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03
Gennaio 2011

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Coscienza di classe e consenso oggi

QUATTRO PASSI (Versione completa)

Giulia Inverardi

 

Ho curato attentamente di non deridere, né compiangere, né tanto meno detestare le azioni umane, ma di comprenderle[1].

Partiamo da qui: quattro passi sull’antica via Valeriana[2]. È una camminata tranquilla, un sentiero qualsiasi. Sicuramente ne hai uno simile vicino a casa tua: niente salite ripide, niente tratti accidentati; la via segue il lago, senza perderlo di vista o arrampicarsi troppo sui monti attorno. È un percorso distensivo: dopo aver digerito il pranzo della domenica, si prende una giacca, ci si lasciano alle spalle le tre case tutte strette fra loro, come pettegole in riunione, e si comincia a uscire dall’aria bassa. Sei pronto?

Partiamo da qui: non hai granché voglia di stare a sentire come vanno le cose, in Italia; di considerare le ragioni degli scontri avviati dappertutto, da tutte le categorie sociali, o di concentrarti su quelle macchinose truffe di cui senti la puzza chimica sempre attorno. Non hai voglia di sviscerare dati e notizie, anche perché in proposito hai già le tue idee. Non schermirti o spazientirti; infondo le cose stanno così, non c’è problema. Sei pronto a partire?

Immagino: quando qualcuno è certo di poterti spiegare, e lo pretende, «cosa c’è sotto», «come stanno davvero le cose», un senso di repulsione ti pulsa per la bocca. Ti pulsa ancora prima che le frasi siano formulate, prima che scendano in merito: è l’intenzione di chi parla, la sua aria, a chiuderti stomaco e orecchie. Ti sembra che le conferenze di questi interlocutori, le cui facce hanno un'ombra di pericoloso, di insostenibile, abbiano tutte secondi fini e secondi pregiudizi: sono programmate solo, da concezioni di partenza, a dimostrare la stessa partenza, e da quella non prescindono neanche a morire. Ti sembra soprattutto che siano assurdi, questi dispensatori di unica verità: si preoccupano di tutto meno che delle persone in carne ed ossa, oneste, sul tono del «Io amo l'umanità. È la gente che non sopporto!»[3]. Sulle nuvole di un mondo ipotetico, ignorano le situazioni che si possano toccare, quella dell’uomo della strada. Vogliono parlare del mondo, ma è come se parlassero di Marte. Ti senti aggredito da loro: allora, abbassi una saracinesca e su quella le loro parole meccanizzate scivolano indolori, senza suono.

Qualcuno ti avrà detto che sei egoista e superficiale, che ignori le tue responsabilità; se poi invece ti esprimi, che parli per slogan, che non approfondisci. Io posso confidarti solo che la prima nausea la conosco anch’io. A me capita così: sono gettata sul letto, in quell’ora quando il giorno è già andato e la sera non riserverà rivelazioni o rivoluzioni per te, e non penso a un problema preciso, ma cerco di tener insieme pezzi di significato, e troppe cose nella mia vita non vanno come voglio, mi sento imprigionata, assediata dalle cose che si vogliono da me, che non si lasciano capire, mi sento non all’altezza, affogare. In quei momenti, sentir parlare di qualsiasi alta questione mi urta come un’invasione senza senso. Come è inutile tutto!, inutile e irritante, ogni considerazione di qualsiasi avvenimento, se non so nemmeno come tirare a domani, non so nemmeno se riesco a finire un respiro? Non mi chiedo se sono egoista, superficiale; c'è solo una voce che dentro mi parla, lettere scandite e lente, inequivocabile: devo prendere un capo della matassa mia. I fumi dei fatti importanti, le inafferrabili dinamiche del potere, e le questioni esistenziali, politiche, sociali, beh, non esistono o stanno oltre me, le ho già decise e inchiodate oltre il lago nel quale affogo: io devo solo concentrarmi per stare a galla, secondo per secondo, respiro per respiro, secondo per secondo. Tutto il resto è una scenetta oziosa a teatro, e riguardo a tutto il resto devo avere idee oltre me, di pietra[4].

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La prima tappa, se ti va di fare quattro passi con me, è qui, alla «Casa Rossa», come la chiamano nei paesi attorno: dalla panchina che le sta davanti si vede ancora la la «pancia» del lago, di là; è una vista che entrandoti dagli occhi ti allarga il petto con il lago più grande di te, e pacifica. È bello, vero? Non c’è niente, niente di più bello del lago.

La prima tappa, è qui, è che tu ti fidi di alcune cose. Io non sono l’illuminata dal Signore, né voglio esserlo. Non cerco la luce riflessa dei discorsi impegnati. Nessun politico, storico, statista o sistema mi ha messa in una forma. Non mi sento investita di una missione di salvazione del mondo. Non amo a priori l’umanità, provo da un po’ a pensare alla gente. E la gente ora non mi preme proprio di giudicarla, non miro a giudicare niente e nessuno: te o tuo padre; il tuo voto politico o la tua religione; il motivo, l'occasione o il modo in cui le tue convinzioni si sono formate; come impieghi il tuo tempo, le tue facoltà intellettive, i tuoi soldi. So che al tuo fondo intimo non posso accedere, so che ogni persona ha i suoi perché, belli perché segreti. Soprattutto: non voglio cambiare forzatamente quanto detto sopra. Non voglio insegnarti nulla, mi ha convinta l’idea che «nessuno educa nessuno, come nemmeno nessuno si educa da solo. L’umanità si educa in comunità, insieme nel mondo»[5]. Qua in questi passi, si parla personalmente di fatti importanti, non d’aria fritta o drammatica. È come quando con amici te ne stai in quel bar, e arrivi a parlare senza ansia, di te e del tuo. In definiva, quel che mi preme è questo: capire[6]. Solo per questo ho voglia di camminare con te.

Ti spiego il percorso, facendoti un esempio.

Ad un bar di Iseo, sul lago, un sabato sera, sono seduta con una persona; in questa occasione scherziamo soprattutto, ma in altre capita che il senso di dissenso, o il dover aprire gli occhi per quanto uno dei due ha detto, o lo spaesamento nel dibattere, sia così bruciante da far sudare gli occhi.

Dietro di noi c’è una coppia, non li vedo, ma dalle voci posso capire che sono giovani, avranno la mia età. Parlano anche loro. Il ritmo e il tono però restano sempre identici, come una piccola mitragliatrice umana, anche quando il volume della voce si alza.

Ecco quello che sento:

«Quei sei sulla gru ci costano 25.000 € al giorno…ma oh!»[7]

«Dovremmo tirarli giù a sassate…»

C’è qualcosa di rituale, nella cadenza. Sembra che i due cementino l’inattaccabilità delle parole nello specchio della faccia accesa dell’altro.

«Hai proprio ragione…Come a Napoli…Poi noi paghiamo per pulirgli le strade, mentre là loro smerdano tutto, ma è che proprio loro non hanno il senso della pulizia…»

«Finisce che paghiamo sempre noi, come a Roma! Chi paga a Roma per i danni di quegli studenti? Vorrei vedere io se spaccassero le loro di vetrine!»

«Ma quelli non han niente da fare tutto il giorno…roba da matti…io li manderi in miniera!»

