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02
Ottobre 2010

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STORIA D’AMORE E DI SINDACATO

Valeria Spadini

 

Introduzione

La scelta di intervistare Oriella e Marco è stata quasi obbligata: cercavo una storia di passione politica e ne ho trovate due, così sapientemente intrecciate ma contemporaneamente distinte l’una dall’altra, che la fascinazione è stata probabilmente il primo motore della mia intervista.

Quando amore sentimentale e politico si amalgamano nella loro complessità è difficile porre delle resistenze. Nello stesso tempo ho tentato, ai  fini della buona riuscita dell’intervista, di non lasciare che quel primo motore prendesse piede, mediante domande che in parte agissero da deterrente nei confronti di quella glassa di sentimentalismo che non di rado si forma sulla superficie di questo genere di racconti, appiattendoli inesorabilmente.

Ho trovato la storia di Oriella e Marco particolarmente interessante perché le loro strade si incrociano quando entrambi, provenienti da percorsi diversi, sono già personalità di riferimento all’interno della Cgil di Brescia: Marco, da poco in pensione, è stato segretario della Camera del Lavoro di Brescia e Oriella è funzionaria a livello regionale.

Entrambi quindi hanno vissuto gli stessi momenti storici, ma ognuno con quella particolarità di sguardo dettata da una storia personale, da una differenza di genere che si svela anche nel modo di raccontare, nella scelta delle parole.

L’obiettivo dell’intervista è proprio quello di lasciare che le parole di Oriella e Marco ci offrano un orizzonte più ampio possibile sull’esperienza sindacale sia femminile che maschile all’interno della Cgil. Si presterà particolare attenzione al mondo del lavoro attuale, e al percorso che la Cgil ha dovuto o deciso di seguire in seguito ai cambiamenti storici e politici dal ’71 all'’80.

 

Intervista

Mi piacerebbe cominciare l’intervista con il racconto della vostra prima esperienza in Cgil; in particolare, quali sono i motivi per i quali vi siete avvicinati al sindacato? Avete fatto altre esperienze politiche in precedenza?

 

MARCO: i primi contatti li ho avuti nel periodo dell’estate del ’69. Avevo un contratto di quattro mesi con la sip, da stagionale, nella sala di commutazione: reparto con un centinaio di donne di giorno e quattro uomini di notte. Nel giro di pochi giorni dal mio arrivo, due operatori muoiono per una scossa. Decidiamo di fare uno sciopero e prendiamo contatti con cgil e cisl; facciamo quarantott’ore di sciopero. A settembre ovviamente il contratto è finito.

Io abitavo al Violino, e lì c’erano dei compagni, in particolare un certo Tirelli, che era del psiup, nella fiom nazionale, e per mesi abbiamo fatto picchetti nelle fabbriche, in particolare alle siderurgiche.

Poi sono andato a lavorare in banca S. Paolo di Brescia (mio papà era assessore democristiano); lì la cgil non c’era e mi sono iscritto alla fabi, sindacato autonomo. Orsoni, segretario della fabi, era consigliere comunale del pci. Per un anno sono stato nella fabi, e nel gennaio del ’71 mi sono iscritto alla cgil. Io, il mio cassiere e un altro siamo stati primi tre iscritti della cgil alla banca S. Paolo. Il cassiere aveva mezza chiave e l’agenzia chiudeva perché lui aveva mezza chiave; ecco perché poi gli scioperi vengono regolamentati!

Poi sono entrato nella fidac, e inizio a fare gli scioperi per i contratti di lavoro (andavamo in giro a chiudere le agenzie delle banche).

Per questioni di incompatibilità, mollo il sindacato ed entro nel partito.

In città si organizzano i comitati di quartiere, creati dai sindacati e dagli attivisti di partito. Io ero nel consiglio di Borgo Trento. In questi mesi si è creata quella che è stata la dirigenza democratica di sinistra della città.

Io sono tra quelli che, ad un certo punto, dal psiup entrano nel pci; mi mettono nella segreteria cittadina e poi entro in consiglio comunale. Il rapporto tra partito e sindacato allora era molto stretto; quando nell’ ’82 ero un funzionario, le decisioni sul sindacato venivano prese nel partito (è una cosa che non c’è più). In quel modo ho conosciuto bene la cgil della Lombardia.

