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02
Ottobre 2010

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Sessualità e famiglia oggi

SESSUALITA’ SPEZZATA

Per una critica sessuale del lavoro

Giuditta Bettinelli

 

All’interno della sezione «sessualità e famiglia oggi», vorrei proporre una discussione, prendendo spunto da alcuni fatti inerenti a ciò che è stato coloritamente soprannominato «porno-politica», nella speranza di poter trarre, da queste vicende di spettacolar-politik, dei concetti, per una riflessione analitica più ampia sui rapporti di genere e sulla sessualità nel nostro contemporaneo.

Lo spunto nasce dalla lettura di un articolo di Ida Dominjanni comparso sul Manifesto.

É passato più di un anno. Era il 23/6/2009, era l’epoca, anzi, diciamo «il tempo» delle escort, (quasi parafrasando il titolo del film cult che si sforzava di cogliere l’immaginario collettivo di una generazione).

In seguito alle dichiarazioni di numerose prostitute (che in quest’ambiente si chiamano «escort») in merito alla condotta morale e pubblica del Presidente del consiglio, Ida Domnijianni, assunse una presa di posizione peculiare, che merita di essere discussa, perché ci fornisce l’occasione per sollevare e formulare delle questioni importanti rispetto alla condizione femminile nell’epoca dello spettacolo.

Durante un’intervista con Patrizia D’addario che le aveva confidato le vicende di abbandono e di violenza che l’avevano indotta a prostituirsi, Dominijianni sembrava essere molto colpita da come certe donne arrivino a considerare una carriera come un'altra «rendere contabile e negoziabile qualsiasi prestazione del corpo». Un principio che ai suoi occhi sembrerebbe far vacillare l’eredità delle lotte femministe degli anni Settanta, che la stessa Dominijanni ha d’altra parte condiviso.

Non senza indignazione ella infatti si domanda:

 «[…]. Ora, è dagli anni 80 che il movimento per i diritti delle prostitute rivendica - senza convincermi, aggiungo - che fare sesso a pagamento, ovvero vendere il proprio corpo, è un lavoro come un altro, da negoziare come si fa con qualunque lavoro. Ma come siamo arrivati a rendere contabile e negoziabile qualsiasi prestazione del corpo, un sorriso, una presenza a cena, un ballo a una festa, un'impronta che fa immagine? Mansioni come altre, sembra di sentir parlare gli operai che negli anni '70 ti spiegavano la catena di montaggio.

Quale cambiamento culturale ha reso il corpo, per queste donne, simile a una macchina, e alienato come una macchina?».

La nostra epoca sarebbe dunque segnata, secondo la prospettiva della giornalista del Manifesto, dall’avvento di un cambiamento culturale, che stravolgendo e scardinando i principi dell’etica, ha reso legittimo l’uso utilitaristico e mercificato del corpo, nella fattispecie, del corpo femminile.

 

Per comprenderlo, cerchiamo di analizzare più attentamente il suo ragionamento. L’atto di mettere in vendita la propria presenza ed il proprio corpo, stabilendo un prezzo ad ogni sua parte, avrebbe sancito, secondo questa visione, il trionfo dell’economia sulla vita, rendendo «certe» donne «alienate» e privandole del proprio essere specifico. Secondo Dominijanni, il quid che rende l’essere umano tale e che rappresenterebbe l’attributo coessenziale alla definizione della soggettività è il desiderio.

La concezione del soggetto sottesa a questo tipo di analisi sarebbe quindi da intendersi nei termini di essere umano come «essere desiderante».

Poiché tuttavia la prostituta intrattiene con il cliente una relazione retta esclusivamente da una dinamica materialisticamente orientata, nel rapporto sessuale a pagamento la dimensione del desiderio sarebbe invece destinata a scomparire: il filo rosso di tutto il ragionamento è che non il desiderio, ma una contropartita economica rappresenterebbe la dinamica condottiera di questo tipo di rapporto, che pertanto diventa alienato. E difatti, nell’analisi proposta dalla Dominijanni l’accostamento con il mondo operaio non si esaurisce ma prosegue: come l’operaio nella prospettiva marxista è alienato e vive la separazione dal prodotto del suo lavoro, così farebbe la prostituta, che cedendo e mercificando il proprio corpo, dimostrerebbe di muoversi all’interno di una dinamica «cosificata».