«Ma sai che sono già stati assolti!»

«Eh, ma guarda che comunque non avrebbero fatto nemmeno due giorni di carcere, tra buona condotta e stronzate simili…»

«Hai ragione, è uno schifo! E noi dovremmo rispettare i giudici, fidarci di loro! Io ci sputo sopra a quella magistratura!»

«Brava! Quanto hai ragione!»

«Eh beh, io dico quello che penso!».

Mentre camminiamo, vorrei dirti cosa suscita in me l’ascolto di frasi simili: all’inizio solo ira, perché come si può limitare la propria presa di posizione, la propria bella voglia di intervenire sul mondo, al ripetere suoni? Senza declinare le situazioni, senza vedere il contesto, senza sapere così tante cose o senza volerle collegare, rendere valide? In un secondo momento, vago per la stanza da un lato all’altro, mi prende la tristezza e cerco geometrie che la sopiscano. Infine, mi fermo con gli occhi vuoti: né arrabbiarsi, né giudicare, né essere tristi ha senso. Mi rendo conto che il mio Paese è allo sfascio completo, uno sfascio mai visto, e che niente di quel che mi viene spontaneo - rabbia, tristezza, indignazione - è utile. L’esempio è per farti capire che non voglio altro che capire.

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La seconda tappa, a questa svolta nella strada, è intima: i bassi alberi di castagno si prendono i rami, e il tunnel sotto di loro respira un’aria arancione come le foglie, da fiaba o da ultraterreno.

La seconda tappa te la racconto, perché è personale: vorrei farti vedere qualcosa di me, diciamo col cuore in mano, ma meno retoricamente, e brevemente. Non ti voglio sfiancare, anche perché se decidessi di tornare indietro, forse ora ti perderesti, o ti chiederesti se più in là ci sarebbe stato qualcosa di interessante, per te.

Da piccola odiavo la politica. Tutti la odiavano, per verità universale: la politica è una faccenda sporca di sotterfugi e tangenti, dietro sorrisi ideologici, quanto più lontana dagli uomini. Crescendo, ho iniziato a far caso a qualche frase e idea, ma solo nei due mesi che precedevano le elezioni, per il vago sentore che fosse importante scegliere, anche «il male minore». Oggi, penso che la politica italiana ospiti «mali maggiori», «mali minori» e pochi uomini almeno limpidi; anche, che sia giunta ad uno stadio di putredine e «malizia» non immaginabili anche solo vent'anni fa. Ad oggi ho focalizzato, dopo molti fuori percorso, una manciata di principi miei autenticamente, pilastri del mio modo di intendere azioni e idee, sullo scacchiere della realtà. Sono i luoghi in cui il mio impulso incontra la mia ragione. Cerco invece di scovare ed evitare gli a priori, anche quelli più seducenti per me, che sono ben diversi da quei pochi pilastri: la destra la sinistra, il giusto lo sbagliato, il bianco il nero. Mi piace, a questo proposito, Albert Camus, e le sue tranquille confessioni che rispecchiano una mente libera[8], anche perché la libertà di scelta è proprio ciò che dà valore alla scelta stessa. Raramente qualche politico si fa portavoce di un mio principio o sente il dovere di aiutarmi a comprendere, a farmi un’opinione attorno ad un tema essenziale, fornendomi dati e punti di vista numerosi. Questo aspetto mi sembra molto grave: è un vero abbandono.

Scusa, mi dilungo. Voglio dire che se la politica si prende carico del benessere della società, nessuno escluso, nessuno per primo o secondo, la trovo nobile come niente altro; se essa è solo la maschera di interessi e bassezze personali, mi fa schifo: questa è una banalità fondamentale, un 2+2 da non sottovalutare! Anche nel secondo caso, comunque, cerco di non limitarmi a bollare la politica come schifosa: prendere atto della realtà delle cose non può essere un fine, dovrebbe essere il mezzo per muovere il passo fuori casa. Migliorare le cose non è sempre possibile, ma agire lo è sempre, e le azioni che contrastano lo stato paludoso delle cose sono le sole che danno senso alla vita. A qualsiasi vita, di qualsiasi tipo siano le convinzioni di chi agisce. È il senso della compatita utopia: non raggiungerla per forza, ma far qualcosa, qualcosa!, verso di essa[9].

Beh, torniamo al cammino. Ho studiato in una facoltà umanistica: le cose che mi riescono meglio riguardano la scrittura; penso che leggere sia uno dei piaceri della vita più pieni, e che nella letteratura siano sparse, come stelle di firmamento, imperdibili lezioni di rispetto, di conoscenza, di multiformi verità sulla vita, sull’uomo. La letteratura è la strada più certa per distruggersi e ricostruirsi, all’infinito, un poco meglio, e questo oltre ad emozionarmi è anche un utile sociale invisibile, ma tangibile[10]. Mi piace sapere cosa accade intorno a me: non posso soffrire che qualcuno provi ad alterare avvenimenti e parole del mondo, e dunque ciò che sono e voglio, utilizzando la menzogna, facendosi beffe di me o di qualcuno, dietro di noi. Una rabbia struggente esce, come se mi torchiassero qualcosa di molle infondo all’anima, quando un uomo infierisce su un altro più debole, magari alzando la voce; quando un uomo non ha voce per lamentarsi; quando un uomo si addormenta in scelte, lavori, espressioni facciali espulse da altri, per paura di guardare se stesso e le condizioni della vita.

Ecco, stai camminando con una persona così, una «buona persona» credo, non ottima, spesso irritante. Sono benintenzionata in genere, e so che questo, in genere, non basta. Sono arrivata, prima di iniziare a passeggiare con te, a questo crocevia di punti: il punto a cui è giunta la mia vita; quello a cui è giunta la vita delle persone attorno; quello a cui è giunto il mio Paese. Arrivata, mi è sembrato fosse ora di cominciare a passeggiare con altre persone: quelle vicine di primo grado o di quinto grado, o lontane. È ora: per capire anzitutto, perché se non lo faccio la mia vita non ha senso. Sì, direi che questa passeggiata con te è ciò che dà un senso valido alla mia vita.

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Ora siamo ad un buon punto, la terza tappa: siamo a Tassano, è un bel borgo tutto ciottoli e travi di legno antico, anche odore di mucca, sì, per essere onesti.

Questo è il punto della terza tappa: se la rabbia non è utile, se la tristezza e i buoni intenti nemmeno, cos’è utile a migliorare le cose? Cosa resta, poiché dura in me la convinzione che cercare di migliorare attorno è l’unica cosa da fare? Secondo me, è utile prima di tutto cercare di capire. Secondo me bisognerebbe, prima di parlare, capire: capire perché oggi in genere gli uomini, più sono oppressi e penano per sopravvivere, meno hanno voglia di ascoltarti, di sapere «come stanno davvero le cose».

Attento, ora c’è un fiumiciattolo da saltare. Attento. Perché, voglio capire, un uomo intelligente giudica pesante ogni discussione vitale, ed evita come la peste il dibattito o il dato certo? Perché si rifugia in luoghi comuni che, analizzati con lucidità, giudicherebbe un'offesa alla sua capacità di ragionamento? Perché non si accorge di costruire le proprie opinioni con armi innescate da altri contro obiettivi altrui? Perché io mi chiudo a conoscere i fatti? Tu, hai idee?

