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03
Gennaio 2011

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Senescenza (del) Capitale

CONTRO LA DECRESCITA

Ovvero il nemico del mio nemico non necessariamente è mio amico

Nicola Marziale

 

Il dibattito sulla decrescita è uno dei fatti più interessanti nell’economia politica «radicale» degli ultimi anni. Affondando le sue radici nelle considerazioni «fisicaliste» sulla termodinamica applicata all’economia di Nicolae Georgescu-Roegen e negli studi sociologici «natualisti» di Karl Polanyi, la linea di riflessione lanciata da Serge Latouche e ripresa rapidissimamente in tutti i paesi sviluppati negli ultimi anni ha dimostrato di avere una forza comunicativa difficilmente eguagliata su temi analoghi e di essere facilmente traducibile in slogan e in un vero e proprio piano d’azione politica, come chiaramente rivendicato nelle opere di maggiore diffusione.

 

Questo è senz’altro un fatto positivo. Senza arrivare agli abissi epistemologici dei Fukuyama degli albori della reazione post muro di Berlino, per la prima volta da allora, una proposta di rottura degli equilibri economici esistenti trova cittadinanza piuttosto ampia nel dibattito sulla struttura economica consolidata nel mondo globalizzato.

 

Gli autori «decrescisti» dicono senza compromessi che questa struttura economica così com’è non ha futuro, che è destinata a corrompere il vivente sul pianeta, avviandolo su un percorso di consumo continuo (anzi di consunzione) nel quale in un futuro neanche troppo lontano ci perdono tutti, anzi in ampia misura ci stanno già perdendo.

 

In quanto segue faremo riferimento a Latouche senza soffermarci troppo sulle necessarie articolazioni che il pensiero «decrescista» è andato producendo, confidenti che il lettore interessato potrà in autonomia approfondirne gli spunti, restando ovviamente a disposizione per ogni chiarimento. Il senso di questo breve articolo è quello di delineare il quadro di riferimento della nostra critica alle suggestioni decresciste, con l’obiettivo di stimolare un dibattito sui diversi temi che questo filone ha sviluppato. Nella risposta ai feedback che verranno avremo modo di focalizzarci su temi tanto diversi (quali la critica allo «sviluppismo», l’opzione «pauperista», la produzione e le monete locali-complementari) la cui trattazione qui ci sembra possa creare entropia, senza aggiungere chiarezza.

 

Il punto di partenza della riflessione di Latouche è il rifiuto della nozione capitalistica di sviluppo intesa come aumento del prodotto interno lordo. Fin qui nulla di stravolgente o di particolarmente nuovo. Per i marxisti tale nozione non ha mai avuto senso (essendo tutt’altro rispetto al riferimento marxiano allo sviluppo delle forze produttive), e anche per i borghesi più «illuminati», il concetto di pil mostra la corda da alcuni decenni. Risale a quasi cinquant’anni fa un noto discorso di Bob Kennedy in cui attaccava l’inadeguatezza del pil come misura del benessere, anche solo economico.

 

Il limite di tale misura sta nella sua microfondazione, ovvero nel tener conto dei risultati economici individuali dei diversi attori economici banalmente sommati, senza tener conto della visione d’insieme degli effetti della produzione. In questo senso, per i marxisti, il filtro del mercato sublima l’anarchia della produzione capitalistica e quindi nulla dice delle condizioni di riproduzione del sistema economico, per i borghesi il pil non considera in alcun modo le esternalità positive o negative dei comportamenti individuali e quindi restituisce visioni parziali del complesso delle attività economiche. Il concetto ci pare in entrambi casi di agevole comprensione: il riferimento ai rifiuti, la cui iperproduzione e lo smaltimento in discarica ben esemplificano il dramma della produzione contemporanea (che fa un sacco di pil) può essere un più chiaro esempio dei limiti di tali misure.

 

Alla domanda «ce n’è una migliore?» la risposta non può essere che negativa. I marxisti non la cercano così, perché rappresenterebbe i desiderata informativi di un soggetto sociale che combattono (mentre sarebbero certamente interessati a misure del prodotto - e del progresso - in una economia pianificata socialista); i borghesi, che si affannano nella ricerca di soluzioni alternative che si sforzino di ricomprendere altre dimensioni, non potranno trovarla perché implicherebbe una scelta arbitraria delle dimensioni da includere, cosa teoreticamente impossibile secondo canoni liberali.

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La soluzione di Latouche parte della distinzione delle merci dai valori d’uso, nel far questo rifugge da una logica di mercato classica, ma approda ad un insieme di valutazioni soggettive, e quindi inerentemente non confrontabili in quanto espresse da soggetti diversi. Questo problema dell’individuazione dei soggetti del «sistema economico» decrescita è una chiave di lettura di cui terremo conto in maniera generalizzata, perché costituisce, come speriamo di dimostrare, il vero limite della traduzione politica dei bei precetti della decrescita.

 

Precetti che veniamo presto ad elencare; nel superamento della logica dell’incremento del pil, Latouche propone alcune linee d’azione che dovrebbero scardinare l’agire del soggetto economico così come è oggi, e reindirizzarlo su binari possibili (en passant Latouche critica, giustamente, la nozione di sostenibilità dello sviluppo, in quanto non decisiva nel determinare i cambiamenti necessari della produzione ai fini della «conservazione» dei sistemi biologici planetari).

 

Con una formulazione molto di moda nelle pratiche aziendalistiche, ed anche abbastanza efficace, Latouche individua «8R» come cambiamenti interdipendenti che dovrebbero condurre alla decrescita «serena, conviviale e sostenibile»: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Spiegheremo brevissimamente in seguito che cosa s’intende con un esempietto, tratto dalle pagine di Latouche, per ciascuna di queste voci.

