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03
Gennaio 2011

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LE VERITÀ DEL 23 DICEMBRE

Redazione

 

Le verità del 23 Dicembre cominciano anzitutto con una grande stanchezza dopo giorni di politica e di inchiesta. Il giorno prima gli studenti medi e universitari nel quadro della rincorsa alle dichiarazioni allarmistiche dei politici del governo e delle posizioni dei giornali di destra e non solo, avevano rotto la gabbia della prospettiva d’un’unica grande e rischiosa manifestazione a Roma, per dividersi in piazze diverse di ciascuna provincia in Italia e mettere in atto un blocco capillare, più ragionato e lucido, di come sembrava dovesse essere all’inizio.

 

A Napoli il corteo, infatti, partito da Piazza del Gesù era andato a bloccare, prima, i due varchi d’ingresso al porto e, poi, dopo aver provato a sorprendere dirigendosi in autostrada, si era fermato sui binari della stazione centrale per circa un’ora. A Roma, d’altra parte, gli studenti avevano lasciato vuoto il centro e se ne erano andati con un corteo di trentamila sulla tangenziale arrivandoci dalla zona del Pigneto.

 

Stanchezza ce n’era, dunque. L’ho vista sui volti dei ragazzi scesi comunque al centro la mattina del 23 con la speranza di continuare la mobilitazione dopo il corteo del giorno prima e a qualche ora dalla definitiva approvazione della riforma Gelmini in Senato del pomeriggio. La sentivo dentro di me, nella stanchezza delle mie gambe e nell’ansia dei miei movimenti svuotati di coerenza.

 

Quella mattina il cinema Astra era ancora occupato dagli studenti di Lettere mentre la struttura del palazzo Giusso era stata liberata la sera precedente, se non la mattina stessa del 23.

 

Se vado lì è per provare ancora ad osservare cosa stia succedendo, se c’è almeno in conto di tenere un’ultima assemblea, di seguire la diretta dell’approvazione della riforma al Senato. Ma inizialmente non trovo nessuno al «centro» del palazzo Giusso, appena qualcuno che vi passeggia dentro e alcuni ragazzi del collettivo nella loro aula occupata. Una volta uscito, decido, così, di mangiare qualcosa ed inizio ad osservare. Ad uno ad uno vedo alcuni ragazzi del movimento arrivare lentamente, entrare e subito uscire dal palazzo, anche loro un po’ straniti dall’averlo trovato vuoto.

 

Dopo qualche minuto incontro poi uno dei ragazzi più attivi in quest’ultima fase del movimento e lo trovo stranamente più disposto a parlarmi, come se da un giorno all’altro, così, velocemente, il movimento tutto fosse entrato in una fase di maggior calma e riflessione, come se avessero velocemente smaltito tutto il resto. Lo trovo con un ragazzo francese dalle origini italiane. Non so bene che ci faccia lì. Mi sembra giovanissimo ma già sicuro, poi scopro che è ancora un liceale, e che vive e studia a Parigi. Ha fatto politica e partecipato alle ultime mobilitazioni contro la riforma delle pensioni. Intanto noi, insieme con un gruppetto decidiamo di passare dall’altro lato della piazza, all’ingresso del palazzo universitario, sfilando davanti ad alcuni funzionari di polizia guardinghi all’angolo della strada.

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C’è più gente ora, non ci sono molti studenti, mai i vari militanti dei collettivi cominciano ad arrivare. Ma non ci sarà assemblea, né ci sarà la diretta della discussione e delle votazioni al Senato nell’aula magna del palazzo.

 

Nel corteo che si decide di fare verso il Museo nazionale dove ci sono dei lavoratori in lotta a cui non viene pagato lo stipendio, siamo pochi. Ci sono vari militanti e pochi altri in più tra gli studenti. È quasi Natale, s’improvvisano cori ad hoc per le feste secondo una certa vena umoristica napoletana. Il tragitto dall’Università al Museo è brevissimo, arriviamo, infatti, presto dopo aver incassato anche qualche applauso. Siamo pochi, come era normale che fosse, ma soprattutto arriviamo lì alla fine d’un mese in cui abbiamo imparato a fare e organizzare molto meglio, forse, in parte, anche a pensare meglio, ma occupazioni, lotte e inchieste e discussioni, con una debolezza ancora troppo grande per domandarci perché, nonostante tutto questo, il 14 Dicembre e un mese di incontri e iniziative, siamo al 23 e la riforma è ormai pronta per essere approvata. Domandarci come si tiene ancora insieme ciò che stiamo vivendo, in che modo e perché la gente torna indietro, gli atri vincono e noi rimaniamo lì dove siamo, in un altro anno che passa, non più gli stessi, certo, ma relegati comunque nella stessa posizione, entro gli stessi limiti.