Io ne ho solo un paio, che non spiegano perché blocchiamo nel ghiaccio la possibilità di avvicinarci alla felicità, mentre fuori il mondo già brucia, e non bastano a spiegare ogni caso personale. Ma fare un passo è meglio che non camminare.

Allora, un’idea è questa: tanti, dopo aver subito il danno, non vogliono subire anche la beffa. Sapere il dato certo, l’inganno provato, equivarrebbe per loro a vedere la beffa, ed essere umiliati per come proprio quelli che han votato, o scelto, a cui hanno affidato debolezze e ultime speranze (doppia beffa), si fan beffe di loro, ingannando e rubando, avendo anche la faccia di bronzo di affermare falsità enormi, che contraddicono all'estremo quanto, sotto sotto, hanno tramato. È solo un'idea.

Un’idea deriva dalla teoria sulla dinamica oppressori - oppressi del pedagogo Freire. Gli oppressi (diciamo: tu) ospitano dentro di sé l’oppressore: inconsciamente per te, essere realizzato non può equivalere che ad essere oppressore, con certi comportamenti, con qualcuno da opprimere. Ad un tratto nella retrocessione dalla società civile, tu non riesci più a identificare il tuo vero oppressore, che viene estromesso allora dal quadro (anche perché si spaccia per tuo simile, per operaio oppresso). Tuttavia, la colpa della tua condizione va attribuita: quando trovi il tuo presunto oppressore, non puoi far altro che opprimerlo, per farti tu forte. Il drogato, o lo straniero, appare allora come fonte di pericolo, come agente della tua oppressione, non come tuo simile umano con problemi spesso vicini ai tuoi: ti senti legittimato a combatterlo, a non concepire per lui sviluppi e dinamiche umane. Egli diviene tuo inferiore, da condurre all’inoffensività: è oppressore, ai tuoi occhi, da trasformare in oppresso, mentre tu sei oppresso che, per fuggire ed esorcizzare tale situazione, anela a farsi oppressore. Credo che in particolare la Lega Nord, in Italia, giostri con malizia ed incoscienza questo meccanismo.

Un’idea riguarda la voce perentoria che, all’emergere del dibattito, come la saracinesca si abbassa e tutto scivola: quella, è istinto di autoconservazione. La voce non è l’oracolo delle verità incontestabili, ma non è neanche cattiva: è istintiva. Dice a tutti che non si può far attenzione ai fatti generali e agire, perché la propria vita è in emergenza. Ognuno ha la propria emergenza, tu hai la tua: i soldi dell’assicurazione che non sai dove raccattare; il sudore di inadeguatezza nei confronti del tuo capo; l’intolleranza sorda verso un tuo congiunto; la tragedia di non essere il figlio preferito ogni giorno; la prigionia che la tua interpretata indifferenza ti ha tessuto attorno; la tua bruttezza pesante come una condanna. Questi sono i problemi veri; il resto, sono esagerazioni: il mondo è sempre andato avanti, con qualsiasi governo, guerra o idea corrente, e non smetterà di andare avanti perché tu non ci badi, anzi l’opposto. C’è, nella voce tirannica, una verità cupa: proprio perché non ci badi, il mondo va avanti (così com’è); infatti, è sempre andato avanti fra salite dall’orrore e discese nell’orrore, sempre attuali e mai chiuse. La verità positiva è invece, a mio parere, il ribaltamento di questo, che è un circolo vizioso: non badi alle grandi questioni per emergenza delle tue personali - proprio la tua non attivazione rende le prime sempre più gonfie - esse, impunite, soffocano le tue personali questioni cascandoci su a peso assassino - ti ritrovi fucilato per aver espresso la tua personale questione. Per fucilato, intendo metaforicamente, ma non si trova faccia a un plotone d'esecuzione un operaio a cui si chiede scegliere fra il rinunciare ai suoi diritti, rischiando e morendo, o al suo lavoro, rischiando e morendo? O il piccolo imprenditore, che o soccombe a tassazione folle e concorrenza delle grandi catene, o evade, o s’indebita? Non vedo la libertà del non condannato.

Altre idee[11]? Sì, ma vorrei ascoltare le tue, alla vetta.

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La quarta tappa è questa: il cielo bianco sul lago blu, di quel blu che mantiene la leggerezza dell’azzurro ma anche il senso profondo del nero.

La quarta tappa è questa: siedi, alleggerisci la tua testa, lasciala volteggiare. Sì, so che hai le tue idee e non intendi cambiarle, non c’entra questo: prova solo a lasciare tutto indietro, a levitare, emergendo da stracci e funi, detti e dettami. Io ci provo, perché non si può volere una società migliore per tutti gli uomini, partendo dal disprezzo per gli uomini, liquidando i loro comportamenti come frutto di ignoranza unicamente [12], senza essere liberi di nuovo, come fosse il primo giorno del mondo, da superbie ed etichette rassegnate. Sali leggero, per questa strada che abbiam fatto: trova uno spiazzo tra alberi e secondo terreno di foglie, un po’ decoro un po’ nascondiglio; districati dal sole che intorpidisce, e tra quelli che costruiscono coi lego finti nemici nella donna alla guida, nel vicino di casa silenzioso, in quello dell’altra squadra, nell’omosessuale che attenta all’istituzione-famiglia, nel rom che non rispetta nulla[13]. Ecco lo spiazzo, continua a levitarci su, ad un metro dalla sua erba folta, gobba di gatto brillante. Questo piano dà su tutto il lago, vedi? Da questo prato terrazzato lo sguardo è libero; non ti senti bene, fantasticamente, ora che puoi scarcerare i tuoi occhi, lanciarli, fotografare le cose dall’alto, averle in mano e girarle fra le tue dita onnipotenti?

Sì, quelle frasi mi fanno rabbia, ma la rabbia è vuota e passa, la rabbia si fa disprezzo solo contro chi non difende che i propri privilegi medievali, coi denti e la violenza; contro chi è ovattato e orgoglioso della propria intangibilità per diritto divino; contro chi con sopruso e risata sganasciata succhia il sangue altrui. Contro gli oppressori pieni di scaltrezze, non contro gli oppressi. Io credo tu non sia uno di questi, che dalla barca spaccherebbero i remi sulle mani di chi non vuol nemmeno essere tratto a bordo, ma solo traghettato in salvo. Allora, sali ancora.

 

La quinta tappa, sul sentiero accanto al borgo all’estremo del monte, mondo in piccolo, è questa: salire la rampa. Sì, lo so, ti avevo detto che non c’erano salite, ma non è l’Everest! È una breve ascesa di tornanti, solo un paio; salire non è impossibile.

Questa è la quinta tappa: usa questa lista come una scala. È una lista di fatti. È un po’ che faccio liste, e poi c’è il protagonista del romanzo Naif.super, di Erlend Loe, che, in preda ad una crisi esistenziale delle peggiori, cerca il bandolo della matassa anche con la pratica quotidiana di stendere liste, banali in apparenza, ma utilissime. Tieni, te la passo: con questa come scala, se vuoi, puoi arrivare alla prossima tappa. Io ti lascio: spero di vederti su. Se puoi, parti dalla vista di prima, dal cielo bianco sopra il lago blu; forse qualche passo lo condividerai con facilità, altri ti faranno salire la nausea, ma tu sali di un passo ancora, sali finché non arriverai, fino all’ultimo passo. Poi, potrai sempre ridiscendere, senza segni, come non fosse successo nulla.

