
Per uno studio del Marxismo
		
		«RIFLESSIONI SULLE 
		CAUSE DELLA LIBERTA’ E DELL’OPPRESSIONE SOCIALE» DI SIMONE WEIL
		
		Francesco Palmeri
		
		Simone Weil scrive questo saggio nella 
		Germania del 1934. Il suo proposito è di analizzarla, di capire cosa non 
		funzioni o cosa stia effettivamente funzionando, perché sia sempre più 
		opprimente e, 
		in questo modo,
		 cercare un nuovo punto di 
		partenza dall'idea di libertà. Il suo primo capitolo e pensiero è quindi 
		riferito all'ideologia che si pone il suo stesso fine, ma dalla quale 
		lei si dissocia: il Marxismo.
		
		Analisi del Marxismo
		Quest’ultimo, secondo Simone Weil, con 
		espressioni come «la missione storica del proletariato», compie una 
		narrazione quasi mitologica della realtà, concludendo con un mondo di 
		Adamo ed Eva prima del peccato, dove gli uomini liberi ed eguali saranno 
		sollevati dal peso del lavoro e potranno vivere dei frutti di un 
		progresso tecnologico senza faticare. Weil osserva, 
		a questo punto, che dei punti essenziali vengono trascurati: non 
		è detto che la produzione, vista la crescita enorme degli ultimi tre 
		secoli, sia destinata a crescere per sempre; non è assolutamente detto 
		che, visto che ci è riuscita la borghesia contro la nobiltà, quando le 
		forze produttive si scontrano con le istituzioni politiche le prime 
		debbano vincere per forza; non è infine detto che il progresso 
		tecnologico sarà illimitato: la ricerca è arrivata a livelli 
		costosissimi, per cui è difficile vedere un ipotetico tornaconto in 
		futuro.
		In compenso Marx ci lascia una lezione 
		fondamentale: tutto, in società come in natura, si svolge mediante 
		trasformazioni materiali. Per studiare la società bisogna quindi 
		studiare come fa l’uomo a vivere, cioè il modo di produzione. Un 
		miglioramento dell’organizzazione sociale rende necessario uno studio 
		preliminare e approfondito dei modi di produzione.
		Weil analizza quindi le varie 
		caratteristiche del modo di produzione e di creazione di rendimento 
		produttivo, dalla questione energetica a quella organizzativa 
		(suddivisione del lavoro), facendo previsioni su come la società sarebbe 
		potuta diventare in futuro. Nonostante dovesse essere una sezione 
		fondamentale del libro, appare tecnologicamente datata, soprattutto 
		quando afferma che è difficile che la tecnica possa progredire più di 
		tanto rispetto al livello raggiunto in quegli anni. Di conseguenza non 
		verrà approfondita in questa sede. È invece di grande interesse 
		contemporaneità l’analisi dell’oppressione sociale e della libertà che 
		ne scaturiscono.
		