 

Poco prima d’entrare nel Museo con cori un po’ da stadio e un po’ da nostalgici degli anni ’70, il ragazzo francese diciassettenne dice al mio amico che in Italia, di questo passo, con questo lasciarsi alla spontaneità, all’improvvisazione, non riusciremo a vincere. Avremmo bisogno d’un sindacato, d’una struttura, che organizzi permanentemente la lotta, che tenga legati in modo più stabile il passo indietro e quello avanti, il momento dell’avanzata e quello della ritirata. In Francia – dice – succede così, sono i sindacati studenteschi che indicono la lotta e in qualche modo la preparano e la gestiscono in modo che la base entri coscientemente a partecipare alla lotta politica. Trovare un modo di vincere l’incostanza, lo spontaneismo, «organizzarlo» aggiunge il mio amico in un attimo, ma già pensa in realtà ad altro, ed, infatti, lo dice. Perché fino a due anni fa anche lui la pensava così, che bisognava trovare una forma nuova e stabile di organizzazione, che non si poteva gettare via tutto quello che già esisteva, i sindacati, i partiti, la politica, ma al giorno d’oggi il movimento ha dimostrato di sapersi autorganizzare diversamente dal basso con una forza incredibile; nessuna rappresentante istituzionale si dimostra all’altezza di quello che è successo il 14 Dicembre a Roma, nessuna struttura studentesca o sindacale, fiom compresa. Gli studenti sono stati e possono essere più forti di queste. Forse bisogna superare il concetto di rappresentanza, perché la politica, i partiti, i giornalisti ed anche gli intellettuali (come Saviano) sono distanti, non capiscono, vivono in un altro mondo, ne danno un’immagine falsata; bisogna riappropriarsi anche della possibilità di darsi una propria immagine e chiamarsi con il proprio nome.

 

Qualche minuto dopo, il corteo entra nel Museo invitato dai lavoratori che ci aspettano lì fuori e applaudono al nostro arrivo. Io a questo punto li lascio. Poco dopo saprò d’un contatto con la polizia e che i ragazzi, spinti fuori dal museo, si sono diretti lungo via Toledo.

 

Il 23 Dicembre pomeriggio, così, un’ennesima riforma dell’Università, quella del ministro Gelmini, passa anche al Senato, e si prepara ad essere inviata al presidente della Repubblica per essere controfirmata e divenire legge della Repubblica in attesa dell’approvazione dei decreti attuativi. È quasi già Natale, si tratta dell’ultimo atto di quest’anno del governo, che sembrava pronto a cadere solo due settimane fa. Il tempo è scorso veloce, la situazione è andata capovolgendosi.

 

Molti studenti che studiano a Napoli, che provengono da altre città e altre regioni, sono ormai tornati a casa per trascorrere le feste con le proprie famiglie. La tradizione, i regali, la ciclicità dell’anno e l’incostanza dell’animo si affiancano al gelo che torna, dopo una pausa, insieme con la pioggia, in prossimità della lunga pausa natalizia. Anche io sento la stanchezza, ma insieme a questa sento pure l’inizio d’una malinconia per un ritmo di partecipazione, impegno e lavoro che rischia l’interruzione, la sospensione, se non anche uno stravolgimento con l’anno che verrà e una nuova, ancora ignota, sorta di abitudine. Il governo, intanto, ha approvato e festeggia l’inizio del suo nuovo corso, e una riforma che sull’onda della ragione economica dell’asmatico capitalismo italiano copre con la propria mano attraverso una forza silenziosa e macabra la bocca d’un corpo immobile che respirava ancora solo da essa. Tra i bagliori della società nostrana dello spettacolo il governo va a distruggere la possibilità di generazioni di conoscere e appropriarsi di ciò per cui l’Italia è stata quello che è stata, nella sua cultura lontana e la sua arte, che sono il suo unico volto significativo nello scenario della nazioni del mondo. L’Italia, è vero, forse, diventa in questo modo più europea, inserendosi nell’attuale matrice individualista ed economicista della formazione degli altri paesi d’Europa, ma, nel suo caso, lo fa sulla base d’una società più povera economicamente, più scollata socialmente e con una storia più fragile e insicura.

