono state cannibalizzate, in particolare, ovviamente il lavoro, ancorché, come ad esempio nel caso dell’Africa potremmo ricorrere alle categorie del colonialismo vecchio stampo, imperniato sulle risorse minerarie. Alla fine della parabola ci sono società più inique, con redditi medi bassissimi, redditi mediani infimi e perfino (in Africa come nell’ex urss) un’aspettativa di vita media alla nascita inferiore. Europa, Cina e usa sembrerebbero, oggi legate a doppio filo una all’altra, certo in misura maggiore queste ultime (in particolare i cinesi posseggono gran parte del debito pubblico usa, oceani di riserve in dollari, con cui vengono pagati per le grandissime esportazioni verso gli usa, di cui questi ultimi non potrebbero, evidentemente, fare a meno), ma la velocità di propagazione degli shock economici, di borsa, ma come abbiamo visto già dai tempi dei tequila bonds[20] o più recentemente in Grecia, anche dei prestiti di stato ed il livello d’interconnessione della proprietà del capitale fa sì che nessuno dei blocchi possa esercitare qualsivoglia forma di decoupling[21], semplicemente perché in nessun caso riuscirebbe ad imprimere ai mercati interni tassi di sviluppo paragonabili a quelli ottenuti ed ottenibili attraverso l’apertura di sbocchi internazionali per le proprie merci.

 

Nell’approfondire un poco il rapporto tra Stati (e politica) e finanziarizzazione, ovvero sul ruolo dei mercati finanziari (o, meglio, delle logiche finanziarie), ritroviamo la finanziarizzazione al momento dell’accumulazione, con capitali che richiedono forti rendimenti attraverso alti corsi azionari, quindi plusvalenze, meglio se nel breve periodo, e stimolano così una continua innovazione molto spesso via riorganizzazioni produttive e precarietà del lavoro. La finanza permette anche la distribuzione, grazie a mercati finanziari (o qualora questi non riescano ad «intervenire» per via dello scoppio di una bolla ecco l’indebitamento verso le banche) che agiscono come una sorta di moltiplicatore keynesiano, e come meccanismo di redistribuzione (distorta) del reddito. I mercati finanziari svolgono il ruolo di assicuratori sociali, canalizzando quote crescenti dei redditi verso istituti di assicurazione privati e fondi pensione. Infine, sui mercati finanziari si misura la produttività; e la si misura in termini convenzionali, quindi i paradigmi tecnologici possono affermarsi ad una velocità inaudita, così come possono stentare a diffondersi, legati a filo rosso alle idee, se non agli umori, degli operatori in titoli. Il potere dei mercati finanziari è divenuto inaudito, i Governi vi sono sottomessi, le Banche Centrali assecondano la crescita delle Borse, con un governo della moneta sempre più deciso dalle dinamiche di prezzo sul Nyse[22] o sulla piazza di Shangai. Il passaggio a questa nuova forma di capitalismo è stata la risposta politica alla crisi in cui era caduto negli anni ’70 l’ormai vecchio e inutile (agli occhi della classe dominante) fordismo.

 

Sostenere che a queste condizioni si possa efficacemente parlare di regolazione della finanza, o del mercato in genere, è pura chiacchiera.

 

