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03
Gennaio 2011

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ESPERIENZA E RAPPRESENTAZIONE NEL MONDO SENZA TEMPO

1980 - 2010

Giulio Trapanese

 

1. C’è un’impressione se si guarda alla storia degli ultimi trent’anni: che ne sia impossibile una storiografia. Una storiografia sulla scia della tradizione e dei suoi tempi. Una descrizione entro il quadro dello svolgimento regolare delle cose perpetuatosi, nel corso degli ultimi secoli della storia umana, fino a questo momento. Quest’impressione ci porta a intravedere come gli ultimi decenni abbiano trasformato non solo il contenuto di ciò che si descrive, ma, più che in qualunque altro momento, la possibilità nel modo, nei tempi, e, in definitiva, nel senso, di descriverlo. L’analisi critica della storia appena scorsa è, quindi, immediatamente legata al punto in cui si trova la nostra soggettività, o ciò che di essa ne è rimasto. Nessuna visione ci riporterebbe, infatti, maggiormente al punto di partenza di quella di presentarci come spettatori d’un processo oggettivo, altro da noi, da poter essere descritto – fosse anche per definire l’impossibilità di farlo.

Radicalizzare questo punto di vista, portarlo alle conseguenze più naturali: considerarci soggetti implicati sempre, comunque, nella riproduzione totale del sistema in cui viviamo

 

2. D’altra parte già scrivere davanti ad uno schermo di un computer è inscriversi in un mondo tecnologico all’avanguardia del suo sviluppo e pattuire un senso sempre e comunque contemporaneo. Un essere qui proprio qui, diverso da ieri e diverso da domani. Una localizzazione della nostra soggettività che già parla dell’universo complessivo della realtà della vita di oggi; che già si esprime in una lingua di simboli e cifre, che immediatamente dà un colore luminosamente artificiale alla vista d’uno sfondo, omologa le lettere in identiche battute, rendendo più astratto ciò che è più concreto, sensibile, immediatamente vivo

 

3. Voglio riprendere un testo comparso su questa stessa rivista nel numero 01 a cura di A. D’aloia: «Il mondo virtuale e quello materiale sono invece oggi messi in parallelo, e non in contrapposizione dialettica, nel senso che la virtualità si configura non come una simulazione delle possibilità di cambiare il reale, quindi non come uno strumento d’intervento sul materiale, se non in forme controllate dall’alto e per conto del capitale, ma come universo in sé, sorta di buco nero della creatività sociale in cui dirottare e far scaricare la libido collettiva. Proprio quando la creatività sociale acquisisce una potenza ma avuta prima essa perde però di vista qualsiasi obiettivo di interesse collettivo, una forza tecnologica incredibile senza ricadute concrete sul mondo in cui viviamo che, invece, langue nella dismissione e nel degrado»[1]. La virtualità come universo in sé, che domina, ergendosi a sovrana dall’interno, in modo interiore, produttore di senso.

 

4. Se la virtualità è un fenomeno contemporaneo si può chiedere se la religiosità tradizionale non fosse un antesignano di questa nostra virtualità. Cosa è infatti «religio» da un punto di vista della teoresi se non «forma di rappresentazione di là dalla vita qui»; cioè trasposizione su un piano fisso e senza effettualità dei prodotti della sorgente viva del divenire della vita umana e non?

Cosa è «al di là»? se non al di là della vita comunque tutta qui nell’esperienza dell’uomo con il mondo delle cose, della natura e degli altri individui della sua specie?

Allora: quali sono i paragoni possibili fra queste virtualità storiche e la nostra virtualità cognitiva e sociale di tipo informatico?

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5. Jahvè è più in alto della tecnica e del consumo. Ma Jahvè è anche più esteriore di qualsiasi feticcio della contemporaneità consumistica. Più forte ma più fragile perché in grado di affermarsi solo nella conservazione, nel tenere a freno, nel rinnovare la fede dettando la legge identica a se stessa del divieto. La merce nella forma divulgativa dello spettacolo genera trend, mode, fenomeni stagionali e transitori, cicli non naturali, che in quanto ritorno e ripetizione non finiscono di per sé e non corrono il rischio di essere soppressi una volta identificati nella loro natura. Sono fantasmi che si autodistruggono per poi risorgere dalla cenere inconsistente della fragile coscienza degli spettatori dell’anonimo e luccicante processo di valorizzazione del capitale d’oggi.