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Lista di alcuni 2+2 da fare[14] («La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà, ne seguono tutte le altre»[15]).

È necessario sapere che 2+2 = 4, come è necessario sapere che:

Vedere le cose come stanno può essere quasi impossibile, ma vedere come non stanno è spesso abbastanza semplice, ed è il minimo sindacale: ditelo, a chi vi vuol far credere che la società è per forza fondata su compromessi, a chi deride gli sforzi di miglioramento[16].

L'immondizia a Napoli non si accumula perché i napoletani sono degli zozzoni: nel business dei rifiuti, hanno anzitutto responsabilità spaventose le industrie del nord, «soccorse» dalle mafie.

La mafia si rafforza anche grazie all'accoglienza della società del nord: l’omertà e la condiscendenza non sono connaturate ai geni dei meridionali, ma sono tipiche anche della ricca Lombardia, con le sue confische di beni mafiosi in ben 120 comuni[17].

Al sud gli uomini protestano perché muoiono di rifiuti[18], non perché non han di meglio da fare, né perché la camorra li aizzi[19]: è allora surreale orecchiare lo slogan leghista «noi al nord i vostri rifiuti non li vogliamo!», perché tradotto, suona: «non ri-vogliamo i rifiuti tossici delle nostre fabbriche, li abbiamo venduti apposta alla mafia!».

Non è mai giusto e sicuro giudicare da un fatto singolo e  personale un'intera città, religione, popolazione. Le generalizzazioni sono rischiose: portando spesso a erronee conclusioni, cacciano in situazioni ridicole proprio chi le formula.

L'immedesimazione non è facile[20], ma è fattibile: come negare che siamo nati in Europa per caso, e se fossimo nati in Africa ora saremmo clandestini, ora saremmo guardati con disprezzo per l’incolpevole nascita, ora «noi» saremmo «loro»[21]?

Tutti i biondi vanno guardati con sospetto, perché stuprano: è un esercizio che fa balzare avanti l’insensatezza spietata delle discriminazioni. È la stessa cosa: uno non è criminale perché ha l’aspetto e qualche conseguente tendenza predeterminata «da marocchino» (i 2+2 sono banali, ma basilari); magari, non c’è nato in Marocco, o è cattolico, o è un islamico più pacifico di te, ma dal solo aspetto fai un’equazione e prevedi sicura cattiveria[22]. Immaginati ora biondo, che biondo = stupratore: no, non importa che tu non abbia mai neanche pensato di stuprare, importa che tu sia biondo.

Nessun uomo lascia la propria famiglia, lingua, convenzioni, e il rispetto che si ha nel proprio paese, per una voglia spensierata di far del male, ma solo per sopravvivere.

Non sarà possibile nemmeno arginare l’immigrazione, con frontiere o armi, finché uomini moriranno di povertà: nessun uomo, per nessuna legge, può avere più diritto alla vita e respingere un altro uomo che scappa per vivere. Non possono restarsene o tornarsene nel loro paese, questi uomini, e non è «un problema loro», ma di chi contribuisce a questo ordine del mondo. Gli Stati, poi, sono muraglie d’aria arbitrarie, dotate solo del valore che noi gli attribuiamo nel tempo, e questo valore non può fondarsi sulla morte di uomini disperati, né fermarli[23].

La frase «la protesta degli immigrati sulla gru ci costa 25.000 € al giorno», non va trangugiata: va presa, messa lì e guardata in faccia e poi nell’insieme che la regge; ad esempio, un clandestino, lavorando per quindici anni in nero, fa «risparmiare» al suo datore di lavoro, non di rado lo Stato, ben più che 25.000 €; puoi anche moltiplicare la cifra risultante per i 500.000 clandestini, o molti più[24], che vivono in Italia.

Per essere ascoltati davvero, occorre toccare ciò che chi detiene il potere ha a cuore, soldi e ordine pubblico (oppure, si abolisce il diritto di sciopero): le proteste necessariamente ottengono tanta più attenzione quanto maggiore è il danno economico che arrecano; anche quando la fiom sciopera si ha un danno economico, e proprio questo determina il (superstite) peso contrattuale degli operai.

Prima di salire sulla gru, quei sei uomini erano altrettanti Sig. Nessuno. Avevano interrogato instancabili le autorità, chiedendo giustizia a una porta chiusa, cercando quel dialogo che dopo, da sotto la gru, gli ipocriti rappresentanti delle stesse autorità hanno invocato, come se quei sei fossero trogloditi incapaci di dialogo, e mai l’avessero reclamato.

Quando nessuno ti ascolta, quando la tua vita non vale nulla per nessuno, quando non esisti, la tua protesta non potrà essere sottovoce: pretenderlo, sarebbe cieco e sordo[25].

Qualsiasi politico avrebbe dovuto difendere la protesta della gru, e dire «grazie»: qualsiasi partito che abbia sinceramente a cuore l’ordine sociale, avrebbe dovuto vedere che quella gru era l’unico modo per sei uomini di denunciare ingiustizie, e ringraziare per il contributo e la riflessione suscitati. La politica questo dovrebbe fare: ascoltare cosa non va nella società e agire, per la sicurezza e il benessere, quelli veri, di tutti.

Il silenzio politico ed istituzionale è stato un frastuono significativo: non si risponde = non si risolve. Altro che fermezza lombarda: è stata un’irresponsabilità pericolosa, i cui danni si manifesteranno a lungo, sempre più forte.

Quei ragazzi sono esattamente come te: come voi, che vi alzate già depressi all’idea di andare a lavoro, che vi scoraggiate all’idea di non avere soldi a sufficienza per pagare una bolletta, che vi preoccupate per un figlio malato.

Le uniche differenza fra voi e loro, sono due. Uno, facendo le vostre stesse cose, loro sono bollati come criminali: voi tirate a campare sfruttati, loro tirano a campare sfruttati, in più hanno addosso la marchiatura dei criminali. Due, loro hanno alzato la testa: i loro occhi alti han fatto tremare me, allenata ad abbassarli e lasciar correre, a fingere di non cogliere le sempre nuove oppressioni, per non dover mostrare che no, non ce l’ho il coraggio di oppormi davvero.

Fare paragoni «al peggio» («al loro paese li avrebbero già tirati giù a sassate») è inutile e imbarazzante, a meno che si aspiri ad avere la «qualità» democratica del Congo: però, poi le tutele spariscono per tutti, per te e per la tua vita pure.

L’Italia si tiene stretta i suoi stranieri clandestini, per garantirsi manodopera quasi a costo zero[26] e docile, così privata di diritti. Non importa se, a forza di anni, discriminazione e condizioni sociali da terzo mondo, questi uomini disperati si ribelleranno, magari violentemente; conviene troppo, questa schiavitù difesa dietro proclami di legalità e preminenza degli italiani, quando invece si sta tessendo, illegalmente, il danno anche degli italiani.