La tesi che associa prestazioni sessuali a pagamento e alienazione, assume quindi che la prostituta, avendo perso la propria soggettività, non rappresenti altro che un corpo privo di desiderio, adibito meramente alla penetrazione passiva. Il principio, di poter disporre del proprio corpo tanto da stabilire un prezzo alle proprie prestazioni, è quanto a cui si richiamano, al contrario, le prostitute appartenenti ad alcuni movimenti fra cui il «Comitato per i diritti civili delle prostitute» fondato nel 1982, che ha fra i suoi principali esponenti Pia Covre, attivista politica e «sex worker» professionista.

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Nel preambolo al loro lucido Manifesto alcune prostitute dichiaravano:

«[…]. Noi non regaliamo niente. E non è perché riceviamo del denaro in cambio di prestazioni sessuali che diventiamo delle schiave.

Sia abolizionisti che proibizionisti ci considerano delle alienate, che non sanno quello che fanno, che dovrebbero far altro nella propria vita, e stupidaggini di questo genere. Ci considerano delle vittime incapaci di prendere coscienza perfino della loro alienazione, il che spiegherebbe come mai non riusciamo a smettere di prostituirci […].

No, noi non abbiamo papponi. Non siamo state violentate da piccole, né dopo. Non siamo tossicodipendenti. Non siamo mai state costrette a prostituirci. Non soffriamo di sindrome post-traumatica. No, non siamo infelici.

Sì, abbiamo una vita sentimentale. Abbiamo amiche e amanti. Lottiamo contro le discriminazioni ed esercitiamo un mestiere stigmatizzato. Vogliamo gli stessi diritti degli altri cittadini».

(Nikita e Shaffauser).

L’alienazione costituisce un’ipotesi ermeneutica di grande fascino e di forte presa collettiva. Eppure, leggendo queste parole, possiamo comprendere come la prostituzione sia una realtà polifonica ed eterogenea. Non trattandosi di un fenomeno unitario difficilmente possiamo applicarvi un’univoca categoria interpretativa, quasi per trovare una corroborazione empirica alle nostre simpatie teoretiche, poiché così facendo non finiamo che strozzare le molteplici voci che in realtà lo costituiscono.

Di fronte all’etichetta di «alienate» che Dominijianni attribuisce senza esitazione a «certe» donne, facendo rientrare fra queste «certe» sia le escort dell’upper class che tutte coloro che si prostituiscono volontariamente, mi chiedo: quanta violenza può esserci nell'affermare che tutte le prostitute, non essendo desideranti, non sono soggetti?

Il problema al quale ci richiamano invece, le voci appartenenti ai Comitati non è scontato e riguarda un dato molto concreto: l’assoluta mancanza di tutela nei confronti di chi ha deciso di lavorare vendendo sesso per denaro; una privazione a cui si accompagna il mancato riconoscimento della propria persona da parte dello Stato e della società civile, comprese le femministe a cui Dominijanni appartiene. Sebbene nel suo articolo ella abbia il pregio di sottolineare alcuni aspetti estremamente rilevanti che caratterizzano la dimensione politica del nostro contemporaneo, quello che intendo criticarle, è che mi sembra che quest’analisi produca l’effetto di ignorare una realtà decisivamente presente nel nostro territorio e in Europa, sovrapponendo la prostituzione in generale a un tipo particolare di prostituzione, praticata in un determinato contesto. Nella concezione teoretica che Dominijanni ci presenta, il legame fra prostituzione e alienazione è deterministico e vale sia per le prostitute dello spettacolo berlusconiano, sia per chi si prostituisce al di fuori di questa rete di relazioni e di quest’ambiente.

