Socialismo come fine
		POLITICA E RAPPRESENTAZIONE
		Alessandro D'Aloia
		
		«I cittadini e le cittadine di tutte le 
		sezioni indistintamente partiranno d'ogni punto in fraterno disordine, e 
		senza attendere il movimento delle sezioni vicine […]; in modo che il 
		governo perfido ed astuto non possa più mettere la museruola al popolo 
		com'è sua abitudine, facendolo condurre, come un gregge, da capi ad esso 
		venduti e che ci ingannano»
		(il pamphlet «L'insurrezione del 
		popolo»)
		(Da Miguel Abensour. La democrazia 
		contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. 
		Pag. 8)
		
		
		Lo Stato
		Estraneo, separato, intoccabile, 
		assoluto, lo Stato si erge contro la società. Nessun urlo lo turba, 
		nessuna doglia lo tocca, sensibile quanto un morto. Cadaverico 
		re-pubblico, esalante miasmi mortali sui vivi, infetta tutto ciò che 
		abbraccia.
		E noi vivi, ancora qui a difenderlo 
		desiderosi del suo abbraccio, convinti di difendere la democrazia, 
		schiavi dell'apparenza.
		Lo Stato come forma politica ereditata 
		dal dispotismo e funzione di un'accumulazione infinita per scopi non 
		umani. L'uomo finalmente mezzo, macchina d'accumulazione, organo 
		meccanico del «corpo senza organi» del capitale. Dove va il lavoro? 
		Quali sono i frutti dell'immenso affanno sociale che ogni giorno fa 
		muovere il mondo? Cosa resta dell'affanno di una vita e di quello di 
		miliardi di vite? Oscuri restano i fini, ma certi e sempre più concreti 
		i sacrifici. Chi credeva in una vita laica si ritrova a condurre 
		un'esistenza religiosa, e chi credeva nell'esistenza di un suo Dio 
		osserva, inconsapevole, un dio diverso e terreno, tutti indistintamente 
		devoti alla propria immolazione.
		