Il problema, infatti, nasce nei momenti di crisi economica sincrona e generalizzata, in cui qualcuno deve cedere per primo ed espellere il capitale fittizio dai propri sistemi economici. In questo forse Europa ed usa hanno giocato d’anticipo, colpendo per prima le proprie classi lavoratrici attraverso la redistribuzione di risorse in favore delle classi più abbienti (ad esempio con l’esplosione della, regressiva, tassazione indiretta, con i tagli al welfare, con le privatizzazioni, con le riduzioni del monte salari), ma la Cina non può stare a guardare. Quest’ultima, non avendo nulla da tagliare può limitarsi a non «costruire» nulla dal punto di vista sociale e rimanere patria del liberismo più classico. Anche in questo caso, tuttavia la dinamica di crescita non può reggere per sempre, nonostante quanto siamo andati adombrando in nota, ed i dati sull’incremento della conflittualità sociale e delle disparità socio-economiche sembrerebbero dare conto di questo tipo di percorso. Tuttavia, si possono leggere numerose interviste di economisti cinesi, in massima parte, però, c’è da dire, formati in occidente, secondo i quali la Cina non può non esternalizzare le produzioni a più basso valore aggiunto per elevare la sua gamma di produzioni. Questo può essere senz’altro un ulteriore motivo per prendere fiato, a cui, tra l’altro, l’intera comunità internazionale lavora alacremente, si pensi all’annullamento di intere realtà statuali, sia in Africa che in Asia, da cui si possa ripartire. Si tratta nella massima parte, però, di casi di progetti a lunga scadenza, a volte strettamente legati alle materie prime, e dagli esiti tanto incerti che continuamente richiedono l’apertura di nuovi fronti: decine di Somalie (ovvero paesi politicamente, istituzionalmente ed amministrativamente annientati) da cui, solo per la legge dei grandi numeri sia possibile tirar fuori dei Congo (ovvero paesi politicamente, istituzionalmente ed amministrativamente annientati dai quali però si riesce pure a drenare scandalose ricchezze) - al costo di destabilizzare, va da sé, anche altri paesi già «consolidati» nello sfruttamento capitalistico (ad esempio l’attuale situazione in Grecia).

 

La politica dovrebbe senz’altro spingersi oltre, «attaccare» dall’esterno il sistema, anche se al momento parte con un indubitabile svantaggio. L’unico modo per far riguadagnare spazio all’agire politico, pertanto, sembra essere il ricorso ad un movimento di lavoratori per un generale rivolgimento dei rapporti sociali ingenerati dal capitalismo, quali che ne siano le difficoltà e la tempistica storica. Ma questa, è un’altra storia (ineludibile, però, per le organizzazioni della sinistra che vogliano in qualche modo riprendere a «cambiare il mondo»). 

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L’attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?

 

L’intervento pubblico dal lato dell’offerta è in larga misura ideologico, in quanto si basa sulla convinzione della validità della legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda attraverso gli automatismi insiti nella mano invisibile che, per qualche motivo razionalmente inconcepibile, dovrebbe orientare le scelte di consumo, produzione ed investimento nella direzione dell’esaurimento del prodotto e della massimizzazione del profitto, che però, quando è davvero massimizzato, per l’economia politica marginalista, è zero! Questo ovviamente in assenza di alcuna frizione nei mercati, da cui il precetto normativo della rimozione dei vincoli del laissez faire laissez passer les marchandises. Non staremo a ripercorre la straordinaria quanto inane eleganza formale di questo modello, di cui da un altro punto di vista si è detto prima, resta l’assunto ideologico della composizione delle scelte individuali preordinata secondo un modello di razionalità standardizzato ed autosimilare negli attori economici, quali che siano. Tutti gli attori economici conoscono il modello dell’economia, volgarizzando Lucas, e questo modello… è il mio!

L’intervento da parte dell’offerta, ovvero l’intervento che consentirebbe il solo appannaggio alle imprese di parte del capitale socialmente accumulato riposa, ancora una volta, sull’assunto che il modello «azienda» di soddisfacimento dei bisogni è quello ottimale, che consente al contempo la realizzazione del «giusto» profitto da parte delle stesse, che queste possono «giustamente» distribuire attraverso la remunerazione, al margine del fattore di produzione. In tale modello, tuttavia, sull’altare della libera intrapresa non si può in alcun modo determinare socialmente le quantità e le qualità delle produzioni, se non attraverso le decisioni degli attori economici, ciascuno attraverso il proprio potere di mercato: l’offerente determinerà pertanto le scelte disponibili, il domandante potrà, certo, scegliere, ma solo, ovviamente, tra le alternative disponibili. Appare evidente come il potere di mercato di quest’ultimo, dunque, sia strutturalmente subordinato a quello dei primi, sarà pertanto, esercizio fittizio di libertà, che in alcun modo non possa rimuovere le impasse determinate dal punto di vista dell’offerta nella realizzazione dei valori delle merci. Le scelte esercitate dal lato dell’offerta, quindi, determinano quelle esercitabili dal lato della domanda, pertanto in nessun modo in una situazione di crisi, in cui si verifichino anche razionamenti al consumo (e quindi, mediatamente, al soddisfacimento dei bisogni) sarà l’offerta a sbloccare la situazione, nemmeno rimanendo nell’ottica del modello capitalistica. È Crono che sbrana i suoi figli, precisamente.