Quando c’era nell’aria il decreto di S. Valentino sulla scala mobile, durante il governo Craxi, si decise in via Volturno che quella roba lì non doveva passare. Lama disse che non andava bene che con una riunione informale si prendesse una decisione. La cgil si ruppe perché il psi disse che andava bene, noi che non andava bene. Quello era l’’84.

Nell’’85 torno in cgil, nel Garda. In Lombardia, negli anni ’80, il territorio non è diviso in province, ma in comprensori a scavalco. Lì passo il periodo della ristrutturazione delle fabbriche. In Val Sabbia ci sono tutte le fabbriche calzaturiere che chiudono, a causa di quel processo generale che porta dalla grande fabbrica alla fabbrica diffusa: brutto termine, perché significa che entrare nelle piccole aziende è più difficile. Nelle aziende grandi il consiglio di fabbrica era più forte e aveva più autonomia, mentre in quelle piccole, organizzare la presenza del sindacato è complicato.

In quel periodo, come sindacalista, gestivo tutte le sfortune: cassa integrazione non sicura e licenziamenti senza complicazione.

Sul piano fisico, è cambiato il paesaggio: puoi vedere ancora i resti della cbo (Cotonificio bresciano cottolini), che era organizzata come una città fabbrica (c’era dentro anche l’asilo); c’era la falk, a Vobarno, dove ora hanno fatto una biblioteca.

Poi decidiamo di chiudere il comprensorio del Garda nell’’88, e rientro nella segreteria della camera di Brescia. Il compito che mi viene affidato è quello di seguire il residence Prealpino di Bovezzo. Non l’avevo cercata, ma lì è nata la mia vocazione a trattare il problema dell’immigrazione.

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ORIELLA: Io ho cominciato a lavorare nel ‘74, quando mi sono diplomata, e venivo da un’esperienza politica che mi aveva vista attiva nel movimento studentesco, erano gli anni politicamente vivaci. Il primo lavoro che ho avuto è stato da impiegata in un macello avicolo, dove ho lavorato una settimana. Praticamente lavoravo da sola, in un ufficio che era l’anticamera del macello, quindi un gelo, un odore, e avevo avuto il crollo dell’idea del lavoro; immagina che venivamo dall’idea che avremmo cambiato il mondo, c’erano queste attese, quindi ho provato una delusione feroce. Alla fine di quella settimana mi è arrivata notizia che nella fabbrica che avevo a pochi chilometri da casa mia cercavano personale. Ho fatto domanda e mi hanno chiamata. Mi sono trovata a fare l’impiegata in questa fabbrica, la Sei esplosivi industriali, nel settore civile, dove c’erano una cinquantina di impiegati e centoventi operai. La mia attenzione è stata immediatamente a che tipo di discussione c’era all’interno delle fabbriche, perché da studentessa, lo sguardo sulle fabbriche e l’incrocio con gli operai l’avevo avuto in particolare nel tragitto da casa mia a scuola. Io da Ghedi partivo in treno, e la carrozza del treno era luogo di discussione per gli operai che venivano a Brescia, molti a lavorare all’om. Prestavo ascolto alle discussioni, però io ero impiegata, e facevo parte di una compagine di impiegati che in realtà poco intrecciava le discussioni degli operai. Sono stata lì dodici anni e non ho mai visto impiegati che aderissero ad uno sciopero. Però ero in grande difficoltà, perché ogni volta che c’erano assemblee e discussioni avevo la pressione di tutti i miei colleghi nonché i direttori, che mi chiedevano di non andare alle assemblee e di non aderire alle iniziative che gli operai andavano programmando. Cosa che invece io ho fatto e nel corso di quest’esperienza ho incontrato il sindacato. Allora veniva un funzionario della fiom, anche se al tempo c’era l’flm, e da lì il mio avvicinamento al sindacato, organizzazione che è andata man mano svelandosi, anche perché io non avevo idea di che cosa fosse un’organizzazione sindacale, venendo dal movimento studentesco. Da lì, man mano, la mia scoperta di che cos’era un’organizzazione sindacale, come funzionava e che parte potevo avere io.

 

Un’altra domanda ad Oriella: cosa significa essere donna alla cgil? Che sforzi comporta, se li comporta, adeguarsi ad una determinata modalità di fare politica, ad un preciso linguaggio?