		Stato e politica: la rappresentazione 
		capitalistica
		Dov'è la politica? Chi conosce una voce 
		della politica irreligiosa? Ne esistono? Esistono voci politiche che 
		rifiutano il sacrificio dell'uomo come unico comandamento, da cui 
		discendono in varia forma tutti gli altri?
		Si vedono operai recalcitranti, che 
		reclamano pause di 10 minuti, si vedono studenti che chiedono udienza 
		per discutere del loro avvenire, cittadini che chiedono di essere 
		liberati dalle esalazioni velenose di un consumo totalmente 
		disorganizzato ed ormai esploso. Si vedono cioè sporadicamente 
		svilupparsi movimenti che organizzano temporaneamente la propria 
		incursione su una scena politica che non gli appartiene. Ma nessuno di 
		questi movimenti riesce più ad aprire la porta di questa politica 
		barricata in bunker di vetro. I movimenti, cioè le persone, sono fuori 
		dalla politica e sono «il fuori della politica». Ma dov'è allora la 
		politica, da quale lato del vetro? 
		Dietro lo schermo un grande teatro, 
		dotato perfino di una struttura architettonica tipologicamente coerente 
		alla rappresentazione, dove la politica delle parole si rappresenta a se 
		stessa e al mondo. Poi questa scena, poco interessante per la verità, si 
		dirama in altre cabine della rappresentazione: le infinite stanze 
		domestiche, dove senza interruzione alcuna lo spettacolo prosegue in 
		forma diretta ed indiretta, arricchendosi, nel pa(e)ssaggio di vetro, di 
		inesauribili variazioni, che lo rendono più avvincente. Ma la recita, 
		essendo la sostanza fatta di parole, continua anche in forma scritta sui 
		libretti d'opera che preparano lo spettatore durante il giorno allo 
		spettacolo serale, mettendolo in grado di non perdersi nessun passaggio 
		essenziale. Siamo sempre dentro un teatro, ma solo da pubblico pagante. 
		Tutto è importantissimo tranne la verità.
		Il dato è che ciò che si rappresenta è 
		per ciò stesso rappresentato, cioè finto. E tutto ciò che non viene 
		rappresentato non esiste affatto sulla scena. Siamo cioè nel dilemma 
		della scelta fra una non-esistenza e una mera rappresentazione. Di 
		conseguenza la politica è in effetti qualcosa di inesistente come 
		verità. Come l'identità del soggetto è in generale pura costruzione[1], 
		abbiamo che l'identificazione fra politica e Stato risulta a sua volta 
		completamente artificiale. Cioè mentre crediamo che la politica sia 
		quella cosa cui assistiamo quotidianamente e forzosamente, è vero 
		esattamente il contrario: non si tratta di politica. La rappresentazione 
		sostituisce la realtà, e il vero 
		diventa un momento del falso come diceva Guy Debord. La politica 
		appare come il centro di questo falso. Essa non è. Lo Stato è la cornice 
		di questo nulla.
		Verità e rappresentazione
		Ma se allora la politica va ricercata 
		nel suo fuori, nel suo altrove, dove si realizza la democrazia? 
		«[…], se non si cerca di qualificare la 
		democrazia, essa rischia di perdere ogni volto riconoscibile, […]. Nel 
		linguaggio quotidiano […], essa non viene forse continuamente confusa 
		con lo Stato di diritto o con il regime rappresentativo?»[2].
		Questa contraddizione evidente e 
		crescente fra azione sociale in movimento e politica non denuncia 
		un'assenza strutturale di democrazia? Se per politica si intende a vario 
		titolo lo Stato, non c'è in tutta evidenza un'opposizione fra Stato e 
		democrazia? Miguel Abensour nella sua opera
		«La democrazia contro lo Stato. 
		Marx il momento machiavelliano» sostiene proprio questo e cioè che 
		lo «Stato democratico» è una pura contraddizione in termini, essendo 
		impossibile per uno Stato essere il luogo della democrazia. Il demos per 
		sua natura molteplice e numeroso (dotato di un'identità impossibile) non 
		può essere contenuto nel parlamento, da cui la nascita del concetto di 
		rappresentanza e la sopravvivenza della tragedia greca nella forma della 
		politica contemporanea. Un teatro greco confina, incornicia, ad un tempo 
		il nostro inconscio e il luogo del nostro agire politico. Il popolo è, 
		in linea teorica, rappresentato. Ma i rappresentanti sono dei cani come 
		attori. Confondono le parti, ma tant'è.. si tratta di spettacolo.
		Per questo forse, un attore (Carmelo 
		Bene), dai suoi palchi ci negava il gusto della rappresentazione, 
		inscenando la verità in teatro visto che la finzione scenica regnava già 
		dappertutto. 
		«L'anagrafe, lo studiarsi di 
		sopravvivere ci condanna all'in-formarsi, per formarsi, deformarsi, 
		ingobbire leopardianamente, pur d'avere una parte […].
		Si è costretti all'esserci trafelato: 
		questo piegarsi alla rappresentanza, ai libri, […]. Non si scampa alla 
		volgarità dell'azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione 
		di Stato»[3].
		La rappresentazione, prima ancora del 
		meccanismo della rappresentanza, nega qualsiasi verità in politica, così 
		come una fotografia perturba l'espressione di un soggetto, che appena è 
		consapevolmente davanti ad un obiettivo è immediatamente fuori da se 
		stesso. Il principio di indeterminazione di Heisemberg ha qui una 
		valenza extra quantistica e pienamente filosofica. Verità e 
		rappresentazione non formano una coppia compatibile, non possono essere 
		osservate contemporaneamente senza indeterminazione. E lo stesso si può 
		dire dell'identità di classe, appena si cerca di rappresentarla 
		politicamente essa svanisce e questo al di là del fatto oggettivo che le 
		classi subalterne siano prive oggi, in Italia, di una qualsiasi 
		rappresentanza politica nelle istituzioni[4], 
		dato che quando così non era, a maggior ragione la loro voce politica 
		era il loro principale inganno.
		«I politici al potere tradiscono il 
		movimento politico. Ma avevano avuto mai un'altra intenzione o un'altra 
		funzione?»[5].
		Rappresentazione e potere
		Ogni gradino dell'ordinamento sociale, a 
		livello istituzionale e para-istituzionale è caratterizzato da una 