Resta, a margine, una postilla sui sostenitori, in ottica capitalistica dell’intervento dal lato della domanda. Posto questo modo d’intervento, senz’altro migliore per i lavoratori, non intaccando le dinamiche fondamentali della produzione e delle scelte, ma semplicemente, fornendo un minimo di arbitrio in più nella determinazione delle scelte di consumo, allevia un poco le condizioni di vita della classe lavoratrice, rimandando il problema ad epoca successiva, in cui, nella migliore delle ipotesi saremo tutti morti, nella peggiore, pur non interessandoci noi della guerra, sarà la guerra ad interessarsi a noi. Questo è stato valido in esito al celebrato New Deal americano, questo è stato il keynesismo reazionario della dinastia Bush, questo è anche un pezzo delle principali scelte di politica industriale che si vanno delineando oggi in Italia (quali il ritorno al nucleare, il ponte sullo stretto, l’alta velocità).

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Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell’indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?

 

Sulla scorta di quanto siamo andati dicendo, il peso della crisi è sulle spalle della classe lavoratrice internazionale, quale che ne sia il grado di proletarizzazione. Chiedersi, pertanto, se saranno più o meno le generazioni future ad esserne interessate rimane comunque privo di grande senso analitico. Nella misura in cui, infatti, alcuni paesi potrebbero finanziare a debito il costo della via d’uscita, ovvero attraverso il ripianamento pubblico delle perdite private, la tagliola dell’interesse composto farebbe il suo corso inesorabile schiavizzando le economie dei paesi più deboli alla servitù dei crediti gentilmente concessi, tanto all’interno quanto all’esterno del paese interessato. Questo passaggio tiene anche se si voglia rimanere nella prospettiva delle compatibilità capitalistiche, in questo senso occorre ricordare che il debito pubblico non rileva tanto quanto grandezza in sé, in termini assoluti, quanto nel suo rapporto con il prodotto interno lordo (non entriamo qui nel dibattito sullo scarso contenuto informativo di questa grandezza nell’economia politica di oggi). Trattandosi di un rapporto, se il denominatore, il pil, cresce, il debito potrà continuare indefinitamente a crescere in termini assoluti fino ad un tasso pari a quello della crescita del pil. Ma il pil può crescere stante le riforme strutturali intraprese per ridurre il debito? Quanto pesa, ad esempio, la riforma delle pensioni del ’93 per un paese come l’Italia, interessato, guarda caso dallo stesso periodo, dal crollo della produttività? Si tratta di un caso abbastanza ovvio di «anoressia» produttiva: meno si investe nella produzione meno si realizza il prodotto meno si sarà in grado di mantenere accesi i motori senza iniezioni di capitale esterno al sistema in oggetto. Pertanto, in ogni caso, i giovani in ogni periodo sono condannati a pagare, contano poco, qui, le riflessioni sull’età dei decisori in ogni sistema sociale in un dato momento.

Quale che sia quest’ultima infatti le decisioni intraprese saranno sostanzialmente identiche perché riflesse dalle dinamiche di classe nell’esercizio del potere. Alcune generazioni, per ragioni storiche complesse che potrebbero essere oggetto di future riflessioni, sono state più pronte a comprendere questi fenomeni ed a contrastarli, ma nelle scontro tra forze vive, finora, o sono state tradite o hanno perso. Il capitale è, finora, sempre riuscito a riorganizzarsi e scaricare il peso delle proprie malefatte altrove. Le giovani generazioni di oggi, come quelle di ieri, con i potenti strumenti a disposizione (ma purtroppo padroneggiati dalla controparte di classe), hanno il compito di ribaltare questo stato di cose, di smettere di pagare e riappropriarsi del prodotto per il soddisfacimento di, tutte, le proprie esigenze.