Ritengo invece che per analizzare correttamente il fenomeno della prostituzione occorra prestare molta attenzione a non confondere il mondo delle escort, delle veline e del loro spettacolo che implica anche delle forme di prostituzione, con la prostituzione tout court, fenomeno che naturalmente esisteva già ben prima dell’avvento dell’impero televisivo berlusconiano e che Dominijanni sembra invece sovrapporre.

Il mondo della prostituzione costituisce una realtà profondamente eterogenea dove esistono già delle distinzioni determinanti fra prostituzione libera e coatta, come all’interno di ambedue questi schieramenti.

Non soltanto un’antropologia filosofica applicata a questi due casi ci può consentire di leggere le diverse implicazioni che fanno, di questi fenomeni, due fenomeni distinti e peculiari; ma possiamo rilevare come, sia per chi sia costretto sia per chi non lo sia, abbiamo da un lato, uno Stato che usa la mano dura e la politica d’importazione americana della «tolleranza zero», mentre dall’altra parte, abbiamo un regime tollerante e permissivo nei confronti della prostituzione dell’upper class e dei propri accoliti.

Al dispositivo analitico che sovrappone il mondo spettacolare e porno politico delle escort alla prostituzione che noi tutti conosciamo, sembrerebbe contrario anche Galimberti che in proposito ci dice:

«Puttane sono rimaste solo le donne migranti e non, sbattute sulla strada dai circuiti malavitosi ed esposte quotidianamente alla sopraffazione, all'umiliazione, al rischio non troppo remoto di essere ammazzate. Le signorine che frequentano i palazzi del potere o gli ambienti della buona società dello spettacolo o degli affari sono più elegantemente hostess, donne-immagine, escort, accompagnatrici. Basta la parola e il gioco è fatto: si lava e si leva l'onta».

Il politically correct del concetto di «escort» è inverosimile e fastidioso, e costituisce l’indicatore di un fatto sociale che come ho già scritto, meriterebbe di essere analizzato più approfonditamente: il ruolo e il modello femminile all’interno del potentato televisivo di Berlusconi. Galimberti dimostra inoltre di aver ragione a contraddistinguere quest’ultimo dalla prostituzione di strada, sottolineando giustamente, i rischi connessi a questo tipo di vita.

Ciò nonostante, è platonico e illusorio ritenere che sulla strada, tutte le donne vi finiscano in quanto sfruttate o perché affamate e prive di alternative. La realtà della prostituzione lontana dagli ambienti delle escort, ci dimostra che è possibile incontrare anche chi vuole accumulare cifre copiose nel modo più semplice e rapido possibile facendo fruttare ciò che per natura si possiede. Prostituirsi per coloro che scelgono di farlo, può essere un modo per cambiare stile e tenore di vita, rifiutando impieghi massacranti e scarsamente retribuiti nei paesi di origine, o per guadagnare di più lavorando di meno. In questo senso la prostituzione si configurerebbe come l'appropriazione di un settore economico per migliorare la propria posizione di partenza (M. Nikita., e T. Schaffauser, 2009) e per garantirsi uno stile di vita altrimenti precluso. Che ci piaccia o meno dunque, non soltanto le prostitute dei Comitati costituiscono, parimenti alle ragazze vittime dello sfruttamento, i soggetti agenti della prostituzione stessa, che in quanto tali, non possono essere ignorati; ma propongono al contempo una riflessione teorica sul proprio mestiere e sulla propria condizione, che rappresenta per ciò stesso, una tappa inedita all’interno del processo di produzione collettiva del sapere.

In una lettera aperta alle «sorelle femministe» del 3 marzo 2006, il gruppo attivista francese Le putes, un movimento che, analogamente al Comitato fondato da Pia Covre, si batte per il riconoscimento dei diritti civili alle prostitute scriveva:

«[…]. La nostra esclusione è frutto di un malinteso. La maggior parte delle femministe ci considera vittime della prostituzione, mentre noi ci consideriamo vittime delle cattive condizioni in cui lavoriamo».