Il reato di clandestinità aumenta la criminalità, invece di contrastarla. Chiudere un uomo in un ruolo è il modo migliore per far sì che ci resti: tu, se fossi marchiato a priori come criminale, preferiresti sfiancarti raccogliendo pomodori, o fare vita agiata con qualche servizio alle mafie? Tu, se non ti fosse concesso nemmeno di guadagnare il rispetto della città in cui vivi, cosa faresti, inquadrato nel cemento come cattiva persona, senza essere interpellato, senza possibilità di revisione?

La provenienza di un uomo non può costituire motivo di classificazione: un immigrato, uomo, non può avere meno diritti individuali rispetto a te, uomo. Questo significa cose concrete: lui non può essere mantenuto in schiavitù, e tu nemmeno; lui non può subire discriminazione per la sua religione, e tu nemmeno. Lui, ha diritto a vivere: forse è banale, forse no, se immagini una scena infernale con te stesso, uomo profugo, su un barcone, mentre un altro uomo ti «respinge».

Il reato di clandestinità, invece, discrimina un essere umano ancora prima che abbia commesso un atto, nella sua natura di individuo: rende un uomo diverso, da me e da te, senza che abbia fatto nulla[27].

In un paese normale chi delinque, di destra o di sinistra, bianco o nero, è giudicato, punito e recuperato: se qualcosa di diffuso nella giustizia italiana non funziona, se le persone «malintenzionate» (italiane o meno) trovano qui zone franche, la responsabilità non è di chi in Italia non viveva né votava, di chi un’Italia depenalizzata non ha contribuito a crearla.

La Brescia immigrata sono anzitutto le migliaia di famiglie che da decenni lavorano silenziose, con fatica doppia, perché essere stranieri è difficile e spesso triste fino allo strazio.

Lamentare la presunta preminenza concessa agli stranieri non è utile; lo è reclamare in prima persona, insieme, i propri diritti: al lavoro, alla casa, alla salute. Difendere i diritti dei più deboli, significa esigere quelli di tutti. Chi «mette prima» una categoria, e non l’uomo più bisognoso, sbaglia, e va criticato per questo; ciò non incrina però il principio generale e la modalità per ottenere giustizia: la lotta unita per tutti, non con un uomo più povero come nemico, ma con chi si arricchisce sulle povertà di tutti come interlocutore messo alle strette, finalmente.

Nemmeno in tempo di guerra, i naufraghi venivano respinti per la loro nazionalità: non si chiedeva loro da dove provenissero, ma in quanto naufraghi erano tratti in salvo e rispettati[28]. Le eccezioni efferate che ci saranno state non nascondono il fatto che l’avanzare degli anni ha incrociato il regresso della coscienza e del senso di umanità.

Si dovrebbero criticare i comportamenti, non la persona che li compie, la sua nazionalità, le sue scelte politiche, sessuali, sociali: ha prodotto pregiudizi e discriminazioni, ad esempio, aver indicato, soprattutto negli anni ’80, le categorie sociali a rischio contagio HIV, invece dei comportamenti a rischio.

Chi commette ingiustizie o reati usando una bandiera politica o un ideale come scudo, va punito per l’atto, sempre. Molti, preferiscono tener buono l’aneddoto, per lamentare l’indiscriminata perversione di cooperative, toghe, studenti, operari rossi.

Non si dovrebbero ritenere indegni i carabinieri, ma alcuni loro comportamenti, e chi li forma: i distinguo devono essere impeccabili, perché giuste denunce non vengano strumentalizzate da bassi uomini e uomini bassi.

In Italia gli alti gradi delle forze armate sono malati di nostalgia fascista: questo porta loro, e in alcuni casi anche i loro sottoposti, ad avere un’idea molto distorta dell’ordine pubblico[29].

Purtroppo l’ordine pubblico è spesso un’ottima scusa per schiacciare chi reclama a voce troppo alta i propri diritti.

Il diritto di espressione non è una vaghezza, ma la vita di un uomo: è grave come niente che abbiano subito arresti o intimidazioni uomini che urlavano «Forza ragazzi!» a quattro altri uomini (v. nota 7). Non puoi dire, finisce che non puoi essere, tu, te stesso. Cosa ti rimane?

Inneggiare al Duce è reato (si sa mai), perché il fascismo non è stato una «dittatura dolce», un’allegra sbronza fra amici: ha fatto «cose buone» solo in misura inevitabile; ha ucciso uomini, violato la loro dignità, brutalmente.

I regimi comunisti pure han fatto milioni di vittime, ma l’Italia ha vissuto una storia opposta: il Partito Comunista ha condotto le maggiori battaglie per i diritti dei lavoratori, ad esempio.

È lecito non condividere e respingere l’ideologia comunista, non parlarne a vanvera. Io cerco di non parlarne a vanvera, finché non avrò letto Lenin, Marx e qualche buona fonte storica, almeno.

Travaglio, in un paese «normale», sarebbe di destra (sua esternazione): è il paese che è anomalo!

Mettersi al fianco del criminale non è un’offesa, ma il solo atto utile alla vittima: inveire contro il crimine come atto genetico di un mostro o di un imbecille, non dà altro che un’illusione di sicurezza; crogiolarsi nella rievocazione del dolore è sterile; entrare ossessivamente nella vita della vittima è solo una catarsi egoistica, per riscoprirsi vivi.

Patire con la vittima dovrebbe essere scontato e privato, patire col carnefice è il difficile: perché, se non per protagonismo, sbattere all’aria le lacrime per la bambina morta, invece di tenere il senso di compassione in gola, e lasciarlo andare nella solitudine del crepuscolo? Patire col carnefice non è simpatia verso il male, ma ricerca del bene, del meglio che brilla nascosto. 

«Dentro ciascuno di noi, c’è un io criminale»[30]: è un passo ostico, perché uno dei pregiudizi più rassicuranti è che ci sono i buoni e ci sono i cattivi. Ci vorrebbe un’educazione all’immedesimazione evoluta, che ci permetta d’immaginarci in condizioni non immaginabili, immersi in pensieri non formulabili ora, nella nostra pelle; pensieri e condizioni che ci porterebbero forse a comportamenti criminali, certo a comprenderne molti lati, molte facce, tutte le pene.

Purtroppo non è un luogo comune che in carcere, in Italia, ci finiscano soprattutto i poveri cristi: quelli che non han soldi o potere per depenalizzare il reato che hanno commesso, ad esempio; quelli che sono allo sbando della società, abbandonati da essa, ancora più abbandonati e pressati ai margini varcata la soglia della prigione.

Vivere in diciassette in una sola cella lede la dignità della persona[31] in mille diabolici modi: puoi immaginare di stare per 22 ore in una stanza chiusa, col tanfo di sudore altrui, sdraiato a cinque metri d’altezza col soffitto a due spanne (letto a castello a quattro piani), su un materasso fetido, senza lenzuola, infestato dalle pulci, di usare un unico bagno senza porta senza carta igienica con altre 16 persone, di avere una sola saponetta in un mese, di contrarre malattie quasi scomparse nel mondo civile, di pagare il peggior olio il doppio del prezzo corrente, di non poterti alzare perché in piedi ce ne stanno pochi, puoi immaginarti di stare così per ore, giornate che colano in mesi, senza desiderare di impiccarti[32]?