 

APRILE 2010

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[1] La traduzione del tema d’indagine nelle domande specifiche, tuttavia, segna una sostanziale adesione alla semantica mainstream nell’analisi del sistema economico. Se questo è senz’altro un modo per utilizzare un linguaggio comune, le categorie proposte dalle domande non ci sembrano essere quelle più utili ad una chiara focalizzazione del problema del capitalismo oggi. Tuttavia, si può forse riconoscere un intento didascalico, che non necessariamente guasta, e a cui alcune delle interviste rispondono egregiamente (quella a Giorgio Lunghini, ad esempio, ma anche l’intervento breve di Alberto Russo), nello smascherare alcune finzioni teoriche care all’economia politica dominante e forse perfino un, giustificatissimo, istinto di rivalsa, per economisti eterodossi più che marginalizzati negli ultimi trent’anni.

[2] Il termine si riferisce al concetto di ottimalità proposto da Vilfredo Pareto, cui si fa amplissimo ricorso in economia politica per indicare un’allocazione di risorse per la quale si ha una situazione in cui, in sostanza, nessun agente può stare meglio senza ledere il benessere altrui.

[3] Ad esempio, l’intera opera di Poincaré si dispiega attraverso un potentissimo continuum di intuizioni multidisciplinari di soluzioni «di fisica» e problemi matematici, e viceversa, gettando così le basi per la definitiva affermazione della teoria quantistica, della relatività, della topologia, dei sistemi dinamici complessi.

[4] È interessante notare come nel senso della teoria matematica delle catastrofi, queste ultime sono passaggi di stato o condizione radicali, a partire da situazioni normali, che si danno in punti dello spazio del tutto simili ad altri «non catastrofici» (cfr. Woodcock, Davis, La teoria delle catastrofi )

[5] Il termine si riferisce al pensiero dell’epistemologo statunitense Thomas Kuhn, che definisce il concetto di paradigma come il corpus di teorie e strumenti che compongono un filone consolidato. Con «rivoluzioni scientifiche» K. intende il passaggio ad un nuovo paradigma di riferimento, completamente diverso dal primo, ma che si sviluppa a partire da alcuni elementi dello stesso.

[6] Su questo concordano anche gli economisti mainstream, solo che per amor di formalizzazione, nei loro modelli matematici il profitto massimo corrisponde ad una derivata uguale a zero, ovvero profitto massimo raggiungibile, stante l’azione della concorrenza, è zero.

[7] Milton Friedman, economista USA, premio nobel nel ’76, capostipite della scuola monetarista, alfiere del libero mercato e del rifiuto di qualsiasi intervento dello stato in economia. Fu l’ispiratore delle tesi di politica economica della Thatcher, di Reagan, di Pinochet.

[8] Francis Fukuyama, autore del libello La fine della storia fortunatissimo instant-book successivo alla caduta del muro (1992), in cui si sostenevano le magnifiche sorti e progressive del modo intiero dopo la caduta del comunismo. Oggi si è buttato sul futuro «postumano» introdotto dalla genetica.

[9] Robert Lucas, economista USA, inventore della microfondazione della macroeconomia, basando quest’ultima sull’ipotesi di aspettative razionali (prive di errori sistematici) degli attori economici, ovvero sulla generalizzata conoscenza del modello dell’economia (che, per inciso, è quello monetarista!), in conseguenza del quale aggiusteranno le proprie scelte in termini di prezzi e consumi verso l’unico equilibrio dinamico esistente, in cui si riassume il sistema economico.