		gerarchia, con un'autorità riconosciuta che dirige e una parte sempre 
		numericamente maggiore che esegue. 
		«Ogni ottocento italiani, uno è 
		presidente: del condominio, della Pro Loco, della squadra di calcio, di 
		una qualche confraternita di mangioni»[6]. 
		Si tratta sempre di riproduzioni in 
		piccolo che «rappresentano» il modello dello Stato (articolazione 
		infinita dei principi di autorità e rappresentazione). In ognuna di 
		queste pieghe, come insegna Foucault, esiste e si riproduce una qualche 
		forma di potere ed una costante separazione fra direzione e base, fra 
		«dirigenti» ed (etero)-«diretti». Pieghe di potere che piegano al 
		potere. Pullulare di piccole «macchine dispotiche», riproduzioni in 
		scala della macchina dispotica statale. Ogni dirigente incarna 
		l'autorità e ogni potere genera da un lato rappresentati e dall'altro 
		rappresentati in relazione gerarchica. Questo schema è la realizzazione 
		di una perenne trasformazione dialettica dei mezzi in fini, per cui 
		l'importante è rappresentare un qualsiasi fine o interesse, piuttosto 
		che realizzarlo. Per ogni fine un «apparato». Anzi, la rappresentanza di 
		un interesse è direttamente in contraddizione con la sua realizzazione, 
		dato che realizzato il fine di una qualsiasi associazione umana, nata 
		per esso, verrebbe meno la necessità di rappresentarlo ufficialmente con 
		conseguente caduta dell'autorità e del potere legati all'esistenza di 
		quell'interesse, che legittima la presenza sulla scena di una qualche 
		figura dirigenziale qualsiasi, di un altro «attore-soggetto» politico. 
		Ottenere uno scopo significa, al contrario, sciogliere una piega di 
		potere, licenziare un attore, dismettere un apparato.
		Lo Stato, come lo conosciamo, fornisce 
		il modello indiscusso di ogni organizzazione umana di fini, dal 
		parlamento alla famiglia, alla struttura del nostro inconscio. La 
		funzione principale della modellazione di qualsiasi attività ad immagine 
		e somiglianza dello Stato è quella di arrestare nella pura 
		rappresentazione ogni fine sociale con l'alibi dell'organizzazione 
		concreta della sua realizzazione legale, che però è sempre differita a 
		tempi futuri, ma si sa: il futuro non esiste. 
		È l'arte del differimento permanente 
		dell'essenziale.
		Questa formidabile capacità delle 
		istituzioni (statali e parastatali) di fallire i propri obiettivi, è uno 
		dei principali strumenti di conservazione (dello Stato). Lo Stato si 
		conserva attraverso il fallimento dei propri fini istituzionali. Solo 
		funzionando male, funziona. Tutto ciò che si plasma su questo modello, 
		diventa un'eccezionale macchina di conservazione, dall'esito 
		inesorabile, al di là delle intenzioni iniziali di chi cerca, anche in 
		buona fede, di farla funzionare bene. Ecco che il parlamento (modello 
		eccellente) proprio mentre assorbe i movimenti sociali (quando lo fa) in 
		realtà li ferma, li congela, aggiungendo semplicemente un posto a 
		tavola. Un movimento non può realizzare i suoi fini stando fermo. Ecco 
		perché l'attuale collocazione di tutti i movimenti sociali fuori dal 
		parlamento è un regalo inaspettato che priva, al momento, il potere 
		della sua capacità istituzionale di riassorbirli, fornendo loro la 
		grande possibilità di non venire congelati. Questo è un corto-circuito 
		imprevisto. 
		Ma l'estraneità al parlamento non è 
		ancora un fuori completo dallo Stato, visto che è lo Stato stesso, la 
		sua struttura gerarchica, ad essere attiva dappertutto.
		Ripoliticizzare la politica
		Per questo è necessario oggi, e subito, 
		prima di incorrere nella sventura di venire riassorbiti, ripoliticizzare 
		la società a partire da questa possibilità materiale, ma riflettendo, 
		per una volta, sulle modalità concrete di questa «ripoliticizzazione».
		«[…]. Se ripoliticizzare la società 
		civile porta a rivelare l'esistenza di una comunità politica 
		suscettibile di porsi contro lo Stato, evidentemente
		essa non può essere concepita sul 
		modello dello Stato, totalità organica, società politica unificata e 
		riconciliata»[7].
		Per una volta si pone il problema di 
		ripensare al modo giusto di organizzare gli scopi politici. Per farlo, 
		il processo di ripoliticizzazione della società, deve lottare su due 
		fronti. Da un lato esso è posto per natura fuori dallo Stato e questo 
		significa che deve concepire la sua azione politica al di fuori dei 
		meccanismi di rappresentanza, ora che è anche costretto a farlo. Ma 
		questa è necessariamente una lotta contro lo Stato intesa come rifiuto 
		del modello organizzativo che lo Stato richiedendo, impone. 
		«Dover pensare la politica fuori dalla 
		soggezione allo Stato e fuori dalla cornice dei partiti o del partito»[8].
		Dall'altro lato questa modalità di 
		esistenza politica richiede una rottura con la «sinistra» 
		politico-parlamentare intesa secondo Alain Badiou.
		«Chiamiamo «sinistra» l'insieme del 
		personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di 
		assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare 
		singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire 
		un «esito politico» ai «movimenti sociali»»[9].
		La rottura con la sinistra politica 
		sintetizza la necessità di rompere con il parlamentarismo e con 
		l'implicazione sottintesa che il potere rimanga sempre in mani diverse 
		(e professionali) da chi anima i movimenti sociali (i non-politici). È 
		anche una questione di saperi 
		e di discipline, oltre che di 
		classe sociale, dato che se è previsto il mestiere di politico, la 
		politica è cosa da politici e non da incompetenti. I saperi separati 
		sono allora estensioni della macchina di potere, parti di un copione già 
		scritto. Per questo è necessario rivendicare prepotentemente un'attiva 
		incompetenza politica.
		«Il movimento di massa è essenzialmente 
		proletario, ma c'è un'accettazione del fatto che la contropartita debba 
		essere l'avvento al potere di cricche di politicanti […]»
		