Il carcere è diventato la discarica sociale dell’Italia: lo Stato ha rinunciato alla funzione di recupero e reinserimento sociale di chi delinque, e si limita a creare un luogo di isolamento e mortificazione, un lager di crudeltà, dal quale si esce con nelle ossa una rabbia moltiplicata, erompente.

Lo Stato non può continuare ad essere più criminale del criminale stesso: il carcere non può trasformarsi nel paradosso delle società moderne, che in esso combattono la criminalità con un sistema pedagogico criminogeno, e spingono a pensare che chi è dentro sia nel midollo diverso da noi, e meriti un castigo, una via crucis di dolore, non rieducazione.

L’esasperazione non ha bisogno di placet, ma di giustizia. Se un uomo lucido subisce ingiustizie, ruberie, soprusi, chi governa quello Stato di ingiustizia, ruberia, sopruso, di frequente dando per primo esempi di disonestà[33], non potrà parlare di rispetto e «toni pacati» senza coprirsi di ridicolo o avanzare subito concreti atti di giustizia. 

Non si può precludere sempre più ogni strada all’azione e al dialogo, senza aspettarsi che l’ineguaglianza ormai troppo palese armi gli uomini, e non di dialogo: estenuati, sono costretti a salire su una gru per farsi corpo e anima, a scendere nella piazza a dar fuoco a quanto i telegiornali non vedono, a urlare «Riprendiamoci il nostro futuro!» a chi chiede tranquillità sghignazzando, perché col nostro futuro si sta fabbricando una vita d’oro al di sopra di ogni possibilità.

La questione se la violenza sia giusta o sbagliata, in certi casi è mal posta e fuori luogo[34]. Non si può chiedere se lo scoppio di temporale sia giusto o sbagliato; se sia giusto o sbagliato lo scoppio di rabbia, dopo che le condizioni sociali sono state strattonate fino all’estenuazione, fino alla tortura. È questione di giustezza[35].

Senza parole ferme sarà impossibile capire cosa si fa di noi. Si dà dell’assolto al prescritto, ma non è uguale, né una minuzia da avvocatini: quell’uomo non è innocente. Parlano di missioni di pace per missioni di guerra, ma non è uguale, né una crociata cartacea di ragazzini che giocano alla pace. È la verità nelle parole. La spoliazione e il volontario pressapochismo linguistici sono pericolosi, come un governo che chiami Ministero della Pace quello della Guerra[36], senza che ce ne accorgiamo.

Chi detiene il potere ti spinge ad essere fatalista, ad accettare come immutabile la realtà che ti dà. Le parole sono vuote di senso, i concetti si fondono, l’accettabile e il non accettabile si avvolgono, la bugia diventa verità poi bugia poi convenzione: questo carosello ti getta fumo negli occhi e ti obbliga a riferirti ad una realtà creata, come se fosse l’unica possibile, in cui puoi aspirare al massimo ad evadere un po’ il Fisco, credendoti furbo e libero[37].

Se in quel tal Stato c’è una bassa percentuale di praticanti l’Islam, ma al TG ti mostrano l’unica donna col velo del quartiere, tu finirai per trarre conclusioni errate, suggerite da un modo di informare pilotato.

Soprattutto in TV si dice solo ciò che fa comodo a chi può fare i propri comodi. Al contrario, non bisogna finire mai di diffidare e approfondire, di scoprire e contrastare, con la frequentazione di organismi indipendenti, di giornali senza padroni, di organizzazioni umanitarie, i cui dati non sono alterati da interessi grevi e mire.

Informarsi e dotare la testa di più dati, non è «di sinistra», è da uomini: il senso dell’informarsi sta appunto nel farsi un’idea propria, nel farsi idee diverse da quelle altrui, purché consapevoli; prendere informazioni equivale a mettersi nell’unica condizione per discutere soluzioni vere, conservatrici o progressiste, migliori o peggiori.

Informarsi è arduo, capire ancora di più, farsi un’idea indipendente ancora di più, ma è l’unico modo per essere uomini a testa alta. «L’istruzione costa, l’ignoranza di più», scrivono gli studenti in protesta sui loro striscioni.

Nell’incertezza della vita umana, l’unica certezza è che la dignità passa attraverso la libertà, e la libertà attraverso l’informazione, e l’informazione richiede un minimo di sforzo: chi non lo fa, non solo vive al di sotto di quanto merita, di quanto è, ma danneggia anche la società, anche me, e te.

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Ben arrivato. Spero che i passi non ti siano stati troppo pesanti. Se sei qui con me, io sono già del tutto contenta. La sesta tappa, per questo sentiero dolce come le sue curve nella penombra, è questa ultima camminata, io e te, una passeggiata nella passeggiata: sono i quattro passi pianeggianti che ci porteranno là, alla piana dell’arrivo, sul lago.

La sesta tappa, è vedere che reazione la mia idea di informazione suscita in te.

 

Un’informazione

è un nome che suona di niente affollato.

Non è ombra che svicola: è una cosa reale,

lì che trepida perché tu ne senta il corpo vivo,

prendila in mano, come un gatto!

 

Non è buontempo: è la rabbia

per le cose che ci nascondono,

la rabbia perché ci trattano da idioti:

ci trattano da idioti!

 

Non è definizione da accademia: è la tua dignità

che ti rubano ogni giorno dalle mani,

ogni giorno; infinitamente più spesso

di quanto un uomo ti rubi il portafogli.

 

Non è un sistema intricato che ti

ammanta: è un’arma

che guadagni per difendere te stesso e chi vuoi:

è l’unica difesa che puoi avere, che funzioni,

armati!

 

Non è una cifra, un delitto immaginato al caffè: è una vita

lunghe storie di paure,

primo giorno di scuola, amori ridicoli e sguardi sul mare.

Non è concetto sudato da sbrigare:

è un petto che respira, un sorriso che permane,

sei tu che respiri e sorridi, con la tua vita addosso.

 

Non è professionismo dell’indignazione: è un uomo

muto con negli occhi un movimento, non lasciarlo scorrere;

nella bocca ha le tue armi pronte,

sopra giorni desolati di lotte per sé e per te, senza aiuti.

 

Non è un codice a mille ideogrammi: è l’unica trave

a reggere ancora il muro che ti permette di respirare.

Se metti trave su trave, diventi tu un puntello,

importante per te, importantissimo per tutti,

e man mano non è più un muro di difesa,

ma quel che preferisci, che muro vuoi?

 

Cose, rabbia, uomini, dignità,

armi, vite, travi:

a che altro puoi aspirare per dare senso toccabile alla tua vita,

per renderti qualcosa che non muore come muore il vento

-un secondo c’è, il secondo dopo è come se non ci fosse stato-

che aggiustare cose e vita?

 

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Ci siamo!

Ecco l’arrivo, questa grande spianata di erba, ora che è quasi sera più che verde blu, stellata di riflessi che ballano distesi, lunghi. Forse ti aspettavi di più, ma non è bellissimo ciò che vediamo da qui? Luci e luci, più chiare di sempre, nel nero fondo del lago e delle montagne, e stelle nel cielo e nell’acqua e sulla terra, e uomini.