A questo punto può apparirci chiaro che il malessere di cui parlano i Comitati è generato da una condizione precaria, tale in virtù di precisi processi politici in ragione dei quali lo Stato italiano si occupa delle prostitute (ma attenzione non delle escort) secondo le sue mai smentite tradizioni controriformistiche, ovvero affidandosi unicamente, ai metodi repressivi e polizieschi. La prostituta, proprio in quanto non riconosciuta, costituisce un'entità visibile per lo Stato esclusivamente come mero corpo biologico, da contare e da sanzionare, ma invisibile in quanto persona. A differenza della prostituta di quartiere del Novecento, nella nostra epoca la prostituta è anonima e clandestina, senza nome né storia, non ha più storia, poiché la sua storia è stata massificata. Il problema quindi è che la donna di cui parliamo non è un soggetto nella sua irriducibile specificità, un soggetto in carne e ossa e pensiero, ma è una nigeriana, un'albanese, una rumena. É un individuo generico, per il quale l’appartenenza alla società è vana, in quanto si tratta di una appartenenza alla dimensione sociale che non genera inclusione, ma che deriva alla prostituta esclusivamente dal suo essere fastidiosamente visibile. Questo è un aspetto cruciale: la donna in questione è considerata dallo Stato soltanto in quanto oggetto da sanzionare e da reprimere e sarà la sua marginalità rispetto alla norma generare una condizione esistenziale fuori norma, e quindi sovversiva. Introducendo di recente, il «Reato di prostituzione», possiamo comprendere come sia lo Stato stesso a lasciare sussistere, e per ciò stesso a riprodurre, quella condizione di devianza e di conseguenza di emarginazione, nella quale versa la prostituta. Non è infatti la natura ma è lo Stato a determinare che prostituirsi costituisca un atto deviante non riconoscendo a chi lo fa, alcuna tutela né diritto.

Pertanto, per chi si prostituisce al di fuori della cerchia delle escort e delle puttane dell’upper class, la drammaticità e la sofferenza esperite sul luogo di lavoro, rimandano al tentativo «ontologico» di compiere il passaggio fondamentale fra l'avere un corpo e il compimento di quel salto che consente di poter essere un corpo, con i riconoscimenti civili e giuridici a cui tale affermazione di fatto ci richiama.

Da questo punto di vista, il tentativo da parte di certe prostitute di permanere, davanti alla volontà sociale di annientamento, può dunque essere letto come una scelta incarnata di resistenza. Permanere davanti a una società che ti intende annullare, rappresenta la protesta, non conforme e dissonante del singolo, contro quelle forze che lo vogliono sopraffare.

Ci può far riflettere il fatto che attualmente, sul piano mediatico, un piano che notoriamente riserva largo spazio al tema dedicato alla sicurezza femminile nei contesti urbani, lo stupro di una prostituta non ha alcuna rilevanza. Lo stupro di una prostituta non è ancora riconosciuto nella sua gravità e spesso resta impunito, sminuito dal fatto che, in fin dei conti, si tratta pur sempre di una «puttana». Gli scippi, rapine, violenze e stupri avvengono in maniera particolarmente efferata proprio poiché in quanto «puttane», le prostitute non sono considerate integralmente delle persone, e il loro valore umano e sociale è ritenuto pressoché nullo.

Tuttavia, finché le prostitute non saranno concepite come soggetti a tutti gli effetti, nelle loro vite, nelle loro identità e nel loro lavoro, mi pare difficile che sarà possibile riconoscere e condannare le violenze e le barbarie perpetrate nei loro confronti.

Nell’articolato manifesto politico promosso dai comitati troviamo fra le varie rivendicazioni l’obiettivo di combattere l’immagine stereotipata della prostituta. Ecco, si tratta di un punto che ritengo importante non soltanto rispetto alle tesi che ho poc’anzi esposto, ma credo che questa rivendicazione costituisca un aspetto che riguarda non solo le prostitute ma che si estende a tutte le donne, e mi auguro nella parte conclusiva di questa relazione, di poter dimostrare perché.

Per farlo farei un passo indietro. Il principale interrogativo che Dominijanni si poneva era «Quale cambiamento culturale ha avuto luogo e ha reso il corpo di queste donne, simile a una macchina e alienato come una macchina?»