		
		
		[10].
		Un popolo orfano di esponenti politici. 
		Se questo poteva essere un obiettivo oggi è per fortuna un dato. Inutile 
		e controproducente rincorrere il recupero di una sinistra rappresentanza 
		professionale.
		L'attenzione per lo Stato, non è la 
		messa tra parentesi della premessa strutturale di una economia classista 
		come origine delle disfunzioni sociali del capitalismo, o del conflitto 
		fra capitale e lavoro, ma l'osservazione del fatto che il classismo 
		della borghesia si serve della macchina statale, intesa in senso lato, 
		come modello organizzativo dell'attività sociale, per condurre il 
		conflitto in questione nell'ambito della premessa del proprio dominio 
		preventivo. Lo Stato serve a conservare, mediante la distribuzione di 
		poteri. Se non si analizza la regola del potere separato, non si può 
		capire in che modo agire per non partire già sconfitti. La necessità di 
		spezzare il dominio inumano del Capitale, passa attraverso il compito di 
		spezzare la proliferazione delle pieghe del potere, non si ottiene 
		quello senza questo. Perciò diventa centrale parlare di politica 
		piuttosto che di economia. Lo Stato e la legge sono il primo organo di 
		potere del Capitale. Il potere istituzionale è sempre legale, non per 
		questo giusto.
		Politica e verità: democrazia o 
		rappresentazione
		Il tema è la ripoliticizzazione della 
		società civile, come operazione funzionale al ristabilimento della 
		verità storica fuori dalla sua rappresentazione.
		Ecco la straordinaria attualità della 
		Comune di Parigi, che è l'attualità del problema democrazia.
		«Come ogni autentico evento, 
		La posizione nei confronti dello Stato è 
		essenziale per discernere la natura reale di un processo di creazione 
		storica. Una politica nuova deve essere indipendente dallo Stato, sia 
		come forza motrice del cambiamento, sia come mentalità organizzativa, 
		pena essere già nel dominio della rappresentazione capitalistica.
		«[…]. Questa forma di affermazione del 
		politico, non si iscrive forse in ogni rivoluzione moderna, che voglia 
		manifestare in atto la «capacità politica» del popolo, […]? Non è in 
		gioco questo, nel confronto delle posizioni rivoluzionarie? Una, quella 
		giacobina, che chiede di impadronirsi dello Stato; l'altra, quella 
		comunalista o consiliarista, che aspira a distruggere lo Stato, per 
		lasciare campo libero a una comunità politica antistatuale, la stessa a 
		cui Marx si riferiva pensando alla Comune di Parigi, col termine 
		misterioso di «costituzione comunale»»[12].
		In che termini si pone dunque la 
		questione del potere? Si vuole semplicemente impadronirsi dello Stato, 
		macchina di potere, o si vuole distruggere la macchina di oppressione e 
		lasciare che la società provi ad auto-determinare la propria esistenza? 
		In ambo i casi si sta ponendo una questione di potere, nel primo caso 
		esso passa solo da un gruppo all'altro (o anche da una classe all'altra) 
		ma restando separato e quindi intatto come meccanismo, nel secondo caso 
		esso si fonde con la società, estinguendosi come produttore di una 
		specifica categoria professionale, di uno specifico sapere e correlata 
		disciplina. Il giacobinismo è ampiamente sperimentato storicamente, e ci 
		riconduce dritti al parlamentarismo attuale, il consiliarismo della 
		Comune di Parigi, invece, non ha mai conosciuto periodi lunghi di 
		esistenza, ed è oggi, non a caso, completamente negletto a 140 anni 
		quasi esatti dalla sua prima apparizione, ma è questa la strada. Sono 
		due modi diversi di porre la questione del potere.
		Per la precisione, non si sta ponendo 
		una diatriba fra marxismo ed anarchismo, ma una questione fra democrazia 
		e sua rappresentazione, fra soggettività e assoggettamento politici.
		Si tratta di una lotta contro il potere, 
		che incidentalmente è lotta contro la borghesia dato che è questa la 
		classe che incarna il potere, esprimendo lo Stato, da qualche secolo a 
		questa parte, ma il discorso è generale, dato che il potere, in tutte le 
		sue forme storiche è sempre stato pura antiproduzione con un fine 
		economico ben definito: il lavoro altrui. 
		«Non sono nato per essere nato. Nato per 
		lavorare, per il vicinato, per essere un buon cittadino […]»[13].
		Lo Stato assorbe plusvalore sociale, ma 
		affinché tale assorbimento-estorsivo sia possibile, è necessario che la 
		società lavori in silenzio, senza altre velleità. Il potere è 
		sovrastruttura ed il suo fine è perciò sempre economico. Lo Stato e i 
		padroni (anche se li si considera soggetti diversi) hanno i medesimi 
		interessi, anche quando (e a differenza di oggi), apparentemente lo 
		Stato rappresenta tutti. Apparentemente significa questo: in generale il 
		«proletariato» è la parte da rappresentare, la borghesia è attrice. 
		La differenza fra Stato e classe 
		capitalista dal punto di vista economico è solo nella forma di 
		appropriazione, il primo si appropria di plusvalore legalizzando 
		l'estorsione sotto la voce tasse (debito infinito), la seconda 
		appropriandosi il combinato di produzione industriale e derivata 
		speculazione finanziaria, entrambi discendenti dalla proprietà privata 
		dei mezzi di produzione. Il capitalismo di oggi è una ruberia 
		generalizzata in cui vicino alle forme estorsive sue naturali 
		(plusvalore derivante dalla produzione industriale) sopravvivono varie 
		forme di estorsione pre-capitalistica, in cui il plusvalore è ancora 
		frutto di prelievo indebito (sistema bancario, rendite immobiliari, 
		tassazione del lavoro, sfruttamento del lavoro sommerso, etc.). 
		L'insieme di tutte le voci è l'accumulazione infinita ed astratta di 
		capitale. Accumulazione esterna alle cose dell'uomo.
		«[…] il godimento è privilegio 
		dell'Altro (il capitale, Dio. Protagonista è il denaro). […]. Tu devi 
		lavorare, […]»[14].
		Tutto ciò non potrebbe esistere senza il 