L’arrivo è questo: le stelle e gli uomini che ci hanno raggiunto qui, saliti per la nostra stessa piccola montagna, in passi paralleli, fra i branchi di alberi e le collane di fruscii di bosco. Siediti, qui vicino, nell’erba morbida, e guarda tutto quanto può stare nel tuo sguardo. Non essere sottotono, guarda a sorsi avidi, guarda quanto è bello nella sua varietà ciò che puoi bere, bevilo tutto a farti restare indietro l’anima. Ecco la vetta: sedersi qui, dopo la salita, e pensare, tu, che cosa pensi, ora? Che cosa vuoi fare? Puoi continuare come se niente fosse, o dedicherai due minuti di ogni tuoi giorno a pensare a 17 te in una cella? E poi cosa farai, spinti quei pensieri fino alla verità non sfumabile? Cosa facciamo ora? L’arrivo non è che questo: la partenza di personali strade secondo i più intimi pensieri, ma declinato, questo sacrosanto tuo modo di intendere, secondo basilari informazioni fattuali e principi di rispetto, che tutti dobbiamo condividere senza eccezioni e tentennamenti. Informazioni e principi inviolabili, perché tutelano la vita di tutti: sono la garanzia sulla nostra natura residua di esseri umani. La tua strada forse si immetterà in una opposta alla mia, ma avrai la mia simpatia e stima, se la sceglierai tu, dopo aver fatto questa salita e averla contestata magari, ma avendone visto brillare le stelle, quei principi inviolabili di libertà e rispetto.

E se alla fine, sul far della sera, in quell’ora che non riserva rivelazioni e rivoluzioni per te, stanco per i grovigli e i pesi, ti sembrerà tutto difficile, se tutto ti sembrerà così complicato da non essere risolvibile, se ti sentirai premuto a terra, alla convinzione che non puoi far nulla, di essere inferiore e solo, non importante né tu né il mondo intero, se ti parrà che tutto è così più grosso di te, o che di niente importi, pensa ad una frase di un amico di Don Gallo: «Sì, forse il potere è fortissimo. Ma non è che ci sembra così grande perché noi ora siamo in ginocchio?»[38].

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Postilla: io scendo per di qui, e tu?

Forse esistono uomini con cui non puoi parlare, costruendo così, con voci reciproche, noi e il mondo; uomini che implicitano a poco a poco la paternità degli slogan che ripetono, che imballeranno sempre la vita in cartoni e disinformazione, senza osservarla. Esistono uomini così disabituati ad essere interpellati da non saper più declinare la complessità dei singoli fatti, da non poter far altro che scagliarsi da un lato, contro qualcuno, come fosse una ponderata presa di posizione. Esistono uomini che stabiliscono una volta per tutte la coerenza del proprio collage di luoghi comuni, e che si fanno opinioni come armi, forgiate nella presunzione di un qualche senso di forza veritiera: dire che un uomo merita la pena di morte, per loro, è coraggio fiero, e buon senso, senza alcun margine di dubbio o spessore.

Forse non è questo il momento della conciliazione. Forse ora è più urgente avere occhi saldi sui fatti, su violenza e incoerenza, che cercare mediazioni senza luoghi. La povertà che mangia il lavoro, la casa a milioni di italiani[39], le ingiustizie gettate una sull'altra fino al cielo, i soprusi sulla carne e sull’anima spesso sotto l’egida dello Stato, tutto ciò è schiacciante: evidenzia l'irrisolutezza di ogni atto a metà, della testa che si scuote molle dal divano. Persino la felicità personale suona male. Tutto ciò, tinge d’inutilità qualsiasi intento di soluzione. Perché è questo che sono le nostre parole: ininfluenti. Siamo stati silenziati.

Allora, a che scopo parlare? A che conclusione porta la somma «Esistono uomini con cui non puoi più parlare + Le parole ora sono ininfluenti»?

= Non  bisogna parlare per target; non bisogna parlare solo a chi sicuramente ci ascolterà; bisogna parlare forte, ma dopo aver ascoltato più forte. Bisogna sentire le mille ragioni delle persone con cui non si può più parlare, sì, lo stesso! Bisogna parlare perché siamo esseri in grado di parlare e agire insieme: i frutti dell’azione saranno tanto maggiori, se questa sarà stata spiegata, per quanto possibile, e accompagnata dalla parola. 

 

In realtà, la difficoltà di far emergere la verità possibile (vincere una battaglia, donare un pesce), ma anche di risuscitare la voglia di verità (vincere la guerra, donare una canna da pesca) è antica, e tocca ogni ambito: politico, sociale, religioso. È umana, credo. È la stessa la paura, la beffa insostenibile che si aggiunge ad una vita di danni da affrontare. La resistenza viene proprio dal panorama che si aprirebbe se si cedesse al dialogo. Penso alla religione, e alla muraglia di non ascolto che ci si para spesso davanti: pesa su questa bilancia il nulla che noi poniamo sull’altro piatto, talmente devastante da far saltare in aria persino Dio. Ciò che conta è la dimensione psicologica, nota o solo subodorata, nella quale si piomberebbe: cosa c’è di più terrorizzante del crollo della propria vita? Ora: come ci si sente, privi di qualsiasi certezza, di qualsiasi garanzia? No, non liberi. All’inizio, ci si sente di merda, e tanto peggio, quanto più nella vita si è stati sfortunati, sforniti di mezzi culturali, economici, o strettamente personali, per far fronte a quel che resta, quando cadono le sovrastrutture: il nulla devastante. La difficoltà della strada, però, non deve né confondere il discorso, né nasconderne l’importanza.

Non confondere il discorso. Mi si dice che la verità non esiste, che è individuale e storica. Io sono convinta che lo stesso, nel rispetto della meravigliosa diversità della natura umana, bisogna fare assolutamente, tutti, alcuni passi. Sì, ogni persona ha il proprio sentire, il proprio vissuto; inoltre, cosa sia reale volontà, aspirazione, e cosa sia condizionamento è difficile dirlo; anche, come sarebbe ognuno di noi senza condizionamenti, è difficile immaginarlo, e forse è una questione malposta: l’uomo vive solamente immerso nei condizionamenti, quindi anche la vita e la libertà umane non possono prescindere dai condizionamenti. Eppure, resto convinta che il discorso è altro, è prima. C’è una serie di passi da fare: quei passi ci svestono dai condizionamenti rincarati pesanti sulle nostre spalle, che ci impediscono di guardare il cielo o di guardarci allo specchio; ci svestono dalle non-verità costruite con finalità predeterminate, odiose perché spacciate per naturali, perché ottundono la nostra mente sin dall’infanzia, come fossero congenite. È una non-verità il razzismo, è una non-verità l’amore romantico, è una non-verità il peccato originario: senza essersene liberati, non ci si può dire liberi. E questo vale per ogni persona, nella splendida disuguaglianza umana: dopo aver smascherato queste sovradeterminazioni, uno di noi potrà assecondare una sana predilezione per la propria patria; amare un’unica donna per tutta la vita, proprio perché libero di non farlo e non dirlo; essere sensibile al senso di colpa per il male inflitto. Verità o meno, queste non sono non-verità aprioristiche.