		Analisi dell’oppressione
		Secondo Weil, Marx capisce che l’errore 
		di tutte le rivoluzioni fino ad allora fosse stato quello di concepire 
		l’oppressione come un sopruso o come qualcosa di cui liberarsi con la 
		forza. Egli ha infatti compreso che l’oppressione esiste in quanto ha 
		una funzione sociale nei rapporti di produzione. Questa intuizione è 
		però viziata da postulati irrisolti: perché la divisione del lavoro deve 
		tradursi necessariamente in 
		oppressione? E chi garantisce che questa sia spazzata via nel momento in 
		cui diventi economicamente controproducente? Marx, vale a dire, non 
		compie il passaggio da Lamarck a Darwin: non è la funzione a creare 
		l’organo, ma il contrario. L’organo nasce assolutamente a caso, e il 
		criterio da utilizzare per lo studio non è una forza tendenziale 
		misteriosa, ma quello di esistenza: l’essere senza organo non 
		sopravvive. L’evoluzione umana è formata dalla somma delle azioni degli 
		individui, ma queste sono scoordinate e produrrebbero un’infinità di 
		soluzioni diverse. «Il caso è però limitato dalle condizioni di 
		esistenza alle quali ogni società deve sottoporsi se non vuole essere 
		annientata o soggiogata». Condizioni perlopiù ignorate da chi le 
		subisce, «non agiscono imponendo una direzione agli sforzi di 
		ciascuno, ma condannando a essere inefficaci tutti gli sforzi che esse 
		vietano».
		Occorre definire come limite ideale le condizioni che renderebbero la 
		società priva di oppressione, anche se la contingenza ci indurrebbe a 
		gettarci nella mischia delle cose importanti che accadono, o ad 
		avvalerci del riformismo, aberrato dalla Weil in quanto finché non sarà stato 
		definito con esattezza «il peggio» e «il meglio» ogni male visibile e identificabile in quanto presente 
		risulterà sempre minore dei 
		mali prodotti da un’azione non calcolata e non visibile.
		Innanzitutto bisogna constatare che è molto raro riscontrare forme di 
		società prive di oppressione, se non per società che abbiamo pochi 
		strumenti per conoscere più da vicino e che comunque possiedono un grado 
		di produzione molto basso, dove la divisione del lavoro è pressoché 
		sconosciuta. «Ciò che sorprende non è che l’oppressione compaia solo 
		a partire dalle forme avanzate di economia, ma che le accompagni sempre». 
		Da ciò capisce come questa sia organo necessario per la sopravvivenza. 
		L’oppressione deriva dalla forza, che ha fonte nella natura, ma forza e 
		oppressione sono distinte. L’oppressione è generata esclusivamente da 
		condizioni oggettive: innanzitutto la presenza di privilegi, che 
		modernamente si manifestano nei nuovi sacerdoti, gli scienziati, cioè 
		coloro che possiedono la comprensione dei processi anziché la mera 
		nozione del risultato cui prestar fede; o nei militari, nel momento in 
		cui possiedono armi da cui un disarmato non può sperare di difendersi. I 
		privilegi, però, non bastano a spiegare l’oppressione: l’altro 
		importante fattore è la lotta per il potere, senza la quale non 
		sorgerebbe una necessità più brutale di quella imposta dai bisogni 
		naturali. Chi detiene il potere, poiché soggioga degli esseri umani, 
		deve rendersi temibile più dello stretto necessario per evitare la loro 
		ribellione, e nel contempo lottare contro il pericolo dell’aggressione 
		esterna. Ma essendo gli uomini attivi, essi possiedono una volontà ad 
		autodeterminarsi cui non possono abdicare, e che perdono solo nel 
		ritorno alla materia inerte. Il potente dovrebbe perciò sterminarli per 
		ottenere questo risultato, e così facendo sparirebbe l’oggetto stesso 
		del potere, e con esso il potere stesso. Ecco quindi la grande 
		contraddizione fondamentale nell’essenza stessa del potere.
		Da tale contraddizione scaturisce una corsa al potere tramite il potere 
		che vede la sostituzione dei mezzi ai fini: «la ricerca del potere, 
		per il fatto stesso che è essenzialmente impotente a raggiungere il 
		proprio oggetto, esclude ogni considerazione di fine e giunge, per un 
		rovesciamento inevitabile, a prendere il posto di tutti i fini». E 
		non sono gli uomini, ma le cose a dare alla corsa al potere questi 
		limiti: la moderazione, anche se apprezzata, non può essere praticata da 
		chi corre per il potere. E se pure gli oppressi riuscissero ad abolire 
		tutti i monopoli, a eliminare le posizioni di privilegio, verrebbero 
		immediatamente schiacciati dal popolo che non ha operato la stessa 
		trasformazione. «L’accrescersi del rendimento dello sforzo umano 
		resterà impotente ad alleviare il peso di questo sforzo finché la 
		struttura sociale implicherà il rovesciamento del rapporto fra mezzo e 
		fine». E il potere, scontrandosi coi limiti strutturali su cui si 
		poggia, finisce col cedere per la propria stessa tendenza all’espansione 
		illimitata, manifestandosi proprio nella sua decadenza col suo volto più 
		feroce.
		