		lavoro, ergo il potere è, infine e principalmente, imposizione di lavoro 
		sociale. Il lavoro è essenziale ai fini del potere, il suo primo ed 
		unico comandamento di cui tutta la morale (edipica) è corollario. Il 
		lavoro è ubbidienza. 
		La democrazia rappresentativa è tale 
		perché non potrebbe essere reale senza impedire, per ciò stesso, 
		l'appropriazione del lavoro. Rappresentare la democrazia è il fine della 
		spettacolarizzazione del reale, vale a dire l'imposizione del falso. Il 
		problema democrazia è quindi il cuore del meccanismo del potere. 
		Distruggere il potere serve ad eliminare l'appropriazione privata del 
		lavoro sociale. L'economico discende dal politico, viceversa l'economico 
		si impone al politico e l'accumulazione resta al di sopra del fine 
		sociale (umano). Va bene, ad esempio, la pianificazione centralizzata 
		dell'economia, ma chi stabilisce il fine della pianificazione? Chi i 
		beni da produrre, le quantità, le modalità, gli orari di lavoro, le 
		ferie, la pericolosità, la nocività, l'opportunità? Tutto ciò si 
		manifesta economicamente ma è essenzialmente politico. È un problema di 
		democrazia. La democrazia è la fusione di politico ed economico. Essa è 
		un'azione continua.
		«La democrazia non è un regime politico, 
		ma innanzi tutto un'azione, una modalità dell'agire politico […]. 
		L'azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è 
		un'azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a 
		riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati […]»[15].
		Tutt'altro dunque che una scelta fra 
		imposizioni preconfezionate una volta ogni qualche anno.
		«Decidere una volta ogni qualche anno 
		quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il 
		popolo nel parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo 
		borghese, non solo nelle monarchie costituzionali, ma anche nelle 
		repubbliche più democratiche»[16].
		La democrazia come mezzo: una prassi
		Come accade che un sindacato faccia le 
		veci del potere? Che un'organizzazione dei lavoratori si elevi, alla 
		fine, contro di loro? Come accade un Bonanni? Come accade
		 una rappresentanza al di là dei 
		rappresentati? Accade al fine di realizzare l'ubbidienza sociale del 
		lavoro. Il rappresentante dice sì e i lavoratori lavorano più di prima, 
		silenziosamente. Questo è il parlamentarismo al di là del parlamento. 
		Non è democrazia, è Stato. Bonanni, come sindacalista singolare, incarna 
		la nuova tentazione del parlamentarismo crepuscolare: superare 
		l'ostacolo dei rappresentati, mettere fuori chi non dice subito sì. In 
		questo senso l'accordo di Mirafiori è una chiave di volta nella 
		concezione affermata del parlamentarismo, un tentativo di ritorno al 
		parlamentarismo pre-repubblicano, la sostituzione delle Rsu con le Rsa[17], senza tener 
		conto della parentesi dei «consigli di fabbrica» rimossa dallo Statuto 
		dei lavoratoti. Non che le Rsu facciano parte di una concezione 
		anti-statuale, al contrario, ma la critica della democrazia 
		rappresentativa non significa non riconoscere passaggi di stato al suo 
		interno. Il concetto di democrazia è già sotto i ferri, ma dall'alto, 
		per amputarla definitivamente.
		Se questo è possibile lo è perché 
		un'organizzazione dei lavoratori funziona, in definitiva, come lo Stato. 
		Perché non si può dire no, perché i rappresentati non hanno, in realtà, 
		nessun potere: tu devi lavorare.
		Allora è utile intervenire in questo 
		processo e impugnare i ferri dal basso per «operare» la democrazia, non 
		per amputarla.
		Bisogna partire da vicino per arrivare 
		allo Stato. Il condizionamento autoritario dell'azione politica è ciò 
		che abbiamo chiamato una «sinistra edipizzata». La necessità di una 
		sinistra anti-edipica sintetizza l'idea di una politica anti-statuale, 
		cioè l'idea di una politica liberata dall'autorità della guida 
		personificata piegata all'idea del lavoro come imposizione 
		indiscutibile. Innanzitutto bisognerebbe chiedersi come mai esistono i 
		sindacati gialli, chi vi si iscrive, perché 
		Questa sensazione non è sporadica, ma 
		permanente. La struttura è sempre presente, è sempre là, mentre tutti i 
		giorni si lavora, mentre tutti i giorni si vede che le cose non vanno 
		bene. Questa coesistenza temporale della struttura e del cattivo 
		andamento del quotidiano è un potentissimo fattore di (dis)educazione 
		sociale, per altro dissimulato. 
		In effetti i lavoratori «allineati» 
		sentono giusto, e perciò sono rassegnati, materia inerte. I «non 
		allineati» sono invece degli irriducibili, che si oppongono a ciò che 
		anche loro sentono, ma che non possono accettare, condannati per questo 
		a bruciarsi in un secondo lavoro che difficilmente li porterà al 
		traguardo, anche e soprattutto quando il traguardo è parziale. Fra i 
		primi, depressi nel lavoro, e i secondi, momentaneamente elevati ad una 
		seconda funzione (politica), si instaura una barriera, una separazione, 
		nel frattempo si continua a lavorare, entrambi hanno torto avendo 
		ragione. Anche quando si sciopera la prospettiva è sempre quella di 
		tornare al lavoro, non quella di discutere del lavoro, del suo perché. 
		Tutto pur di non pensare.
		Bisogna partire da vicino. Se il modello 
		statale conforma tutto, è proprio questo modello che va messo in 
		discussione, ma a partire dalle strutture più vicine a noi. La domanda 
		è: cosa sostituisce la struttura del fare. Il che equivale a chiedersi 
		cosa sostituisce, allo stesso tempo, il condizionamento inconscio della 
		coscienza, il sindacato, il partito, lo Stato. Come si esce dalla 
		rappresentazione, per fare diversamente, per fare un mondo diverso?
		«Una politica appare quando una 
		dichiarazione è anche e contemporaneamente una decisione sulle 
		conseguenze; quando cioè una dichiarazione è attiva nella forma di una 
		disciplina collettiva precedentemente sconosciuta»[18].
		