 

ORIELLA: Quando sono entrata io, diciamo, lo sguardo era assolutamente neutro. Il sindacato era un’organizzazione inventata dagli uomini, e quindi tutta regolata su modalità che funzionano per l’esperienza maschile, nella scelta delle riunioni, dei tempi etc. Quindi non era luogo facile alla frequentazione; devo dire però che dopo poco che avevo iniziato a frequentarlo, a partire dal ’74, si è andato aprendo. Intanto perché le donne si ponevano con una maggior determinazione e contestualmente anche il sindacato ha cominciato a guardare alle donne con un’apertura diversa rispetto al passato. Certo però che la frequentazione è sempre stata ostica, perché modalità e tempi erano organizzati sull’esperienza maschile, quindi ti dovevi adeguare.

Considera che una delle invenzioni a cui io ho concorso a Brescia, e si trattava di invenzioni che stavano nascendo anche a livello nazionale, è stato il coordinamento delle donne, luogo in cui le donne si trovavano all’interno del sindacato e si gestivano in maniera più autonoma che non le forme in cui si muoveva l’organizzazione nel suo insieme. É stato un grande passaggio perché ha permesso di mettersi in un luogo dove sperimentare con un agio maggiore e, contemporaneamente, sottrarsi a contesti pensati sull’esperienza maschile ha anche permesso che le donne fossero viste.

Anche se quella scelta aveva in sé anche dei rischi, perché mettersi in un luogo separato poteva significare qualcosa di utile per l’organizzazione: le donne sono lì e stanno dove stanno.

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In che occasione vi siete conosciuti e piaciuti?

 

ORIELLA: Il sindacato è spesso luogo d’incontro d’innamoramento. Marco infatti l’ho incontrato al sindacato. In realtà, venivamo da storie molto diverse: lui viene dal partito, quindi ha avuto una formazione diversa dalla mia, che invece venivo dal movimento del sindacato.

A livello sindacale, lui ha una storia pesante alle spalle: è sempre stato nella segreteria o in consiglio comunale; io sono uscita nell’86 quando si prefigurava la ristrutturazione delle fabbriche tessili: ho seguito le chiusure delle fabbriche degli anni ’90, ho lavorato come metalmeccanica e poi nel campo del commercio.

Questo aveva riflessi sulle nostre posizioni politiche, e durante le assemblee ci trovavamo sempre in conflitto, quindi inizialmente non ci piacevamo gran che.

Ci siamo accorti l’uno dall’altro durante l’occasione in cui le posizioni politiche mie e di alcune compagne erano state messe pesantemente in discussione; era stato un attacco ferocissimo, tanto che alcune sono state trasferite dal tessile all’alimentare, io compresa.

Considera che era il ’90, e in quel periodo molte compagne volevano far vivere i punti di vista del femminile. Il nostro gruppo di Brescia era molto autorevole, da lì il tentativo da parte di una buona parte di sindacalisti di far coincidere la nostra posizione col fatto che ambivamo al potere, quando in realtà il nostro intento non era altro che quello di far valere i nostri diritti e le nostre istanze.

Marco ha assunto la nostra difesa, non perché condividesse la nostra posizione, ma perché pensava che la nostra posizione dovesse essere rispettata e presa in considerazione.

In quel momento l’ho guardato con occhi diversi, non più come l’avversario politico, ma qualcuno che faceva vivere la libertà d’espressione al di là delle differenze. Lì forse ho capito che in realtà non avevamo concezioni troppo diverse di come volevamo che fosse il sindacato.

 

MARCO: L’ho conosciuta quando Pizzinato era segretario, mi aveva colpito il suo viso.

Nella battaglia interna alla cgil dei primi anni ’90 eravamo su sponde opposte. Mi ha colpito la sua sofferenza in un’aspra discussione sull’esperienza politica delle donne nel suo sindacato di categoria, che si voleva chiudere per via amministrativa. Sarà per il culto del diritto delle minoranze, al quale ho sempre creduto come naturale «bastian contrario», ma mi impressionò il dolore che traspariva nella sua difficile autodifesa dentro questa lotta politica molto dura.

L’incapacità di tutela delle sue posizioni da parte delle compagne che avrebbero dovuto sostenerle, forse a causa della natura «di sinistra» del contendere, mi ricordò pagine di storia ben più drammatiche, ma simili, dell’autoritarismo di sinistra.