Il capitale d’oggi è eterna distruzione ed eterna ricomposizione. Oggetti, coscienza, senso del tempo, vite. Dio era eterno, la religione, una volta proclamata dai suoi profeti, era eterna anch’essa. Bisogna capire oggi le strutture immanenti alla coscienza sociale d’eternizzazione del capitale come esistenza. Di ciò che lo rende impermeabile alla morte, e la forza della sua veste spettacolare come sua difesa.

 

6. Ogni vita umana si salda su rappresentazioni di sé. Senza, è perduta. Diviene trasparente a se stessa nel grado massimo e cioè diviene invisibile. Rappresentazione è nome generico per ciò che fissa una prospettiva, un impegno di veduta, un senso possibile.

Ogni consenso è una rappresentazione. Ogni rappresentazione s’instaura nel varco inconsapevole del singolo e si può esprimere nella coscienza. Ogni consenso vive nell’adesione intima d’una personalità a ciò a cui si lascia appartenere. Non c’è potere senza consenso e rappresentazione. Ogni soggetto è già sempre in un senso che lo trascende come singolo e questo senso è la base anche delle irreggimentazioni di tipo politico.

Società di massa è il massimo livello di dominio delle rappresentazioni. Nel loro variopinto e post – ideologico contenuto, ma anche in quanto rappresentazione di per sé, vale a dire scissione di credenza ed esperienza, di virtualità e presenza. Intelletto in opposizione allo sguardo. La sudditanza all’immagine rispetto alla ragione.

Dominio oggi è frantumazione omologante. Il suo vettore è la velocità dell’elettrone. Il suo potere è l’immagine fissa del vero. Il nostro sempre vero, d’ogni evidenza e opinione, che è sempre falso

 

7. Di quante velocità noi siamo portatori? Velocità al di sopra della velocità della luce (simultaneità o entanglement), velocità elettronica (della luce), velocità della chimica, velocità della reattività nervosa e sensibile, velocità della riproduzione cellulare, velocità della formazione inconscia della nostra vita d’anima, velocità di rappresentazione della coscienza. Tempi e velocità, infine, della critica razionale. Dove vincono la civiltà del capitale e del consumo? In quale tempo noi viviamo prevalentemente? Quanto dura l’incisione d’un evento nella nostra vita e – in relazione ad essa – nella nostra coscienza? Elettronica, schizofrenia, normoticità, canali satellitari, telefono cellulare e rappresentazione sociale degli eventi politici di massa sono legati e legabili dal filo comune della scomposizione della tradizionale vita umana prima della rivoluzione industriale – e in particolare prima dell’ultima rivoluzione informatica

 

8. Bisognerebbe tornare alla critica di Marx nell’Ideologia tedesca (parte I), quando rivendicava la relazione d’ogni rapporto fra le idee degli uomini con i rapporti sociali effettivi fra i singoli considerati nella loro totalità. Tornarci con il fine d’agire e pensare oggi cosa – fra le innumerevoli cose e gli innumerevoli stimoli – ci trasforma e ci forma più di tutto. Cosa ci fa essere di più ciò che noi siamo. Il ruolo dell’economia, nel momento in cui l’economia è al vertice d’ogni interesse da parte di tutti, va – proprio adesso sull’onda della sua compiuta realizzazione – riconsiderato, portato alla luce di ciò che gli dà sostanza, di ciò che è, in un modo o nell’altro, la sua radice.

La demistificazione di allora di Marx oggi è ovvietà, non scandalo. Non perché è presente alla coscienza comune (oramai) psicologizzata di oggi, ma perché esiste già compiutamente nel mondo.