 

Rivalutare l’insieme dei valori «borghesi» consodilati, far prevalere l’altruismo sull’egoismo, sostituire l’idea della dominazione della natura con la ricerca dell’armonia con essa;

 

Riconcettualizzare l’idea di ricchezza/povertà, il binomio scarsità/abbondanza, superandone le caratterizzazioni indotte da logiche di mercato;

 

Ristrutturare l’apparato produttivo e i rapporti sociali adeguandoli ai nuovi valori di cui sopra;

 

Ridistribuire il «debito ecologico» tra nord e sud, ad esempio attraverso meccanismi di «mercato» di diritti di prelievo ecologico che perequino «l’impronta ecologica» del genere umano;

 

Rilocalizzare, ovvero produrre in massima parte a livello locale i beni necessari al soddisfacimento dei bisogni delle comunità;

 

Ridurre l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di vivere e consumare;

 

Riutilizzare/riciclare, combattere «l’obsolescenza programmata delle attrezzature e riciclare i rifiuti non direttamente riutilizzabili».

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A corredo di ciascuno di questi precetti, Latouche propone una serie di esempi virtuosi, in genere estremamente localizzati e settorializzati, che dimostrano come determinate vie alternative siano possibili.

 

Questo è senz’altro vero, come sono senz’altro condivisibili molti dei precetti sopra elencati, il punto politico però è chi dovrebbe mettere in atto questi comportamenti e come. In altri termini, se i comportamenti individuali possono certamente essere improntati ad una maggiore attenzione per la biosfera et similia, come si fa il passaggio dal livello micro al livello macro? Sempreché tali comportamenti individuali siano possibili, ad esempio: posso senz’altro fare in casa la raccolta differenziata, ma a che serve se poi non ho dove conferire i rifiuti così differenziati?

 

Come per i dieci comandamenti, insomma, nulla osta a che siano applicati a livello individuale ed anzi sembrano, come le 8R, in larga parte condivisibili, ma sono sufficienti a costituire l’infrastruttura «valoriale» del vivere sociale? Noi riteniamo di no, sia per i dieci comandamenti che per le 8R in quanto entrambe le liste (si portano ultimamente!) nulla dicono sulle modalità di soddisfacimento dei bisogni materiali delle persone, anzi, nel caso delle 8R pretendono pure di determinarli, cosa che ci pare drammaticamente idealista oltre che dimostrata preclusa dai teoremi di impossibilità di Arrow/Sen (i quali nelle loro interessantissime dimostrazioni attestano l’impossibilità dell’esistenza di meccanismi di integrazione delle scelte quando sussistano vincoli di rispetto di un insieme pur minimo di valori liberali classici, e.g. l’assenza di un «dittatore»).

 

In definitiva, se il dibattito sulla decrescita si sviluppa, senz’altro lungo i binari di un sensatissimo attacco alla condizioni capitalistiche di produzione, riterremmo non si possa configurare come sostanzialmente anticapitalista proprio perché nulla dice di chi e come si debba determinare la produzione, fermandosi ad un livello di sacrosanta critica delle storture dell’attuale sistema.

 

Ma non presenta alternative al mercato, né al sistema economico nel suo complesso.

 

Al mercato, anzi, pretende di ricorrere per assegnare cose del tipo i citati «diritti di prelievo», rimanendo così all’analisi già fatta da Coase e Pigou una 70ina di anni fa a proposito dell’assegnazione dei «diritti di proprietà» per risolvere i problemi derivanti dalle esternalità nella produzione, o nel consumo di beni comuni. Un meccanismo analogo è al cuore degli accordi di Kyoto, a partire dal quale non ci sembra siano derivati grandi risultati in termini di protezione ambientale, mentre è nato un mercato fiorente (finanziarizzatissimo ed altamente speculativo) di «quote d’inquinamento», attraverso i quali si perpetuano dinamiche di allocazione della produzione tra paesi del nord e del sud del mondo determinate dalle rispettive forze contrattuali.

 

Infine, il processo di agnizione politica cui la decrescita rimanda è strettamente individual-comunitarista, cosa che sarà pure di gran moda contro la globalizzazione ma, a nostro avviso, è poco oltre una risposta isterica e monca rispetto all’offensiva del capitale, cui vanno invece contrapposte costruzioni sociali in grado di giocare un ruolo nella strutturazione della produzione, ed in questo senso il ruolo di aggregazioni comunitaristiche ci pare di limitato momento, ancorché ben utile nel sollevare il problema.

 

Su questo passaggio, interessante, chiudiamo questa breve riflessione. La dimensione comunitaristica è stata spesso associata, in questi ultimi anni, a intensissime lotte, più o meno fortunate, contro questo o quel progetto. Su questa dimensione si è frequentemente giunti a compromessi che hanno allungato nel tempo la realizzazione dei contestati progetti o ne hanno determinato l’abbandono o la realizzazione secondo modalità differenti. Queste lotte hanno il grandissimo merito di aver chiamato all’attivismo politico grandi strati di popolazioni altrimenti difficilmente mobilitabili, con il rischio intrinseco di «bruciare» in tempi molto ristretti grandi energie. Sull’onda di queste esperienze, che conquistano per la loro grande forza, significativi spazi mediatici, la riflessione decrescita ha tratto indirettamente notorietà e rilevanza. Rispetto a quelle lotte, però, riteniamo non abbia né capacità maieutiche né mostri la rivendicata cifra rivoluzionaria.

 

DICEMBRE 2010

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