Ho cominciato così a volerle bene, ma non ho mutato per questo le mie collocazioni, sempre opposte alle sue.   

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Per capire la cgil di ieri e quella di oggi mi sembra importante passare per la crisi culminata con la marcia dei quarantamila e la definitiva capitolazione a Mirafiori. La sensazione che ho io, da persona che conosce quegli anni solo indirettamente, è che il periodo dal ’75 all’ ’80 sia stato molto intenso ma nello stesso tempo molto rapido; mi chiedo quale sia stata la vostra percezione della crisi al tempo, se si sia trattato di un epilogo atteso oppure che non ci sia stato il tempo di realizzare cosa stava accadendo.

Nello stesso tempo, la cgil è riuscita a rinnovarsi a partire da questo momento storico? Se sì, in che direzione?

 

MARCO: Io allora ero al partito; eravamo in piazza tutti i giorni con le manifestazioni operaie. Il dato secondo me preminente per la collocazione che avevo è che sono stati gli anni del terrorismo e delle brigate rosse e questo comporta grandissimi problemi per l’organizzazione sindacale, che nel’77 viene attaccata direttamente dal movimento di autonomia: Lama viene cacciato dall’università di Roma, ma da una manifestazione che chiedeva che le armi restassero fuori dalle università. Quindi l’attacco alla funzione nazionale del sindacato era evidentemente in autonomia. Vero o non vero il teorema Calogero, sta di fatto che l’attacco delle br era tutto contro quelli che puntano alle riforme, che sono un elemento di congiunzione e non di rottura. Non vengono assassinati quelli della destra democristiana, ma i riformisti democristiani, oppure Guido Rossi. Noi in quel periodo eravamo in piazza non dico un giorno sì e uno no, ma ogni  quindici giorni dall’assassinio di Aldo Moro. L’album di famiglia, che questo fosse terrorismo rosso io non ho mai avuto problemi ad ammetterlo; resta ancora un mistero l’intreccio tra servizi segreti, gladio, Moretti etc, sono pagine non scritte. Quell’intreccio costringeva chi spingeva la battaglia democratica ad un lavoro di dibattito. Il problema vero era combattere questa battaglia anche con la dc, che in quel periodo aveva boicottato un percorso di riforme necessarie possibili. L’onda lunga degli scioperi del ’71 porta al risultato elettorale del ’75-’76, quindi l’affermazione del pci. É degli anni seguenti la smentita della possibilità di una storia sociale diversa, ma già in quel periodo c’era un sentimento di delusione e sconfitta. Il riflusso era la difficoltà a spostare con l’iniziativa democratica le riforme che risultavano necessarie.

La marcia dei quarantamila non era assolutamente inattesa, ma era un attacco preciso all’organizzazione sindacale, ai consigli, sfruttando contraddizione interne. Come Romiti ha ricordato, i tre sindacati di Melfi fanno ridere di fronte alle questioni della connivenza di alcuni reparti o delegati sindacali con organizzazioni come quella di Prima Linea. Le contraddizioni c’erano, solo che la risposta che la fiat con Romiti dà è una risposta autoritaria.

Sembra addirittura approfittare dell’emergenza democratica del terrorismo per dare un colpo micidiale alle condizioni dei lavoratori. Il tutto dentro un processo di riorganizzazione del sistema industriale che s’impone. Il problema vero è che è stato fatto contro il potere dell’organizzazione sindacale. Se faccio il paragone con la crisi di oggi, tutti i mesi nella provincia di Brescia sono stati fatti una trentina di contratti di solidarietà, che vuol dire meno lavoro, meno salario, ma garanzia del posto di lavoro. Lì ci fu lo sterminio dei posti di lavoro, licenziamenti, una sconfitta non inattesa.

Tutto il processo di ristrutturazione del sistema industriale avviene con questo timbro di sconfitta del movimento sindacale. Sono convinto che nella storia sindacale italiana ancor oggi la Fiat sia il crocevia dei rapporti di forza che ci sono.

I padroni usano sempre il simbolico in maniera mortificante, mentre noi, il movimento sindacale e la sinistra politica, tendiamo quasi ad isolare le punte più esposte dello scontro, addebitandogli posizioni estremistiche. Cosa che, se nessuno dà una risposta, quella risposta la danno gli altri.