		La politica deve servire a cambiare lo 
		stato di cose presente, se non serve a questo non è politica. La 
		democrazia è lo strumento della politica. La democrazia è un fare 
		continuo. Il fare educa, la teoria sorge dal fare, sistematizza, ordina 
		ma non al di fuori del fare. Fuori dal fare la teoria non può essere 
		«filosofia della prassi», ma solo filosofia (separata).
		La rappresentazione separa i ruoli, 
		separando i lavoratori. Non è voluto, è automatico nel sistema statale, 
		che crea potere diffuso, automaticamente, al pari della produzione 
		industriale quando crea plusvalore automaticamente prelevato dal lavoro. 
		Lo Stato è creazione di plus-potere (antiproduttivo, ma molto 
		auto-riproduttivo), l'equivalente politico del plusvalore economico. 
		L'unica possibilità di rompere l'automatismo del prelievo di lavoro è 
		quella di rompere il meccanismo dei poteri legali.
		La nozione di legalità è 
		contraddittoria. Le attuali forme di illegalità sono banali. Per 
		illegalità si intende, ad esempio, il crimine organizzato con l'uso di 
		armi. Ma questa idea di illegalità è puramente economica. L'illegalità 
		attuale ha un fine economico fortemente estorsivo, in realtà essa è 
		interna all'economia statale, è solo la quintessenza del concetto di 
		competitività, portata un po' al di là delle regole scritte, come lo è, 
		in fondo, la guerra. I potenti non usano le armi potendo scrivere le 
		leggi. La criminalità organizzata è un altro tipo di azienda privata, a 
		torto definita l'anti-stato. Ma la struttura criminale non differisce in 
		nulla da quella statale, c'è una cupola cioè una direzione, una 
		gerarchia, degli esecutori, dei militanti armati, una devozione 
		incondizionata all'autorità dei capi. Più strutture in competizione, più 
		capi in lotta economica. Se un elemento anti-stato è presente nelle 
		organizzazioni criminali esso va individuato nella loro modalità di 
		costruzione del consenso locale, attraverso la sostituzione di talune 
		assenze sociali dello Stato, la copertura di alcuni vuoti.
		Ma per anti-statuale bisogna invece 
		intendere tutto ciò che organizzandosi rifiuta le forme previste ed 
		imposte dallo Stato. Qualcosa che non esiste ancora non può essere 
		prevista dallo Stato, per questa sua natura di novità essa è 
		anti-statuale e conseguentemente «illegale». Tutto ciò che è nuovo è in 
		qualche modo illegale, fino a quando non viene «codificato» dallo Stato. 
		Niente può essere riconosciuto nel diritto se non è «brevettato». O lo 
		Stato codifica un movimento, assorbendolo, o un movimento «decodifica» 
		uno Stato. Per decodificare lo Stato bisogna essere non-codificabile. 
		Potrebbe essere che non sia codificabile, ciò che non risulta 
		rappresentabile.
		«[…] non c'è qualche rischio a legare la 
		democrazia selvaggia a quella di diritto, alla lotta per la 
		conservazione dei diritti acquisiti e la conquista di nuovi diritti? […] 
		la lotta per il diritto – […] – non si conclude forse, volens nolens, in 
		un rafforzamento dello Stato? Solo volgendosi all'idea di diritto 
		sociale, l'idea di democrazia selvaggia potrebbe restare fedele alla sua 
		vocazione anti-statuale. È questo uno dei maggiori paradossi del 
		progressismo contemporaneo: nel suo continuo invocare il «diritto a 
		[…]», esso finisce sempre per chiedere l'approvazione dello Stato e allo 
		stesso tempo lo rafforza, come se niente potesse farsi senza il consenso 
		dello Stato»[19].
		Invocare il «diritto a» equivale a dire 
		che non si può pensare ad un futuro diverso dal presente, che 
		l'evoluzione della civiltà umana deve restare congelata nella forma 
		politica sancita dalla rivoluzione borghese, dimenticando che quando la 
		borghesia è andata al potere essa stessa era illegale. La legalità non 
		può essere posta fuori dalla storia, non può essere un concetto 
		assoluto.
		«In altri termini, nella democrazia – 
		[…] – l'agire politico resta ciò che è, nella misura in cui esso resiste 
		a una trasfigurazione in una forma organizzatrice, unificatrice, e cioè 
		in uno Stato. […]. La democrazia è antistatuale o non è. Dopo aver 
		compreso questa evidenza, si capisce facilmente perché i suoi cantori 
		abituali, […], raccomandino un uso moderato della democrazia, in modo 
		tale che – […] – l'eccezione democratica svanisca, lasciando il posto 
		alla contraddizione in termini costituita dallo «Stato democratico», 
		pensato come Stato di diritto o come cornice insuperabile»[20].
		Lavorare ai dualismi di potere.
		Un'altra domanda fondamentale è cosa 
		significhi vincere. Le lotte si danno, al pari dei fenomeni naturali: 
		accadono. Ma come si fa a capire quando una lotta vince? Prendiamo 
		l'esempio delle lotte studentesche contro la «riforma» Gelmini. Per ora 
		la lotta è stata sconfitta, dato che la riforma è legge. Ma se anche non 
		fosse diventata legge, la lotta avrebbe vinto, mantenendo cogente la 
		situazione attuale? cioè l'attuale situazione dell'istruzione pubblica è 
		adeguata alle aspirazioni degli studenti? Non sembrerebbe così. Allora 
		si può realmente vincere una qualsiasi lotta se questa è ridotta sempre 
		e solo alla difesa di una parte di diritti acquisiti che altri vogliono 
		erodere? Cioè si può vincere se non si lotta per l'affermazione di un 
		diverso concetto di istruzione pubblica che però è già in essere 
		concretamente? Se questo concetto non è in essere per cosa si lotta? Non 
		si vede l'obiettivo, per cui diventa difficile che la lotta non rientri, 
		prima o poi. Il differimento temporale dell'obiettivo è la condanna 
		attuale delle lotte. L'istruzione è statale, la produzione industriale è 
		privata, entrambi sono antidemocratiche. L'obiettivo dovrebbe essere 
		quello di democratizzarle, di ristrutturarne la gestione in modo nuovo. 
		Un'industria senza padroni, un'istruzione senza docenti, ad esempio. 
		Occupare l'università è giustissimo, ma per fare cosa? Per continuare la 
		didattica, per rivoluzionarla, per ri-organizzarla creativamente, per 
		sperimentare concretamente un'altra università, piuttosto che per 
		cercare a tutti i costi una scena su cui rappresentare il dissenso. Il 
		dissenso non ha bisogno di essere rappresentato, esso va realizzato in 
		forma, solo così può farsi esperienza e generare teoria. Poi la legge 
		privatizza l'università, ma l'esperienza, fino allora temporanea, 
		dell'occupazione si propone come alternativa permanente, nella sua 
		acquisita capacità di organizzarsi fuori dallo Stato, oltre esso. Se non 
		esiste un'altra università, non si può sostituire la vecchia e non si 
		può vincere. 
		Marchionne ricatta Pomigliano, poi 
		Mirafiori, poi gli altri, con lo spauracchio della migrazione 
		produttiva. Bisogna giungere allora al punto in cui si sia in grado di 
		rispondere: «bene, signor Marchionne, si accomodi. Noi prendiamo la 
		produzione in mano e la riorganizziamo, senza il suo consenso, senza 
		quello del sindacato, suo emissario. Poniamo in essere un altro modo di 
		gestione dell'industria». La necessità del fare mi costringerà a 
		organizzare l'attività, mi imporrà una disciplina, ma questa disciplina 
		non deve venire dall'esterno, sarà un'auto-disciplina, stabilita 
		democraticamente da chi lavora, priva di gerarchia fissa.
		Il mito dell'impossibilità di fare 
		alcunché senza controllo esterno è molto potente, ma è un mito. In fondo 
		tutti lo sappiamo. 
		Se devo fare una partita a calcetto e 
		non c'è arbitro, la partita si fa ugualmente. I giocatori si 
		disciplinano da soli. Siamo cresciuti a partite senza arbitro. Il gioco 
		è in generale fuori controllo esterno, allora i bambini ci insegnano che 
		si può. 
		Se devo affrontare un evento imprevisto, 
		magari catastrofico, non aspetto la protezione civile prima di fare 
		alcunché. 
		In città purtroppo non si conoscono 
		alcune pratiche ricorrenti della civiltà contadina, ma fuori città sì, 
		ancora per un po'. Quando si vendemmia, ad esempio, i contadini 
		organizzano insieme e a rotazione il calendario delle vendemmie vicine, 
		in modo da assicurare la presenza di mano d'opera moltiplicata a turno 
		su un campo di vendemmia alla volta, per sbrigare tutto in una giornata, 
		mediante un lavoro collettivo. Funziona a perfezione e non c'è nessuno 
		che comanda.
		Le città medioevali non conoscevano 
		urbanisti e muratori professionisti, se le costruivano i contadini 
		stessi con le loro braccia, secondo un disegno comune. Le città 
		medioevali erano pianificate. Oggi l'urbanistica vive della sua 
		frustrazione.
		L'uomo vuole essere guidato. No! L'uomo 
		è stato abituato ad esserlo.
		«Se lo Stato è una forma possibile di 
		comunità politica, non ne è però la forma necessaria. Ciò vuol dire 