L’intero mondo, infatti, è già e continuamente sempre di più un ammasso di merci e soggetti mercificati. La verità del Capitale come critica dell’economia politica è già reale. Quella del giovane Marx, invece, quando parla della realtà umana come totalità delle sue relazioni sociali non lo è ancora, ad oggi, nella rappresentazione della coscienza

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9. Quanto dura un anno in questi anni? Quanto si mantiene vivo, presente, produttore di senso, un evento significativo? Quali sono i tempi di reazione ( in una visione comportamentista), i tempi di rimozione (visione psicoanalitica), o, più filosoficamente, il valore che l’individuo e la collettività umana danno a ciò che li riguarda più da vicino? Come sono stati gli ultimi quindici anni di regime berlusconiano per la coscienza media? Come si sono susseguiti gli eventi? Quale la continuità, quali le fratture? Quanto è lontano il 27 di questo mese (Ottobre) al 16 della manifestazione indetta dalla fiom a Roma?

Tutto al giorno d’oggi sembra dover produrre sempre un grandioso risultato immediato, e finisce con il passare silenziosamente nel tempo che segue. La gratuità del senso individuale si affianca a quello dell’accadere storico degli eventi. Tutto scorre – non nel senso di ciò che cambia all’interno. Ma in quello del fluire al di là di sé delle cose. Del loro passare senza lasciare traccia reali. Del tempo che consuma se stesso come in una catena senza direzione. Viviamo col tempo una relazione di onnipotente impotenza. Nella mancanza di vincoli della tradizione, nel nuovo corso della libertà assoluta di pensare e agire, tutto si potrebbe fare – e il condizionale lega la coscienza al ritmo dell’astrazione del fantasticare. Nella reale composizione dei rapporti fra le persone, però, in verità, nulla può essere fatto – e in fondo all’ideale euforico della coscienza vive la sua figura disperata d’una vita che non riesce mai ad esprimersi.

Se tutto viene riprodotto, anche nella coscienza, in un ciclo di costruzione e distruzione, la sostanza delle cose rimane la stessa – mentre nella coscienza è diversa ogni giorno. Distruzione della continuità è distruzione della memoria e distruzione della memoria è, così, la distruzione del sentimento di poter agire.

 

10. Il tempo. La struttura fondamentale del nostro esistere. Ogni cambiamento di visione del mondo, del modo di vita fra gli uomini, dei loro rapporti con la natura, può essere – in definitiva – ricompreso all’interno dello spostamento del suo rapporto con il tempo. Bisogna andare in questa direzione, sottovalutata anche dallo stesso pensiero critico e scavarci all’interno con la pazienza dell’indagine e non la fretta della discussione per tesi. Come la società capitalistica di massa dominata dall’elemento tecnico ha trasformato il nostro rapporto con la vita, trasformando il modo in cui noi siamo nel e con e per il tempo.

Possiamo intravederne degli esempi

 

11. Prendiamo gli anni ottanta e la distanza che intercorre tra quegli anni e i nostri. Da un punto di vista astratto si tratta della stessa distanza che c’è fra gli anni cinquanta e gli stessi anni ottanta; o ancora, quella fra gli anni cinquanta – a loro volta – e i precedenti anni trenta. Si tratta insomma d’uno spazio di trent’anni. Cosa possiamo notare? Che negli ultimi trent’anni – ottanta/dieci – il tempo dello svolgimento delle cose è schizzato nella rapidità della vita quotidiana della coscienza, ma che non si è rivelato attraverso passaggi di fase nella coscienza politica di massa e dal punto di vista delle trasformazioni storiche decisive. Si tratta d’un’anestetizzazione della percezione della storia sulla base dello stordimento quotidiano. Al di sotto di innovazioni tecnologiche continue e di anni di cronache quotidiane della vita da parte dei mezzi di comunicazione di massa, i tempi delle trasformazioni più sostanziali sono addirittura rallentati. Si può parlare, da questo punto di vista, d’una scissione entro la coscienza tra il piano della realtà politica e quello della sua percezione di massa. Al di là del caleidoscopio di nuove merci, nuove tecnologie, nuovi stili di vita, la storia prosegue per una direzione sua, su cui non si può interferire in alcun modo

 