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Ma le ragioni del 23 Dicembre non sono finite qui. Il 23 Dicembre è continuato, non s’è fermato all’Università e al Senato. Non a Roma, non nel Museo di Napoli, ma in un luogo meno sacro e sacralizzato, che fa della mancanza di religione la sua religione, che detta le sue ragioni senza bisogno d’argomentazioni. La furbizia dell’a.d. della fiat Marchionne ha scelto sul calendario questa data per preparare e siglare la firma del nuovo accordo del presunto rilancio dal 2012 dello stabilimento di Mirafiori. Dopo Pomigliano, Mirafiori. Un nuovo accordo, un nuovo accordo non firmato da tutti i sindacati del momento a cui la fiom si oppone, una nuova degradazione delle condizioni di lavoro e di vita di lavoratori già costretti negli ultimi tempi alla cassa integrazione, un nuovo ricatto stavolta, ancora più brutale, per cui chi non firma non può più fare il sindacato dentro l’azienda. La democrazia diventa così solo un fatto di carta, una parola vuota a cui si può dare qualsiasi significato, ma che non ha più contatto con la realtà e la storia di questo paese. Il sindacato, infatti, nella nuova concezione di Marchionne è un apparato legato all’impresa dall’interno sulla base della condivisione di finalità comuni, quelle che accomunano il padrone e i suoi lavoratori, rispetto alla meta della maggiore produttività. Il mito di sempre dell’espansione dei capitali delle imprese è avvolto, così, oggi in un alone ancora maggiore di ingiustizia nel tempo in cui crescita economica significa in Italia sopravvivenza al limite minimo.

 

In un’epoca di divisione rigida del lavoro su scala internazionale dei diversi paesi, sembra che l’unico modo per non chiudere le fabbriche in Italia sia renderle più simili a quelle dei paesi poveri dove ormai da diversi decenni si sono spostati gli investimenti delle grandi industrie. Rendere il lavoratore italiano più simile a quello delle fabbriche cinesi, sudamericane, di Taiwan, di Singapore, appare l’unico modo per garantire ancora lavoro in Italia.

 

Ci sarà un referendum nel prossimo periodo, ci sarà uno sciopero della Fiom, ci sarà sicuramente uno spazio possibile per l’incontro del 23 Dicembre dell’Università e quello della fiat e dell’industria italiana e si vedrà presto come andrà. Questa sarà la storia delle prossime settimane, di quelle che ci saranno e di quelle che potrebbero esserci.

 

Le verità del 23 Dicembre sono così complesse e intrigate fra loro, hanno a che fare con domande che attendono ancora d’essere affrontate e considerate. Questioni che anche noi come redazione della rivista Città Future proviamo a porci con il nostro lavoro e, in particolare, con questo numero, abbiamo cercato di tematizzare rispetto a come le cose oggi si trovano ad essere, e al perché così continuino ad essere da circa almeno trent’anni. Su cosa fondi se stesso, al di là delle resistenze, delle lotte, delle prese di coscienza, il potere del sistema capitalistico di oggi e l’organizzazione sociale di questo tipo, in che modo e in che senso la rappresentazione di sé degli uomini e delle donne si tenga ancora stretta, e forse, sempre di più, attorno ad una visione rarefatta nel pensiero e impotente rispetto all’azione aperta e liberale all’apparenza, al modo di concepire se stessi ma estremamente chiusa e disillusa interiormente rispetto all’aspettativa e al valore che si dà alla vita.

 

Nell’articolo «Esperienza e rappresentazione» di questo numero si prova a discutere il tema della coscienza rispetto alla nuova organizzazione tecnologica delle cose e alla nuova struttura del potere come potere sulla rappresentazione delle masse, in particolare venutosi a creare nell’arco degli ultimi trent’anni. Nell’articolo, invece, su «Politica e rappresentazione» si discuterà la separazione fra chi governa e chi è governato e la fissità della politica come professione all’interno dei limiti della democrazia dei nostri giorni. Le altre rubriche e, in particolare, gli articoli riguardo il capitalismo cognitivo, le questioni economiche intorno alla crisi e alla decrescita, e il dibattito già iniziato intorno alla sessualità e alla famiglia in quanto tasselli importanti investiti dal cambiamento attuale, provano a costruire un fondamento teorico ampio e più concreto alle posizioni che stiamo sviluppando rispetto alla condizione presente.

 

DICEMBRE 2010

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