[10] Roberto Alesina e Francesco Giavazzi, noti economisti italiani autori del surreale Il liberismo è di sinistra in cui, in continuità con i filoni di pensiero degli economisti già citati in nota, sostengono che le liberalizzazione siano la vera sfida della sinistra italiana.

[11] Non è un caso che regolazioni restrittive della finanza seguano sempre, storicamente, grandi crisi (e.g. la legge bancaria italiana del ’36, il Glass-Steagall act americano del ’32)

[12] Letteralmente in inglese significa «beneducato», i matematici usano tale concetto per indicare in breve che gli oggetti che studiano hanno un insieme di proprietà funzionali al problema in analisi. Allo stesso modo gli economisti chiamano così le funzioni che fanno funzionare bene i loro modelli.

[13] In estrema sintesi, il teorema, dimostrato dal premio nobel Amartya Sen dimostra come sia impossibile trovare una forma di scelta collettiva in cui siano salvaguardati un insieme minimo di diritti a tutti i soggetti coinvolti nella scelta senza diminuire il benessere di almeno uno di loro.

[14] Si usa qui il termine «stazionarietà» in un senso più ampio rispetto a quello del termine tecnico che compare per i modelli stocastici. Per questi, una serie di dati storici si dice stazionaria se tende sempre ad assestarsi attorno ad una media, quale che sia, ma mai ad «esplodere» (ovvero a crescere o decrescere indefinitamente). In questo contesto, invece, usiamo «stazionarietà» nel senso che alcune proprietà rimangono costanti tra il passato ed il futuro (quali, ad es., l’ordine degli eventi).

[15] Nel gergo degli economisti (e prima ancora degli statistici), «fittare» sta per «adattare un modello teorico ad un insieme di dati a disposizione».

[16] Information and communication technology

[17] Si tratta della vendita di titoli che non si posseggono. È una modalità di speculazione che nasce, in origine, per coprirsi dal rischio delle fluttuazioni di prezzo di un’attività finanziaria. Naturalmente, può essere interpretato, ed esperito, come una vera e propria scommessa ribassista. Questo secondo utilizzo riguarda la massima parte di tali transazioni.

[18] In questo senso teorizzano anche numerosi economisti mainstream, nel sostenere che la regolazione non può che essere prociclica, ovvero fare gli interessi degli attori economici, e microfondata, ovvero focalizzata sui comportamenti individuali, nell’assioma che l’insieme dei comportamenti individuali, la mera somma degli individui, debba costituire i sistemi sociali, eliminandone, riduzionisticamente, ogni altra complessità.

[19] In particolare, nel caso della Cina, tuttavia, riteniamo questo possa non esaurire il dibattito, va esplicitamente considerato, in quel caso il ruolo della burocrazia statale, se non le ultime tracce contemporanee di pianificazione dell’economia. È un dibattito molto interessante che consentirebbe di evidenziare la superiorità di tali elementi di socialismo nel consentire dinamiche competitive migliori a quel paese. Non siamo sicuri, infatti, che le mere dimensioni spieghino tutto, nel caso dell’urss, ad esempio, le dimensioni non erano dissimili. L’immensa capacità di estrazione di plusvalore dalla classe lavoratrice potrebbe fare la differenza, ma a livello aggregato mondiale non ci sembra sufficiente, tanto da rendere necessario il ricorso analitico ai fattori sopra accennati. Questo, tuttavia, non introduce dubbi rispetto alla caratterizzazione della Cina di stato pienamente capitalistico.

[20] Il nome che fu dato ai titoli di stato messicani nel 1995, a seguito dell’insolvenza dello stato. La crisi finanziaria che ne conseguì si estese immediatamente, con effetti devastanti, a tutto il Sudamerica.

[21] Con il termine si indica nel dibattito di questi ultimi anni, la possibilità per una economia di sganciarsi dalle altre nel senso di essere in grado di non subire contraccolpi economici  o finanziari da crisi «esterne». La realtà dei fatti ne ha dimostrato l’impossibilità, perfino per la Cina, nonostante i caveat indicati nel testo.

[22] New York Stock Exchange, è l’acronimo della borsa di New York.