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02
Ottobre 2010

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L’educazione dei giovani ed il mito del genio

Giuseppe Genovese

 

«Noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto.» Albert Einstein

 

Quando nel 1801 Carl Friedrich Gauss predisse con precisione dove ritrovare il piccolo pianeta Cerere nella sfera celeste, già scoperto dall’italiano Giuseppe Piazzi, risolvendo così uno dei più cogenti problemi dell’astronomia del tempo, era già famoso tra i matematici per aver ottenuto alcuni risultati di ordine universale, come la costruzione dell’eptadecagono, o l’invenzione di tecniche fondamentali in teoria dei numeri, prima tra tutte l’introduzione del concetto di congruenza nello studio del problema della divisibilità. Aveva allora ventiquattro anni. Epiteti sulla sua vita si sprecano, in ambienti accademici e non; spiegazione di tanta prolificità in così giovane età è di solito l’affermazione tout court che Carl Friedrich Gauss fosse un genio assoluto. Oggetto di quanto segue sarà tentare di confutare con ostinata violenza tale tesi.

Pare peraltro evidente che, almeno nell’accezione comune, il termine “genio” abbia assunto una connotazione a metà tra il naturale ed il sovrannaturale, tra l’inaccessibile e l’umano. Tra i vari significati della parola, troviamo: «Somma potenza creatrice dello spirito umano, propria per virtù innata di pochi ed eccezionali individui, i quali per mezzo del loro talento giungono a straordinarie altezze nell’ambito dell’arte o della scienza.» (cfr. Dizionario delle Lingua Italiani, ed. Treccani). Questa definizione è il centro dell’intera questione. In essa confluiscono aspetti di ordine storico, culturale e sociale. Un genio è dunque uno di quei pochi individui capaci di valicare i limiti dell’umano in una o più arti. È certamente un uomo, ma anche non lo è, data la sua eccezionale ed innata virtù. È questo limbo di semidivinità che in primis merita un’analisi più attenta.

Risulta d’aiuto talvolta ricorrere all’etimologia della lingua. La parola “genio” deriva certamente dal genius latino, essenzialmente un’entità mistica e sovrannaturale, che veglia sui destini degli uomini o delle cose umane, come ad esempio luoghi di vita vissuta (genius loci) o istituzioni sociali (genius familiaris). Tali figure si ritrovano nelle culture di civiltà antecedenti e posteriori a quella romana: sono in sostanza i daimoniou dei greci, genii sovrannaturali per l’appunto, che poi, grazie agli influssi del manicheismo in epoca  tardo-imperiale prenderanno le forme degli angeli e demoni della cultura medioevale cristiana. Eppure, a dispetto di quanto si possa credere, angeli e demoni hanno un’origine divina che i genii non posso vantare. La parola “angelo”, intesa come messo, nunzio, un tramite tra l’uomo e la divinità, proviene probabilmente dalla radice ariana AG, andare (lat. angelus, gr. aggelos, pers. aggaros); d’altra parte la parola “demone” (gr. daimon) avrebbe addirittura la medesima origine della parola “dio” (lat. deus, sscr. devas, zend. daeva), dalla radice  ariana DIV, che ha il senso proprio di splendere, evidentemente legata al culto atavico del sole. Ora, cosa strana è che, sebbene i significati per quanto detto siano assai simili, l’origine della parola genio è assai diversa, e riporta indubbiamente sulla terra: la radice indoeuropea è G’AN, generare, produrre (lat. geno, gr. genea, sscr. g’an-ati). In questo contesto il genio appare come una naturale forza produttrice, la spinta istintiva dell’uomo alla creazione. Ancora è d’aiuto il sanscrito, in cui genio è g’anya, uomo g’ana, donna g’ani. Al di là di ogni mistificazione e mitizzazione, il genio è la forza propria dell’umanità tutta.

Quale esigenza ha dunque richiesto tale mistificazione? In quale momento storico, e per quali cause, il genio si è confuso irrimediabilmente con il demone? Una risposta completa e soddisfacente a tali interrogativi è francamente fuori da ogni possibilità. Del resto non è astruso ricercare il seme di tale fenomeno nella struttura oligarchica che definitivamente si presenta in ogni manifestazione sociale e culturale della storia dell’uomo (e che pure è probabilmente presente, seppur in forma più rudimentale, nel regno animale). La divinità come instrumentum regni è qualcosa di antico e radicato nelle abitudini umane. Il confinare doti straordinarie in alcuni individui eletti è senza dubbio un insuperabile esercizio di potere. Da questo punto di vista non v’è differenza alcuna tra oligarchia politica, sociale o culturale: il principio primo è lo stesso; gli uomini non sono tutti uguali, ed ai più è negato l’accesso ad una casta di elementi eccezionali.