		Quadro teorico di una società libera
		Nulla può impedire all’uomo di sentirsi nato per la libertà. Ed è 
		necessario, così, prima di agognarla, di definirla con precisione. La 
		libertà non può essere intesa, infatti,  come 
		semplice scomparsa delle necessità: l’ideale dell’età dell’oro non è 
		tecnicamente realizzabile, né probabilmente lo sarà mai. Inoltre l’uomo 
		senza l’ordine, la disciplina data dall’attività, finirebbe ozioso a 
		crearsi i propri problemi, probabilmente degenerando. La libertà non 
		consiste in un rapporto fra desiderio e soddisfazione, ma fra pensiero e 
		azione. «Sarebbe completamente 
		libero l’uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio 
		preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento 
		dei mezzi atti a realizzare questo fine». Il che non significa agire 
		arbitrariamente, poiché ogni azione è inserita in un contesto di 
		situazioni oggettive. L’uomo è limitato, ma sarebbe libero se le 
		condizioni della sua stessa esistenza fossero il frutto della sua azione 
		diretta dal pensiero. Weil analizza quindi i vari ostacoli che questo 
		tipo di libertà incontra nella nostra azione, come le dimensioni del 
		sapere, il caso, l’inconoscibilità completa del nostro corpo. Inoltre 
		quasi mai l’azione è figlia del proprio pensiero consapevole, e quasi 
		mai il pensiero teorico è finalizzato all’azione del soggetto che lo ha 
		pensato. Più spesso ci si limita ad applicare degli schemi, a usare 
		automatismi, un pensiero, d’altra parte, basta per migliaia di azioni. 
		Le macchine sono la rappresentazione emblematica di questo. Si può 
		arrivare a formulare un modello sociale in cui tutti applichino formule 
		matematiche che nessuno conosce. All’opposto, l’unico modo libero di 
		produrre è quello in cui l’azione sia accompagnata dal pensiero in ogni 
		sua fase, senza annullare ovviamente le conoscenze acquisite, ma 
		tenendole sempre presenti. Ovviamente il grado di complicazione non deve 
		essere troppo elevato, e, ovviamente, questo modello è molto lontano 
		dalla realtà presente. Ma può essere un riferimento perché si cerchi di 
		dilatare il più possibile la sfera del lavoro cosciente.
		C’è inoltre un altro limite, ed è la 
		presenza degli altri uomini. Lo sforzo produttivo e la sua coordinazione 
		nella società libera all’estremo dovrebbero essere frutto di ogni uomo: 
		ciascuno dovrebbe avere il controllo sulla catena di produzione e in 
		qualche modo dirigerla. Il che significa soprattutto il riscatto 
		dell’individuo rispetto alla collettività che si traduce nella non 
		possibilità di essere utilizzato alla stregua di una cosa.
		Questo quadro è forse più lontano dalla realtà dell’età dell’oro, ma a 
		differenza di questa può in qualche modo servire per orientare la nostra 
		analisi e azione. «Riassumendo: la società meno cattiva è quella in 
		cui la maggior parte degli uomini si trova obbligata a pensare mentre 
		agisce». la scienza dovrebbe quindi concentrarsi anziché 
		sull’ampliamento delle conoscenze sulla loro stesura più semplice e 
		metodica. La nuova società avrebbe come valore centrale e fondante il 
		lavoro, l’unica grande scoperta intellettuale dopo il miracolo greco, 
		legato ancora alla concezione dell’età dell’oro. Lavoro inteso come di 
		sopra, la cui fatica derivante non sarebbe fonte di schiavitù, ma di 
		soddisfazione e realizzazione per chi la compie.
		