Pensando a una «risposta immaginaria» a quest’articolo io sarei partita piuttosto da una domanda diversa, ossia: Come possono le donne che non sono delle prostitute professioniste mettere a punto una critica del lavoro sessuale senza riprodurre la loro posizione di privilegio nei confronti di chi scambia professionalmente sesso per denaro?

Come ho tentato di suggerire precedentemente, il corollario che lega per automatismo desiderio e soggettività, mi lascia francamente piuttosto perplessa. Potrebbero, infatti, esserci prostitute che vivono il rapporto sessuale con desiderio (come, del resto, rivendicherebbero le protagoniste dei comitati per i diritti civili delle prostitute), e «donne per bene» che vivono il rapporto sessuale senza desiderio e magari in maniera materialisticamente orientata. Come tutte le altre donne, le prostitute possono desiderare e provare piacere, nel loro caso qualche volta in quanto prostitute, altre volte indipendentemente dall’esserlo. Ed infine, è illusorio ritenere che la prostituzione si esaurisca soltanto laddove essa è palese (e alienata), come se il rapporto fra sessi non fosse improntato in sé stesso, da una forma di scambio sessuo-economico, con la quale le donne hanno a che fare quotidianamente.

Per me quindi non si tratta tanto di focalizzare l'analisi sul desiderio e su dove questo vada a finire in questo scambio, poiché lo scambio sessuo-economico si fonda su alcune dinamiche che non possono essere lette attraverso i dispositivi tradizionali tramite cui il pensiero speculativo europeo si è dato la possibilità di leggere e interpretare il rapporto sessuale. Mi riferisco cioè al fatto che pur ritenendo il rapporto sessuale che ha luogo con la prostituzione, una forma «peculiare» di rapporto sessuale, gli si applichino le medesime categorie analitiche impiegate per interpretare l'unica forma di rapporto sessuale concepibile e che riteniamo essere valida: quella legata al desiderio e all'eros, che nega, conseguentemente, tutti gli ulteriori e molteplici usi presenti nel rapporto sessuale che sfuggono a questo dispositivo analitico. Usi che nelle pratiche quotidiane sussistono.

Tale modello costituisce una rappresentazione specifica e storicamente situata del rapporto sessuale, in cui quest’ultimo sarebbe esclusivamente mosso e finalizzato dal desiderio, e che preclude al «corpo sessuato» qualsiasi ulteriore impiego e utilizzo di sé stesso e del sesso, (nonostante questi diversi usi della sessualità e del corpo siano estremamente diffusi e presenti nella realtà che ci circonda).

Eppure gli uomini fanno, credo, appunto in quanto soggetti, un uso estremamente fruibile del proprio corpo e del proprio corpo in rapporto ad altri corpi, e in questa esperienza, ed esperendo la propria esistenza, può essere che pur non essendo delle prostitute, si possa anche fare sesso meccanicamente, ma non credo che si perda mai di soggettività. Nella dimensione della prassi, esistono numerose altre forme di vivere il corpo utilitaristiche, iscritte nella nostra quotidianità, e nei rapporti di genere, la cui concreta presenza non può consentirci di affermare che non esistano.

Nella concezione di chi nega soggettività, è il desiderio tout court il protagonista del rapporto, e se questo viene meno, è perché tale rapporto esigerebbe in verità una contropartita, ed è così che si scopre, in questo atto, la presenza di qualcosa che lo trasforma in una forma di prostituzione, cioè in una tipologia di rapporto sessuale «distinta e particolare».

Ma che cosa intendiamo allora per desiderio? Il desiderio sarebbe dunque il desiderio, come dicevo, fine a sé stesso e disinteressato, che caratterizza l'atto sessuale in quanto atto di desiderio?

Se così non fosse infatti, da qui deriverebbe, sul piano concettuale, la distinzione fra «donna per bene» e «prostituta», fra rapporto sessuale e scambio sessuo-economico.