Perennemente ci si pone come questione, nella battaglia politica e sindacale, se si vuole tutelare e rappresentare il lavoro dipendente.

Loro usano il simbolico: quarantamila impiegati, loro li hanno buttati fuori e questi hanno sfilato. Da lì, si è scritto, è cominciata un’altra storia. Perché? Perché si è voluta cominciare un’altra storia, non è che quei quarantamila lì in sé.

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Diciamo che la marcia dei quarantamila è stato l’epilogo di una situazione politica che stava già prendendo una determinata piega da anni. Ovviamente quest’evento va considerato anche all’interno del cambiamento economico in atto: il progressivo decentramento delle fabbriche…

 

MARCO: É a quel tempo che si forma il Craxi-Andreotti-Forlani; come al solito i fenomeni sono tra loro collegati. Però la sconfitta della politica e della solidarietà nazionale di Berlinguer, che aveva l’idea di una trasformazione democratica, trova una risposta che aveva pretese presidenzialiste e autoritarie, perché Craxi aveva questa impronta. Non per niente, di lui diffidava grande parte del mondo del lavoro dipendente. Si esce dall’empasse, quindi, con un’impostazione di questo genere.

 

Collegandosi a questo tema, vi domando: oggi è ancora possibile che l’ideologia faccia da collante politico e sociale, all’interno di un sindacato come la cgil, oppure bisogna trovare altre strade, considerare altri aspetti nella relazione con i lavoratori…?

 

MARCO: Allora, per me l’ideologia è la definizione di Marx, quella della falsa coscienza. L’ideologia viene usata, è un sistema di idee. L’ideologia oggi la fa alla grande: in un periodo di crisi produttiva con fabbriche che stanno ferme otto mesi all’anno come l’iveco, il  direttore generale della Fiat dice che il problema che abbiamo è quello della produttività. Quindi proprio una roba ideologica! A Marchionne risponde Cremaschi e dice che ci vuole conflitto. I lavoratori non ti chiedono conflitto, ma di essere rappresentati, tutelati e che li si aiuti a risolvere i loro problemi.

La lotta sindacale è per affermare le proprie piattaforme ed esigenze.

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Nello stesso tempo è innegabile che la cgil fosse caratterizzata da forti valori etici e politici, ad esempio basti pensare il forte legame tra sindacato e partito di cui parlavi prima. Lasciamo da parte la parola «ideologia», anche se nella mia domanda essa non era considerata solo nella sua accezione negativa, e parliamo di ideali.

 

MARCO: Funzionava come ti dicevo fino a Trentin. Trentin scioglie le componenti di partito e rilancia alla grande l’idea della cgil come soggetto politico autonomo, con un suo progetto. É lì che scrive il programma fondamentale: idee di riferimento che devono valere per tutti quelli che accettano di star lì dentro. É lì l’autonomia è un sistema di idee che non è falso, come l’ideologia.

Un’organizzazione come la nostra deve avere delle idee di riferimento che sono quelle di una volta, che però vanno declinate nel luogo e non vanno perse una rispetto all’altra. L’uguaglianza ha un percorso carsico: per dieci anni viene attaccata perché ha un’accezione uguale ad egualitarismo, poi viene rivalutata perché ci si rende conto che siamo in una situazione di biforcazione dei redditi, quindi di disuguaglianza. Avere un sistema di idee e avere un’attività che mette continuamente in collegamento la vita reale e i problemi reali dei lavoratori e delle lavoratrici con le battaglie che fai.

Perché se l’organizzazione sindacale prende la sua linea e le sue scelte dalla situazione del rapporto tra i partiti, per esempio, è uno schema che può funzionare, ma non ti porta molto lontano.

 

Una posizione autonoma e trasversale rispetto ai partiti nel dibattito politico, può voler dire per la cgil maggiori difficoltà ad affrontare determinate situazioni: si pensi alla questione dei delegati leghisti in Veneto, fenomeno piuttosto recente e che merita secondo me di essere considerato.

 

MARCO: Non è mica vero che si tratta di un fenomeno nuovo. Negli anni ’50, quanti in cgil votavano dc! Nella dc c’era un anti-comunismo micidiale.