		Profilo della vita sociale contemporanea
		Nell'ultimo capitolo del saggio Simone 
		Weil traccia il profilo della vita dell’individuo nella società degli 
		anni 30. Questo quadro è interessante per la lucidità con cui abbia 
		compreso quale sarebbe stato il destino di lì a poco della gran parte 
		degli stati europei e per alcuni caratteri persistenti nel nostro nuovo 
		millennio.
		L’uomo non è mai stato così sottomesso a una collettività cieca e 
		costretto a confrontarsi con realtà troppo al di fuori della propria 
		portata materiale e intellettiva, le scienze matematiche sono un insieme 
		così vasto da non poter essere assolutamente abbracciato da una singola 
		mente e la gran parte dei lavori consiste in una serie di sforzi di cui 
		non si vede o non si ha nemmeno idea dello sbocco finale. La coesione 
		della scienza è garantita dai segni, quella dell’economia dalla moneta, 
		e dove la direzione dell’azione è troppo gravosa per una sola mente 
		subentra una macchina organizzativa composta di uomini: la burocrazia.
		«Tutte queste cose cieche imitano lo sforzo del pensiero tanto da 
		trarre in inganno». E la burocrazia finisce col sostituire i propri 
		capi. Il rovesciamento fra mezzi e fini, necessario a ogni società 
		oppressiva, invade ogni cosa: lo scienziato non studia per capire ma per 
		aggiungere pezzi di scienza al pensiero già costituito, gli uomini 
		servono per far funzionare le macchine, che servono per immagazzinare 
		capitale, l’attività di ogni gruppo serve a rafforzare l’organizzazione. 
		La lotta per il potere economico è più conquistatrice che costruttrice, 
		e dalla conquista deriva distruzione: il sistema capitalista è ormai più 
		orientato alla distruzione che altro. E vista la crescente importanza 
		che il ruolo dello stato riveste, essendo strutturalmente l’ente 
		preposto a gestire situazioni di portata così grande, questi orienta 
		l’attività economica verso il detto modello distruttivo. Non c’è quindi 
		da sorprendesi se la guerra emerge in primo piano.
		La rivoluzione, d’altra parte, per la Weil è una chimera: ad oggi non si 
		è mai visto un’oppressione liberarsi per mani degli schiavi, e c’è da 
		chiedersi come l’educazione alla schiavitù possa portare alla libertà, e 
		come Marx abbia potuto crederlo. Orma il lavoro è visto come una 
		schiavitù e il denaro come un favore, si viene pagati per la propria 
		fatica quel tanto che basta per potersi permettere un qualche istante di 
		ricchezza. In questa riflessione Weil è stata così estremamente 
		lungimirante nel capire come si sarebbe imposto il modello neoliberista 
		del «operaio imprenditore di se stesso», sfruttato per poter fare un 
		paio di settimane a Portocervo. Quanto alla presa del potere, la grossa 
		incomprensione sta nel mirare a una certa classe come la sua detentrice, 
		anziché cogliere la realtà diffusa e soprattutto cieca e indefinibile 
		della corsa al potere. «Negli ambienti che si ricollegano al 
		movimento operaio i sogni sono abitati da mostri ideologici che si 
		chiamano Borsa, Finanza, Banca e simili; i borghesi sognano altri mostri 
		che chiamano mestatori, agitatori, demagoghi; i politici considerano i 
		capitalisti come esseri soprannaturali che soli possiedono la chiave 
		della situazione, e reciprocamente; ogni popolo guarda ai popoli vicini 
		come a mostri collettivi animati da una perversità diabolica.»«Si dice 
		spesso che la forza è impotente a soggiogare il pensiero. Là dove 
		le opinioni irragionevoli prendono il posto delle idee, la forza può 
		tutto». Dagli uomini non si può sperare molto, anche perché i mezzi 
		di cui potrebbero servirsi  
		sono quelli che tuttora schiacciano, e continueranno a schiacciare 
		finché esisteranno. Primo fra tutti, come già aveva capito Marx, lo 
		stato. Poi i media. Inoltre l’idea che dall’altro emerga qualcuno 
		volenteroso di fare del bene è ormai una chimera: di fronte alla 
		complessità enorme della materia, nessun despota può essere 
		«illuminato».
		Weil, con grande lungimiranza, conclude 
		riflettendo che probabilmente la sua generazione sarà quella che, dal 
		punto di vista storico, dovrà sopportare le maggiori responsabilità 
		immaginarie e le minori reali.
		
		SETTEMBRE 2010