Ecco quindi quello che io personalmente mi sento di contestare. Io contesto questa distinzione e anzi propongo propriamente di liberarci dalla concezione, infamante e separata di prostituta che fa di tale condizione, una categoria autonoma e disgiunta da quella di donna per bene. Lo stigma della puttana, infatti, non si applica alle prostitute soltanto, ma può riferirsi a qualsiasi donna fuori controllo, ed è propriamente uno strumento che fungendo da deterrente e da inibitore, serve per esercitare un controllo sessuale sulle donne.

Dobbiamo cioè cercare di ripercorrere la storia del concetto di prostituta e farne un’archeologia per comprendere come questo elegga una realtà che non è sempre esistita come separata, ma che noi stessi abbiamo finito per naturalizzare come tale.

In una ricerca sulle donne comuni nell’Inghilterra medievale la storica Ruth Mazo Karras ce lo dimostra:

«La cultura inglese del tardo medioevo non aveva una categoria concettuale specifica per la donna che scambiava sesso per denaro. Una donna non veniva designata whore (puttana) perché scambiava sesso per denaro, poiché lo scambio riguardava tutte le donne […]». Era quindi impossibile distinguere concettualmente, in questo tempo, la condizione della prostituta da quella di una donna qualunque.

Dal mio punto di vista il problema vero quindi è che se soltanto provassimo a mettere da parte una visione romantica dell’amore, ci accorgeremmo che nella realtà che ci circonda, i rapporti di genere sono costellati di dinamiche in cui la sessualità è un mezzo di scambio, (sebbene queste forme vengano sovente celate sotto il nome di «affetto» o di «regalo» e non siano riconosciute come «prostituzione») e dietro la quale in molti casi si cela la finalità di accaparrarsi un settore economico e di potere altrimenti precluso. Il punto è propriamente questo: lo scambio sessuo-economico non è un fatto circoscritto: costituisce una costante universale del rapporto fra maschi e femmine che può unire sfruttamento economico, assenza o limitazione di conoscenza e oppressione sessuale.

Lo scandalo, che la tipologia di rapporto di cui la prostituzione è l'emblema, genera davanti ai nostri occhi, è esattamente conforme al fatto che essa si pone come punto di frattura rispetto alla nostra concezione del sesso e del corpo. Ovvero, l’aspetto che genera turbamento nei confronti della prostituzione è che questa commercializza ciò che nell'etica prodotta dalla nostra società non potrebbe esserlo: non soltanto l'idea che richiama all’amore romantico disinteressato, fondato sulla scelta e sull'interesse reciproco, ma la concezione stessa del rapporto sessuale fondata, anche laddove è puramente erotico sul mito del desiderio per desiderio, libero da qualunque finalità e contropartita. Il pensiero europeo pur praticandolo nella prassi, ripudia concettualmente che le relazioni sessuali possano essere legate a un fine materiale-economico, demandando questo rapporto unicamente ad un'unica realtà altrimenti pensabile ed estranea, quella della prostituzione. Con la prostituzione credo che sia stata inventata così una nuova figura, quella della prostituta appunto, che si distinguerà dalla compagna, moglie, amica o fidanzata, proprio in virtù della natura economica del rapporto che con questa si intrattiene. Una dimensione materialistica che, al contrario, è idealmente espunta dal rapporto dialettico con le altre figure che rientrano nel modello della «donna per bene».

Per concludere, penso quindi che un primo passo verso l’emancipazione lo potremmo fare noi donne, insieme a tutti coloro che, come noi, desiderano un futuro più eguale, impegnandoci affinché le donne non abbiano più bisogno dell’aiuto degli uomini. Per farlo occorrerà un ripensamento delle categorie e tramite cui viviamo il sesso, per questo dicevo che un primo passo potrebbe partire da noi. Finché non si produrranno nelle nostre teste delle tensioni tali che ci permetteranno di riconoscere la prostituta nella sua soggettività e nella sua attività lavorativa, la strada per il riconoscimento dei diritti sarà quanto mai tortuosa.

 

SETTEMBRE 2010

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