 

ORIELLA: L’intolleranza e la riduzione dell’altro sono idee che ci sono sempre state. Oggi il nuovo fenomeno è la Lega; sono formazioni che nascono e si costituiscono in questo modo.

 

MARCO: Sul rapporto Lega-lavoratori, siccome a Brescia l’abbiamo analizzato fin dall’inizio, da un convegno dell’’86 sullo statuto della Lega, la mia convinzione è che ha una natura nazista. Perché loro ai lavoratori danno ragione; cioè, mentre i riformisti dicono ai lavoratori che c’è del nuovo, e loro devono fare le pieghe etc, su questo i leghisti non si pronunciano e danno loro ragione: «Siete trattati male, la colpa è dei negri e di Roma ladrona».

Se la sinistra politica, mica quella minoritaria, quella grande, desse ragione ai lavoratori, poi potrebbe fare tutte le mediazioni. Per esempio in Germania hanno un rapporto più organico con il sindacato, non è che non fanno le pieghe neanche lì (a parte che è una condizione economica, sociale e statale completamente diversa). Nessuno guarda questo fatto molto semplice: loro danno ragione ai lavoratori.

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Il fenomeno della lega, infatti dicevo, va tenuto presente perché la cgil possa fare una riflessione su di sé, sulle proprie posizioni e mancanze. É un fenomeno che va valutato nella sua complessità.

 

MARCO: Loro sono un nemico diretto per i lavoratori.

 

ORIELLA: Le loro risposte sono talmente becere che, per chi ha un disegno sociale non è possibile neppure un lavoro di contrasto. Eppure è pericolosissimo.

 

MARCO: Bisogna tener presente che la Lega dentro ha il sentimento della ribellione, non quello dell’acquiescenza.

Mi dicevano che Capra, assessore ai servizi sociali, sulla questione dei Sinti, ha scavalcato a destra la Lega! C’è il tentativo di rincorrere la Lega su questo terreno, e questo è un errore micidiale. Perché poi Gallizioli, il capogruppo della Lega, gli ha risposto: «Fate pure, poi tanto i voti li prendiamo noi!» .

La cosa vera è che non c’è nessun soggetto politico che dica: «Il mestiere che voglio fare è rappresentare il lavoratore dipendente, precario». La sinistra rappresenta sempre gli interessi generali

 

ORIELLA: La cosa importante, ma sempre più difficile da portare avanti oggi, è quella di incontrare, ascoltare quali sono le istanze, i problemi e i vissuti di chi oggi fa fatica a trovare il lavoro, e se lo trova si sente banalizzato.

 

MARCO: C’è il collegamento con la storia dell’interclassismo: vale il territorio, non vale il rapporto datore di lavoro/dipendente, perché l’interesse del lavoratore dipendente e del datore di lavoro è in parte secondario rispetto al riscontro territoriale, e questo è un altro elemento che rimanda alla vecchia dc.

Queste cose le so: da piccolo  mi hanno tirato su a pane e De Gasperi!

C’è un’ignoranza della condizione dei lavoratori, soprattutto di quelli più poveri, che certamente crea un ambiente favorevole al meccanismo reazionario.

 

ORIELLA: Mancano dati di realtà; è difficile che le situazioni di povertà più grosse vengano messe in parole. Quindi non hai questo lavoro che mette al mondo il mondo, cioè la realtà va messa al mondo, occorrerebbe un’attenzione sulla condizione operaia e sulla realtà del lavoro dipendente che oggi manca. É una realtà diffusissima, quella di gente che vive con mille euro, eppure questa realtà non viene svelata.

Al di là di tutto, il lavoro sindacale è essenzialmente uno che ha voglia di mettersi lì ed ascoltare quelli che lavorano, che ti dicono i loro problemi e vedi come costruire le risposte.

Questa vicenda attuale, ad esempio, della fiat con la fiom che viene pesantemente attaccata perché dice no alla messa in discussione del diritto di sciopero, che è una libertà sancita dalla costituzione.

Partiamo da lì: poi tutte le altre argomentazioni, tutti gli altri contenuti dell’accordo che hanno firmato le altre organizzazioni sindacali, tra l’altro imposto dalla fiat e che loro hanno subito.

Detto questo, chi è che viene attaccato? Mica la fiat, perché mette in discussione la costituzione, o la libertà sindacale sancita dallo Statuto etc. C’è un attacco alla fiom che dice: «io non sono nella condizione di firmare una cosa così».