		riconoscere che sono esistite, che esistono, che possono esistere 
		comunità politiche diverse dallo Stato e che non trovano il loro 
		compimento, la loro perfezione, nello Stato. Comunità politiche 
		a-statuali o antistatuali. In effetti sono concepibili forme di comunità 
		politiche che si costituiscono contro lo Stato, contro la creazione di 
		un potere separato»[21].
Fare pratica. Siamo 
		costretti a prendere in mano la situazione, come dovettero fare gli 
		operai di Parigi nel 1871, per porre fine allo sfacelo. Tanto più si 
		pone la questione del fare in un'epoca in cui il capitale piuttosto che 
		produrre vuole guadagnare, piuttosto che sporcarsi le mani con la 
		società e i suoi problemi, vuole realizzare rendita pura. Il capitalista 
		moderno non si sente «produttore» ma «speculatore». La finanza è il suo 
		nuovo orizzonte, la produzione dà solo grattacapi, dato che non si può 
		produrre da soli, comodamente, come si fa per giocare in borsa, giocare 
		con i soldi (degli altri).
C'è proprio molto 
		da fare, anche solo per aggiustare, per mantenere, tutto ciò di cui il 
		Capitale si infischia sempre più alla grande. Mentre l'accumulazione 
		privata cresce al punto di superare le economie di Stato, il mondo va a 
		rotoli. È evidente che l'accumulazione è del tutto estranea ai fini 
		umani.
		Cosa sostituirà i partiti? Dal 
		partito-stato al partito a-statuale
		Se la politica impara a concepirsi fuori 
		dallo Stato essa abbandona la cornice istituzionale e quindi la 
		tradizionale forma partitica degli interessi di classe, processo tra 
		l'altro in corso, per altre ragioni. Il partito ha il compito primario 
		di educare i suoi membri alla capacità di guidare la società. Lo Stato 
		educa ad essere guidati, il partito deve educare, tutti indistintamente, 
		a guidare. Deve essere promotore del passaggio dall'assoggettamento 
		politico della massa, alla piena soggettività storica. La parola partito 
		ha senso solo se esso diventa il luogo in cui
		la massa impara ad organizzare la sua presenza nella storia come 
		soggetto politico. Il partito per fare questo doveva essere, 
		gramscianamente, una vera e propria scuola, siccome non lo è mai stato, 
		ha fatto il suo tempo di partito-stato. Ma se l'identità di una 
		molteplicità è impossibile da rappresentare essa deve essere realizzata 
		secondo le regole di un'azione senza volto. I processi storici 
		effettivamente importanti sono stati sempre il risultato di un'azione 
		storica delle masse, del popolo. Ma dire «popolo» significa negare il 
		ruolo dell'identità, al di là della strumentalizzazione da parte di 
		alcune personalità erette a simbolo di un momento storico. È sempre il 
		popolo ad agire. 
		««Per tre volte [nel 1792, nel 1848 e 
		nel 1870] il proletariato francese ha fatto la repubblica di cui gli 
		altri si sono impadroniti, adesso è maturo per la sua repubblica»[22].
		Quell'adesso 
		è in essere da 140 anni.
		Superare la «forma partito» non vuol 
		dire negare la necessità dell'organizzazione, ma semplicemente pensare 
		l'organizzazione secondo forme indipendenti dall'autorità statale e di 
		conseguenza indipendenti dalla personificazione (rappresentata), dalla 
		riduzione del molteplice all'uno. Solo ciò che avviene fuori dallo Stato 
		può essere irriducibile ad esso. 
		Si pensi alla burocrazia. I partiti 
		politici, che vogliano essere democratici pensano ancora oggi che la 
		massima espressione di democraticità sia il congresso, cioè la 
		riproduzione di forme parlamentari all'interno del partito, con elezioni 
		di dirigenti una volta ogni paio d'anni, quando va bene. Così facendo 
		sottomettono l'azione del partito ai tempi burocratici, impossibili, di 
		una democrazia rappresentata. Che fine hanno fatto i principi della 
		revocabilità in qualsiasi momento e della identica condizione fra 
		membri, tutti elettori ed eleggibili? Non erano i rappresentati a dover 
		controllare i rappresentanti? È credibile un partito di classe che 
		propina un nuovo Stato all'esterno mentre applica il vecchio Stato al 
		suo interno? C'è troppa puzza di muffa in tutto questo. Si entra in un 
		partito per la voglia di fare, se ne esce convinti che è tutto inutile. 
		I partiti come le altre istituzioni statali, insegnano ad aspettare, a 
		differire, a sottostare, sono il buco nero della politica. Castrano 
		l'espressione e il coinvolgimento, spingono a fare «carriera» politica, 
		respingono i non politici, respingono i lavoratori. Annullano la 
		politica al di fuori della «carriera». E sempre abbiamo politici di 
		professione da una parte, non-politici dall'altra: separazione. I 
		politici perseguono fini individuali, i non-politici eleggono a fede la 
		sfiducia.
		Come si pensa allora ad 
		un'organizzazione che attiri invece di respingere? Che catalizzi i 
		movimenti che sorgono nella società dandogli spazio di espressione 
		attiva? Come è possibile che nessun partito sappia concepirsi al di là 
		di un leader carismatico ed ad una struttura gerarchica? E che sappia 
		interrogarsi sulle possibilità di stare ai tempi degli eventi, senza 
		pretendere che gli eventi stiano ai tempi burocratici? Perché è 
		derisorio pensare che un'organizzazione politica possa realizzare una 
		piena trasparenza del proprio coordinamento sul territorio sfruttando le 
		nuove tecnologie di connessione? Tutti a declamare le caratteristiche 
		strumentali della tecnologia ma nessuno a farne reale strumento 
		organizzativo. Internet, nell'utilizzo che se ne fa, è solo una vetrina 
		in più, monodirezionale quanto un canale televisivo. Le possibilità 
		(rizomatiche) della rete, sono una potenzialità, non un automatismo. Un 
		mezzo a rete può sempre riprodurre al suo interno una struttura ad 
		albero, che nega relazioni fra tutti i nodi, appropriandosi la 
		circolazione delle informazioni. È normale che un'organizzazione 
		politica non senta inadeguato ai tempi, il rimanere laterale 
		all'utilizzo di internet, senza pensare ad un suo diverso uso possibile? 
		Quando la rete si fa capillare, la politica ne resta fuori. Paura 
		dell'incontrollabilità della democrazia? Questa resistenza all'apertura 
		non rende stucchevoli le critiche all'informazione di Stato pensate al 
		di fuori di un modo diverso di fare informazione? Tutto questo parlare 
		accanto alle cose non serve solo a separare costantemente teoria 
		(ideologica) e pratica politica? Una politica è credibile nel fare, ma 
		siamo ancora nell'epoca del dire e del proclamare. Bisogna passare dalla 
		lotta «contro» alla lotta «per».
		Per nuove tecnologie di connessione 
		dovrebbe intendersi anche il tentativo, apparentemente paradossale, di 
		ripensare lo spettacolo e la comunicazione al di fuori della 
		rappresentazione, ad esempio.
		«Negli anni settanta, dopo l'esperimento 
		di Tele Biella, prima tv via cavo (chiusa), le piccole televisioni via 
		etere che pullularono per anni, e che adesso sono drasticamente regolate 
		e ridotte, pullulavano a loro volta di individui che facevano 
		televisione di grado zero. […] Non c'è stata mai l'apertura di una linea 
		continua e, di fatto, non c'è mai stato neanche nulla di simile a una 
		Tele Alice, una televisione aperta dove inserirti continuamente. […], ci 
		rendiamo conto di quanto sia arretrata la televisione rispetto a se 
		stessa […]; adesso la televisione dovrebbe solo disfarsi, già in questo 
		momento – ora, qui – sparire, […]»[23].
		Ripensare la comunicazione, fuori dalla 
		rappresentazione di Stato, implicherebbe un impegno attivo ed 
		alternativo delle energie sociali e coinvolgerebbe tutto il discorso 
		sull'utilizzo sociale del media intesi in senso lato (televisioni 
		libere, radio libere, dove potersi inserire costantemente, stampa 
		autoprodotta, internet e reti come possibilità di coordinamento 
		territoriale e fra lotte), volto a disarticolare il controllo dall'alto 
		che opprime la comunicazione attuale. Diventa necessario riconquistare 
		l'aria come mezzo, altro che l'attuale umiliazione quotidiana di talenti 
		allo sbaraglio nelle televisioni private e di Stato.
		Prima di far deflagare un vecchio ponte 
		bisogna costruirne accanto un altro nuovo e non c'è motivo per non 
		partire subito a progettarlo.
		Allora se la politica non si dà una 
		democrazia attiva in permanenza come strumento di organizzazione, è 
		impossibile sia praticare qualsiasi alternativa che fare esperienza 
		costruttiva, per giungere a porre in atto dualismi di potere in ogni 
		campo. Senza dualismi in atto le lotte non possono vincere. Non c'è 
		luogo della politica al di fuori della democrazia. 
		La democrazia è il fuori della 
		rappresentazione.
		