Tutto sommato è questa la struttura socio-culturale che ci è stata tramandata dall’antica Grecia. Non è un caso che il dibattito sulla possibilità di insegnare o meno la virtù fosse quanto mai vivo nel periodo d’oro di Atene (ed è un dibattito profondo, rivoluzionario in ambedue i sensi, rispetto agli equilibri del tempo). Un carme di Pindaro recita: «Pieno valore ha soltanto colui cui pregio glorioso / è innato. Chi possiede soltanto / quanto apprese, vacillante ombra d’uomo / mai non s’avanza con saldo piede, / ma mille altre / cose, con animo immaturo / non fa che assaggiare». L’intero discorso viene ad essere quindi strettamente intrecciato con un altro tema fondamentale, quello dell’educazione dei giovani, assolutamente di importanza imprescindibile per i greci. È ovvio che un programma educativo che parte dal presupposto che la virtù sia innata è sostanzialmente diverso, e che una società strutturalmente oligarchica non può produrre un sistema educativo profondamente egualitario. Questo valeva per la paideia dei greci, vale per la nostra scuola (che, in senso lato, non ne è che l’estrema discendente).

A questo punto si potrebbe obiettare che un sistema davvero egualitario è un’inutile utopia, poiché presuppone una uguaglianza di fondo tra gli uomini. Ma è un obiezione naif. È chiaro che gli uomini non sono tutti uguali. Nondimeno sono tutti ugualmente utili alla comunità in cui vivono. E questo perché la comunità si forma a partire dagli uomini e non viceversa. Un esempio può aiutare a chiarire questo concetto. Si pensi ad una tribù di uomini primitivi. Tra loro essi saranno tutto sommato simili, eppure avranno qualche diversità: qualcuno più alto, qualcuno più basso, qualcuno di costituzione più robusta o più gracile; ed inoltre, alcuni di loro potranno avere una vista acuta, od una falcata profonda; sono insieme, formano una comunità, devono decidere come vivere, dove andare, cosa mangiare, con cosa vestirsi. Come si prendono tali decisioni? In base alle risorse che si hanno, chiaro. E le risorse sono in primis risorse umane.  Sono le varie qualità degli elementi del gruppo a determinare le caratteristiche ed il destino del gruppo stesso. Pare grottesco pensare ad una tribù del pleistocene che cerca di accaparrarsi un bravo cacciatore, esattamente nello stesso modo con cui un’odierna squadra di calcio cerca di prendere un bravo centravanti. Piuttosto la prima scelta naturale sarebbe organizzare la comunità in modo da sfruttare al meglio, se non magnificare, le qualità dei singoli. È di certo vero che la selezione naturale seleziona, appunto, tali qualità, ma l’esperienza del mondo ci insegna che non le uniforma. La diversità è la chiave del progredire della specie. Ma irrimediabilmente la diversità genera disparità. Ovvero è venuta l’esigenza di creare una precisa scala di valori, per cui talune qualità fossero superiori ad altre. Naturalmente il concetto di superiorità è ciò che ardentemente va combattuto, in tutte le sue forme. Chi decide la superiorità di un uomo rispetto ad un altro? Coloro che si sentono simili a quell’uomo, e lo fanno per esaltare se stessi e ciò che essi stessi rappresentano, per instaurare o mantenere un proprio potere. La scala dei valori delle “intelligenze” è quindi forgiata su base ancora una volta oligarchica: è un’oligarchia che detta le regole ed i concetti a sostegno della propria permanenza.

E qui si arriva allo stato attuale dell’organizzazione della cultura; in tre parole: miseria, fiacchezza e vanità.

Miseria: la cultura non è un bene comune. E per disparità sociali, economiche, geografiche; e perché tra coloro che vi potrebbero avere davvero accesso, ben pochi ne riconoscono l’importanza: sono i tempi che non danno risalto al sapere. Ma non è questo un discorso che qui si vuole approfondire.