 

MARCO: La fabbrica che sta costruendo Marchionne è di una rigidità folle; quindi lui se la prende col diritto di sciopero e con la malattia, ma, in realtà lui sta imponendo la pausa a fine turno.

Il peggioramento della condizione materiale viene assolutamente sottovalutato. Non si riesce a far valere la condizione reale delle persone.

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Il problema infatti, riprendendo la questione della Lega, sta proprio qui: nel momento in cui la Lega fa mostra di affrontare i problemi delle persone in maniera reale, facendo in modo che la gente ci creda e si senta effettivamente ascoltata, in termini apparentemente a-politici, quando in realtà sono tutt’altro che a-politici, allora la cgil deve sì fare i conti con questo fenomeno, capire come sta cambiando la realtà e se stessa in relazione con questa realtà. Deve chiedersi perché risposte così facili facciano presa; in particolare il fatto che la cgil si occupi del problema dell’immigrazione e debba convivere al proprio interno con dei leghisti è un problema che si farà sentire.

 

MARCO: Il problema sono i dirigenti, che aprono a delle istanze che la Lega propone. La contraddizione con i lavoratori noi la affrontiamo; lì dipende dai territori.

 

ORIELLA: Da che c’è il sindacato, da che mondo è mondo c’è sempre una contraddizione tra chi vive una condizione schiacciato dalla materialità e chi gli prospetta una via d’uscita; perché prevalgono anche gli egoismi, le situazioni personali. Il problema è se tu sei capace di far veder loro un movimento possibile che apra a delle risposte, che riscatti davvero una condizione. Oggi hai un problema in più, perché la Lega ti si mette di mezzo. Soprattutto nel campo degli esuberi : magari la Lega prospetta l’idea che la via per salvarsi sia quella del «ci salviamo noi». Ti trovi sempre in dinamiche dove le contraddizioni si fanno parlanti, il problema è se tu riesci ad accoglierle.

 

MARCO: Bisogna non dimenticarsi che la Lega ha fallito due volte nel tentativo di fare il sindacato. Io dico sempre che sono i partiti a prendersi i voti, non è mica il sindacato che fa dare i voti. Avendo fatto il lavoro da tutti e due i versanti, del partito e del sindacato, il sindacato i voti non li ha mia dati; il sindacato che si occupa di voti per me è come quando i preti parlano di sesso.

A Brescia abbiamo il 70% che vota a destra; faccio notare che i voti, in una condizione operaia praticamente identica viste le difficoltà, sono diversissimi in Italia. Ha a che fare con quella che una  volta veniva chiamata la formazione economica e sociale: il piccolo paese, la piccola proprietà, la piccola parrocchia, la piccola industria etc . Poi c’è il fatto che i partiti costruttori di un sistema di idee sono ormai anche a sinistra i comitati elettorali. C’è un altro fatto che spiega questo localismo: i sindaci fanno quello che vogliono. Il  sindaco di Adro fa quello che vuole grazie alla legge Bassanini; il consiglio comunale non conta più niente, gli assessori li nomina lui, il comitato regionale di controllo non c’è più; l’unico posto dove lo puoi portare a smentire le delibere che fa è il tribunale e noi della Camera del lavoro di Brescia ne abbiamo portati tanti e hanno perso tutte le cause, ma poi loro ne fanno delle altre. Bisogna andare dal prefetto, ma il prefetto è un funzionario del ministero degli interni! Allora non solo a livello nazionale, ma c’è in crisi anche il funzionamento delle istituzioni democratiche locali. Il sindaco ha potere assoluto e un sindaco può essere eletto con il 24% di quelli che vanno a votare, perché se ci sono 4 o 5 liste nei comuni piccoli, uno con il 24% diventa sindaco. Di quelli che vanno a votare, quindi magari prende il 15% del reale, e comanda per i suoi anni e fa quello che vuole.

Che giro vuoi che ci sia se a Manerbio l’altro giorno in una fabbrica in crisi hanno chiesto di poter fare l’assemblea dei lavoratori e, dato che in azienda non era possibile farla, gli hanno chiesto 500 euro? Questa è la realtà quotidiana.