		GENNAIO 2011
		
		Bibliografia
		
		-  M. ABENSOUR.
		La democrazia contro lo Stato. 
		Marx e il momento machiavelliano. Cronopio, 2008
		- A. BADIOU. 
		- J. BAUDRILLARD.
		La società dei consumi. I suoi 
		miti e le sue strutture. Il Mulino, 1976
		- C. BENE.
		Carmelo Bene. Opere, con 
		l'autografia d'un ritratto, 
		«Autografia d'un ritratto». Classici Bompiani 2002
		- E. GHEZZI.
		Il mezzo è l'aria. Passaggi 
		Bompiani, 1997
		- G. DEBORD.
		La società dello spettacolo. 
		Baldini Castoldi Dalai, 2002
		- G. DELEUZE, F. 
		GUATTARI. Millepiani, capitalismo 
		e schizofrenia. Castelvecchi, 2010
		- V. I. LENIN. 
		- G. LUKAKS,
		Storia e Coscienza di 
		classe,«Considerazioni metodologiche sulla questione 
		dell’organizzazione», Oscar Studio Mondadori, 1973
		-
		
		R. LUXEMBURG.
		Rosa Luxemburg. Scritti politici,
		«Problemi di organizzazione della 
		socialdemocrazia russa». Editori riuniti, 1976
		- 
		C. MARX. 
			
				
				
				
				[1]
				Cfr.
				Storia e (in)coscienza di 
				classe, in Città Future n. 02
				
				
				
				
				[2] 
				Miguel Abensour. La 
				democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. 
				Cronopio 2008. Pag. 7
				
				
				
				[3] 
				Carmelo Bene. Autografia 
				d'un ritratto, in 
				Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto. 
				Classici Bompiani 2002. Pag. VII
				
				
				
				[4] 
				Cfr. Fascismi in 
				evoluzione. Il monoclassismo istituzionale in Italia, in 
				Città future n. 00
				
				
				
				
				[5] 
				Alain Badiou. 
				
				
				
				
				[6]
				
				Elenco di frasi di Enzo 
				Biagi sull'Italia, 
				letto nella IV puntata di
				Vieni via con me.
[7] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 29
				
				
				
				
				[8]
				Alain Badiou. 
				
				
				
				[9] 
				Ibidem, pag. 37
[10] Ibidem, pag. 33
				
				
				
				[11] 
				Ibidem, pag. 66
				
				
				
				[12] 
				Miguel Abensour. La 
				democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. 
				Cronopio 2008. Pag. 28
				
				
				
				[13] 
				Carmelo Bene. Autografia 
				d'un ritratto, in 
				Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto. 
				Classici Bompiani 2002. Pag. VII
[14] Ibidem, pag. VIII
				
				
				
				[15] 
				Miguel Abensour. La 
				democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. 
				Cronopio 2008. Pag. 8
				
				
				
				[16] 
				V. I. Lenin. 
				
				
				
				
				[17] 
				A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, la brusca 
				interruzione del processo di unità sindacale avviato negli anni 
				precedenti contribuì a mettere in crisi la sintesi raggiunta tra 
				la rappresentanza elettiva dei Consigli di fabbrica ed il 
				sistema di designazione delle
				rsa, introdotto 
				dall’art. 19 dello Statuto, il quale imponeva garanzie di 
				presenza alle varie sigle presenti nei luoghi di lavoro. Negli 
				anni precedenti, l’esperienza unitaria aveva infatti consentito, 
				in molti settori, in particolare industriali, di fare 
				sostanzialmente coincidere le Rappresentanze sindacali aziendali 
				dell’art. 19 delle Statuto con i Consigli di fabbrica, e ciò in 
				quanto venivano nominati 
				rsa dalle organizzazioni sindacali proprio coloro i quali 
				risultavano eletti dai lavoratori come delegati. Ma sul finire 
				degli anni ’80, la crisi dell’unità sindacale aveva contribuito 
				a creare situazioni difficilmente sostenibili: ad esempio nel 
				settore metalmeccanico per almeno un biennio 
				Fonte:
				www.wikilabour.it 
				
				
				
				
				[18] 
				Alain Badiou. 
				
				
				
				[19] 
				Miguel Abensour. La 
				democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. 
				Cronopio 2008. Pag. 20
				
				
				
				[20] 
				Ibidem, pag. 21
				
				
				
				[21] 
				Ibidem, pag. 28
				
				
				
				[22] 
				Alain Badiou. 
				
				
				
				[23] 
				Enrico Ghezzi. Il mezzo è 
				l'aria. Passaggi Bompiani. 1997. Pagg. 56, 57