Fiacchezza: coloro che detengono la cultura sono tipicamente moralmente imbelli. Poiché la trasmissione del sapere è vista come qualcosa di diverso dalla formazione dell’individuo, dal suo inserimento della società, dalla sua propria crescita spirituale, sentimentale, politica, sociale. Il processo educativo è frammentato, frammentario e spesso dannoso per il discente stesso. Non si bada alla forma del sapere, e si finge di curarne la sostanza. L’amore per il particolare è massimo: ma è un amore morboso, senza nerbo. Ed il risultato netto è che il senso generale è perso, e la cultura è ridotta a tecnicismo. L’uomo di cultura sa senza capire, è lanciato in un mondo difficile senza che il tempo speso gli sia davvero valso. Il sapere è trasmesso astrattamente: appreso, non  vissuto. E pure nell’astrazione, la superficialità è disarmante. Il processo educativo finisce tardissimo, nominalmente tra i venti e i trenta anni, ed è troppo lungo oltre che mal eseguito; la perdita di risorse umane, enorme.

Vanità: in un contesto mediocre per sua stessa natura, vi sono degli individui le cui potenzialità non vengono sprecate, e riescono a raggiungere risultati notevoli in vari campi del sapere e delle arti. Sono costoro che noi chiamiamo genii, coloro che riescono ad elevarsi a rango superiore, a padroneggiare la propria materia, ad essere un tutt’uno con l’arte. Eppure, il prezzo pagato è alto. Poiché le carenze fondamentali del sistema educativo costringono una persona ispirata, con una passione prorompente ed un intelletto acuto a notevoli sacrifici, fisici, intellettivi, umani. Costoro non hanno un’educazione migliore degli altri, bensì esprimono una scelta di fondo alla base della loro vita: non è che una diversa mortificazione delle potenzialità dell’uomo. La società è strutturata in modo da erigerli a mito, da acclamare simili uomini e divinizzarli. Da rinchiuderli in una casta inaccessibile, in cui loro stessi finiscono per bearsi, in eccessi di pietosa vanità. Il mito del genio, oggi, è il mito di colui che sa senza apprendere, che raggiunge risultati enormi in poco tempo, senza sforzo. Il massimo risultato con il minimo sforzo. È la negazione del sacrificio, della gradualità del processo di apprendimento. È un aberrazione di concetto: come se una poesia, una musica, un teorema, fosse lì, accessibile a tutti, come una mela posta in alto su un albero, che aspetta di esser colta da quello più alto. Come se le differenze di sensibilità d’animo, le sfumature dell’intelligenza e della creatività fossero del tutto insignificanti, l’oggetto della ricerca fosse indipendente dalla natura di chi cerca. È un sistema sbagliato, che giustifica se stesso con una favola di disparità.

Dobbiamo dunque liberarci dal genio come demone e riappropriarci della forza creatrice. È l’educazione delle nuove generazioni che può assolvere a questo compito. È necessario recuperare il valore della formazione dell’individuo, con una pedagogia attenta, mirata, articolata, umana, sempre presente. Sarebbe bene consegnare al mondo uomini adulti nel pieno della loro giovinezza, intesa come freschezza intellettiva, fisica e spirituale. Quel che si vuole è che un uomo poco più che ventenne sia a tutti gli effetti un uomo, ed abbia tanto da dare al mondo ed ai suoi simili. L’intero sistema educativo dovrebbe essere finalizzato a mettere in condizione ogni individuo di esprimere i propri talenti in libertà sin dalla giovane età, con la solidità alle spalle dei valori della comunità.

Come scrive Gramsci, l’idea che «nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare» è quantomeno riduttiva. È chiaro che se da un lato la volontà di interpretare ed assecondare le naturali inclinazioni del discente è fondamentale, dall’altro è d’uopo guidarne ed amministrarne le potenzialità, smussando gli aspetti naturali od eventuali di aggressività o eccessiva esuberanza, coltivando il senso della collettività, del benessere individuale e comune.

Queste parrebbero essere le due problematiche fondamentali di una novella pedagogia: da un lato incentivare e promuovere sin dalla primissima infanzia lo sviluppo delle facoltà intellettive e fisiche, dapprima con il gioco, poi con programmi educativi accurati, e svelare ed esaltare le capacità dei singoli; dall’altro trasmettere alla nuova umanità lo spirito dell’umanità passata, affinché una continuità storica favorisca un buono e giusto sviluppo della società.

 

SETTEMBRE 2010