Se usano il termine telecrazia è proprio perché l’unico sistema che forma le idee ormai è la televisione. Questo denuncia una difficoltà nostra, ma ci sono dei meccanismi nuovi. La sinistra è cresciuta quando c’era la speranza di cambiare le cose.

 

ORIELLA: Il problema reale oggi è che manca un punto unificante per la cgil, come può essere stato l’articolo 18.

Al posto del senso del collettivo si sta verificando un’affermazione della soggettività che spesso scivola nell’individualismo; se da una parte quest’individualismo talvolta può essere visto dal lavoratore come una forma di libertà, in realtà allontana sempre di più dall’idea di solidarietà e collaborazione.

Per farti capire con quanta velocità sono cambiate le cose, ti racconto questo episodio: quando sono entrata nuovamente nel sindacato, era forse il ‘97 , ero in una fabbrica dove si voleva inserire un handicappata. Considera che per legge il collocamento da parte dell’azienda è obbligatorio, ma il padrone ne inventava di tutte. Tra l’altro c’è una legge che garantisce sconti retributivi ai datori di lavoro che assumono una persona con delle disabilità.

In realtà lo sciopero era stato organizzato non tanto per il collocamento, che veniva dato per scontato, ma perché il padrone trovasse una mansione idonea al suo handicap. Lo sciopero aveva avuto successo, e la ragazza era stata inserita nella fabbrica senza problemi.

Sono tornata in quella fabbrica due anni fa e ho trovato gli stessi operai, che avevano combattuto perché quest’operaia fosse inserita, incazzati neri con lei e coalizzati perché venisse espulsa. Si lamentavano del rallentamento dei ritmi e dell’incapacità a svolgere il lavoro, e quando io tentavo di farli ragionare sul fatto che, solo dieci anni prima avessero lottato per il suo inserimento, sembrava che questi non capissero la contraddizione di cui parlavo loro. A distanza di dieci anni, gli operai erano furibondi con l’altra operaia, invece che con il padrone che effettivamente non aveva trovato una mansione idonea al suo handicap. E quando io domandavo loro perché non chiedessero che venisse messa in una mansione idonea, era chiaro che lo spirito era diverso, non c’era neanche la volontà di ascolto. L’individualismo è prevalso sull’idea della relazione, mentre una volta era proprio la dinamica relazionale che salvava.

Una volta, se c’era un provvedimento contro uno si scioperava, ora, all’ opposto, la persona viene isolata per poterne trarre vantaggi personali.

Eppure non è tutta ottusità; il problema sta nel venir meno del collettivo, che porta a situazioni di solitudine. La speranza orienta i comportamenti, ma se questa manca, è chiaro che le prospettive cambiano, e oggi il clima è disorientante.

Il leghismo si è insinuato proprio dove viene meno il politico.

Io e Delfina Lusiardi ci siamo occupate delle interviste alle operaie del tessile di Manerbio che hanno vissuto il declino degli anni ’90, e tentato di rispondere con scioperi molto importanti; interviste che sono state raccolte nel libro «Tessendo abiti e strategie. Esperienze e sentimenti di operaie bresciane» che vuole offrire uno spaccato proprio sulla situazione del tessile nel bresciano.

 

Partendo dal racconto di Oriella, mi piacerebbe soffermarmi sul cambiamento nel modo di vivere l’ambiente di lavoro. Come la cgil ha risposto a questo cambiamento? Oriella citava l’articolo 18, e a me è venuta in mente la marcia di qualche anno fa che ha visto la cgil nel ruolo di supplenza del potere politico, di fronte all’immobilismo dei partiti. Come spiegarsi la difficoltà attuale, dopo così pochi anni, di fronte ad una Finanziaria che attacca deliberatamente i lavoratori dipendenti?

 

MARCO: In realtà anche la marcia in difesa dell’articolo 18 è riuscita a difendere solo formalmente lo Statuto dei lavoratori; negli effetti è stato messo in atto un processo di svuotamento dei diritti dei lavoratori più sotterraneo, anche se non troppo, che ha aggirato, tramite la riaffermazione formale dell’articolo 18, il problema reale.

Se pensi al caso attuale di Pomigliano, e alla proposte di Marchionne sul nuovo modello di fabbrica, si capisce che pochi riscontri possa aver avuto quel momento. Si tratta ancora una volta del simbolico, che nasconde la realtà dei fatti.

 

OTTOBRE 2010

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