12. Da questo punto di vista le nuove tecnologie sono state prodotti e produttori, a loro volta, proprio di questo corso. La televisione – su cui già abbiamo provato in parte ad entrare con una visione[2] – è l’equivalente con il suo ciclo continuo di immagini, voci e programmi, all’interno della coscienza di massa, della continuità innaturale (cioè fuori dallo schema veglia/sonno, giorno/notte) della produzione delle merci senza sosta. Le due onnipotenze – sorte comunque su binari diversi – convergono oggi sempre di più nella definizione d’uno schema spazio – temporale oramai introiettato fin dalla nascita: in qualunque luogo in qualunque momento un’attività o un’esperienza umana può essere riprodotta, ricreata, reificata. L’unicità dei passaggi d’ogni momento del vivere si è spenta nella possibilità artificiale di rifarlo di nuovo – in serie, per imitazione, per contraffazione, non importa. Ogni giorno la serie televisiva di turno può fotografare la realtà quotidiana e accompagnando la quotidianità degli spettatori fermarne, in qualche modo, il suo corso, il suo trapasso, il suo cambiare, vale a dire il suo prendere coscienza. Ci sono troppi cambiamenti perché s’innesti nella coscienza il tempo d’un vero cambiamento da un momento all’altro della vita. Il carattere, se debole, esprime adattamento ad ogni situazione esterna, se forte, la chiusura ad ogni prospettiva diversa, e i due si compenetrano. L’intelligenza, dalla sua, imprigionata nelle immagini date non vive mai più l’attesa della scoperta nella pazienza dell’incompiuto, ma è sempre già pronta a trovare la soluzione tecnica e specialistica dei problemi che incontra. La televisione è un’emozione continua che parla e rappresenta se stessa; è la vera facoltà di psicologia e quella in cui si insegna per davvero il parlare continuo di sé a fini di soppressione della vita. Nessuno parla più, tutti parlano sempre.

Internet, d’altro canto, è una rischiosa continuazione del processo televisivo con altri mezzi. Una copia più grande e potente che potrebbe portare alla distruzione la sua stessa generatrice e il processo che le dà senso, capovolgendo i ruoli della passività comandata e della teledirezione dell’attenzione. Ma questo non avviene, e per il momento non avverrà. Il fenomeno dei social network e del cosiddetto web 2.0 sta a dimostrarlo. Non esiste strumento di controllo di massa più potente e volontario della cultura di massa che permea il fenomeno dei social network, che sta distruggendo – se non l’ha già distrutto quanto almeno a spontaneità, vivacità, legame con la vita reale – un’intera generazione, e contemporaneamente i loro padri e forse i loro, i nostri figli.

L’altro giorno un’attivista politica del movimento degli insegnanti precari di Napoli ha detto che – contrariamente a quanto si pensa – i giovani continuano ad avere dei valori, e di alcuni di questi ce lo rivelano le massime esistenziali pubblicate sulle loro vetrine facebook. Mai come questa volta ciò che si dice è proprio vero: e quelle frasi sono l’ultima dimostrazione, non necessaria, della mercificazione della cultura e della disperata spettacolarizzazione dell’individualità che si viene a generare.

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13. Il cuore di questo discorso dovrebbe puntare sulla consapevolezza che il tema della rivoluzione in Occidente è la microfisica della coscienza. E questo non perché la vita materiale, i rapporti fra individui indipendenti dalla loro coscienza, abbiano perso valore. Anzi. Ma perché nel quadro mondiale di ripartizione di lavoro e risorse la nostra parte è quella in cui il consumo prevale sull’attività di produzione di valore e la politica – in senso proprio – è politica della merce nella sua riproduzione del capitale. Non si può discutere del capitalismo oggi fermandosi all’aspetto produttivo, laddove la nuova struttura globale porta i segni della divisione rigida e ineguale fra diverse parti del mondo. Allora la questione della coscienza rientra sempre e comunque al centro perché il capitalismo nella fase attuale consumistica in Occidente è anzitutto la trasformazione della vita su tutti i fronti e la sua sottomissione alla logica d’un’accumulazione privata di ricchezze in poche mani senza che questa ricada mai socialmente nel verso d’un miglioramento e un progresso, badando a tenere semplicemente ferma ad un certo livello l’asticella necessaria alla riproduzione del consumo.

 

14. Date queste premesse, l’Occidente vive d’una vita morta perché fondata sull’ineguaglianza di ritmi e stili di vita a livello mondiale e sull’assenza completa d’un progetto lungo di proprio sviluppo. Soltanto dal punto di vista delle risorse, nei prossimi cinquanta anni la natura stessa non potrebbe sopravvivere. In questa vita morta – anestetizzata da una parzialità vissuta e inconsapevole – gli individui hanno cominciato, ormai da decenni, a perdere ogni forma di appartenenza. Ma in cosa consiste l’appartenenza? La sua sorgente è l’esperienza di vita. Il lavorare, il proiettarsi, il darsi, l’investire in un qualcosa con altri, facendo di quello il proprio mondo e il proprio senso d’esistere. L’assenza dell’esperienza è legata all’impasse capitalistico di vero sviluppo economico e sociale e al suo perpetuarsi attraverso lo schiacciare gli individui umani – pur nello stato di non lavoro – in figure di passivi consumatori e spettatori d’un processo troppo più ampio di loro, che non appartiene loro e su cui essi stessi non possono in alcun modo intervenire.

Nel tempo spezzato della non – esperienza, ogni astrazione di coscienza ha gioco facile nell’infiltrarsi nel dominio d’attenzione individuale e a fiorire indipendentemente dalla vita sottostante nell’illusione delle convinzioni ed idee quotidiane in cui noi tutti siamo immersi giorno e notte. Dal tempo in cui è iniziata la gestione pianificata da parte del potere capitalistico dei mezzi di comunicazione di massa.

 

15. Se l’esperienza rinvia al destino concreto d’un singolo o d’una parte, la rappresentazione, nel nostro tempo, è – in quanto rappresentazione di massa – l’immediata soppressione dello slancio a prendere e sentirsi parte, il totalitarismo del punto di vista del dominio su quello possibile delle sue singole parti e della molteplicità delle prospettive ancorate alla diversità infinita della vita. Oltre la delega politica si è inserita, infatti, quella della concezione della vita nei suoi aspetti più intimi, nascosti, pre – ideologici. Esperienza di vita e rappresentazione omologata della vita nel nostro mondo senza tempo si scontrano nei margini residui di resistenza e critica. L’esperienza come ciò che àncora e lascia scoprire il reale della nostra condizione ha bisogno, infatti, di tempo e apre al pensiero nella forma della consapevolezza di ciò che siamo e siamo diventati.

La rappresentazione non chiama in causa l’attività, si nutre d’istantaneità frammentate, disincarnate e disimpegnate, che fanno di ogni giorno lo stesso e mai lo stesso; se essa trionfa, è perché si innalza sulle macerie della devastazione della prospettiva temporale dell’esistenza.

 

16. La resistenza di oggi deve innanzitutto riportare alla vita ciò che dalla vita si è separato e introdurre per essa e rispetto ad essa un nuovo campo di immagini e rappresentazioni, che travalichino il fatto della merce e non si lascino consumare al suo ritmo di scarto. Idee pulsanti che possano irrorarsi di sangue e speranza e entrare in contrasto progressivamente con l’arido dominio del vuoto della condizione di oggi e la presunta intangibilità del sempre identico che si ripete. La rivoluzione di domani – se sarà – sarà quella della messa in mora del perpetuarsi senza tempo delle strutture onnilaterali di questo dominio e l’apertura d’una possibilità storica (un tempo d’attesa di nuovo) che offra lo spazio per riabilitare l’uomo al rapporto con i fini delle sue azioni e di riporre in atto - come organizzazione sociale - le potenzialità di interconnessione e comunicazione che lo sviluppo storico è arrivato ad offrirci. La rivoluzione di domani dovrà riaprire la partita con il tempo.

 

NOVEMBRE 2010

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[1] Cfr. Programmazione cognitiva, in Città Future n. 01

[2] Cfr. I nuovi giovani e il narcisismo di massa, in Città Future n. 00