La difficoltà della strada. Questa liberazione dalle non-verità organizzate, sbalordisce e fa arretrare. Non c’è nulla di indecoroso nel ritirare d’istinto verso una non-verità rassicurante, piuttosto che lanciarsi verso una verità annichilente: il ricorso a palliativi e distrazioni, faccia all’insensatezza della vita, è la salvezza più facile. Se non cercassimo ogni secondo tettoie di riparazione, per costruirci al riparo un nostro senso, saremmo tutti prossimi alla disgregazione. Però, questa ricerca di senso ci intrappolerà, non sarà che un’iniezione per ingannare l’attesa della morte, se non parte dalla spoliazione dalle non-verità e non lascia da parte, ad un certo momento, le soluzioni d’emergenza. Solo da quei paletti di ragionevole autenticità, il percorso non sarà un girare in tondo. Allora, se davvero si vogliono contenere l’ignoranza e i suoi frutti violenti, non si può dimenticare questo: che, alle persone che si rifugiano in luoghi comuni e visioni intolleranti stiamo porgendo, come se l’avessimo sul palmo della mano, un panorama disperante, nel quale si troverebbero sbattute come nel bel mezzo di un terremoto; che, agli uomini che riteniamo egoisti o disinformati, non proponiamo solo di «parlare», ma di distruggere a martellate i muri del proprio mondo; che prima di denotare cattiveria o inabilità animale, l’opposizione di molti è solo terrore di fronte ad un vuoto, per il quale non hanno più ali, macchine o bussole. Nessuno si è occupato di costruirne con loro. Sono soli. Allora, bisogna accostarsi umanamente al singolo uomo, premunirlo di mezzi e alternative, pensare al travaglio che si chiede: la libertà gli costa la felicità presunta del momento.

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L’attimo iniziale del travaglio è terribile, gli altri meno, ma sempre un filo di ansia prende, prima di vedere un altro velo cadere: forse la vita è liberarsi a piccoli attimi, per arrivare un giorno a camminare a testa alta, senza funi, liberi di prendere per mano chiunque, o di non prenderlo, di generare o non generare, di morire o non morire. Ciò che non credo, è che un uomo avvii da solo la propria liberazione. Voi, che vi sentite informati e camminate a testa alta, non avete avuto incontri, circostanze che vi hanno spinto? Tutto vostro è il merito per le non-verità che avete già lasciato sul selciato? Sì, un merito l’avrete, ma questo non fa il demerito infamante di chi i mezzi per svestirsi non li ha, di chi non se la sente del tutto. Non sono scusanti, ma non avere il giudizio facile è il presupposto per risvegliare gli uomini che possono essere scossi. L’unica modalità d’azione e di informazione è allora quella declinata umanamente, fatta di ricerca dei fatti impeccabile e di consapevolezza degli altri (delle loro paure, del dramma della beffa, e dell’esistenza di mille aspetti che non potremo mai conoscere e giudicare).

Sì, la rabbia mi stava divorando il cervello, al solo sentire quella coppia, a Iseo: avrei voluto insultarli, perché infondo loro, loro anzitutto stavano offendendo uomini, stavano creando la beffa sopra il danno per uomini truffati e offesi, per uomini degnissimi invece, coraggiosi; stavano offendendo la decenza umana, la mia, la loro. Ma non sono le loro frasi il problema: quelle sono il sintomo del problema, creato da chi opprime, legifera, instaura circoli viziosi, manifestato da oppressi, che si vorrebbero oppressori, usati come pedine. L’ignoranza esiste, e non è certo questione di giustificarla o condonarla: va combattuta, ma mirando giusto, agli oppressori e non agli oppressi, responsabilizzando chi subisce l’ignoranza; occorre essere realisti e umanamente attivati. L’ignoranza va combattuta in chi la governa, non giudicata negli uomini che si rifugiano in essa. A questi bisogna parlare forte e agire forte, incarnando e dicendo, leggeri e chiari, quei valori irrinunciabili che fanno la grandezza dell’uomo, di quegli uomini sulla gru: la grandezza del singolo uomo di cui non si può permettere che nessuno, nessuno mai si faccia oppressore. L’informazione per questo è una mano che tocca tutti, nel modo più personale e concreto possibile: è la difesa dell’oppresso, e l’unione che fa forza contro l’oppressione.

 

 «Può essere vergognoso essere felici da soli […]. Ho sempre pensato di essere straniero a questa città, e di non avere nulla a che fare con voi. Ma ora che ho visto ciò che ho visto, so che sono di qui, che io lo voglia o meno. Questa storia ci riguarda tutti» [40].

 

Perché questo percorso intendeva essere un dialogo;

perché le domande sparse non erano retoriche;

perché un muro di difesa e di quel che ti pare non si costruisce mai da soli;

perché la vetta dei nostri sei passi è davvero sapere che strada tu pensi si possa fare;

perché i miglioramenti non partono, se non dal capire cosa pensano più uomini possibile:

ecco la mia mail, giulia.inverardi@alice.it.

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[1] B. SPINOZA, incipit del Tractatus Politicus (I, 4).

[2] L'«Antica via Valeriana» è un itinerario di 20 chilometri, di probabile origine romana, che si snoda sulle pendici orientali del lago d'Iseo, attraverso uliveti, case con muri in pietra, boschi e il lago. Fino al 1850, era l'unico collegamento fra Brescia e la Valle Camonica. Ho scelto questo percorso come esemplificazione del sentiero vicino casa che quasi tutti, nei paesi e paesotti d’Italia, possono percorrere. Metteteci il nome che volete, certo se c’è un lago nei pressi funziona meglio.

[3] C. M. SCHULZ, battuta pronunciata da Linus.

[4] Il senso di inutilità macchia sia il personale sia il generale: capita che il personale faccia percepire come ininfluente il generale; capita anche il contrario, che la gravità delle circostanze generali facciano sentire la non utilità di una sera al cinema, di un amico, di qualsiasi azione personale. Credo che entrambe siano impressioni fallaci, da prendere e buttar via. Per quanto riguarda l’impressione paralizzante di emergenza del personale, credo che per evitare di dover lottare sempre per stare a galla, bisognerebbe ambire a qualcosa di più che stare a galla: ambire alla riva.

[5] P. FREIRE, La pedagogia degli oppressi, 1968.

[6] G. ORWELL, 1984, Oscar Mondadori 2002. Pag. 265: «Forse non c’era tanto bisogno e quindi desiderio di essere amati quanto di essere capiti».

[7] La vicenda dei migranti che per 17 giorni hanno occupato la gru nel cantiere per la metropolitana, fra Via S. Faustino e P.le Cesare Battisti, a Brescia, ha ricordato la situazione degli immigrati truffati in occasione della sanatoria 2009 (la truffa è stata perpetrata dai presunti datori di lavoro, ma secondo gli immigrati stessi anche dallo Stato, che ha cambiato nel corso della sanatoria la legislazione in tema d'immigrazione). Il fatto ha suscitato sia reazioni di incomprensione del gesto e di contrarietà, sia una risposta solidale nella cittadinanza, sia una repressione a tratti molto violenta delle molte manifestazioni di sostegno ad essi, da parte delle forze dell’ordine.

[8] «Si la vérité me pressait à droite, y‘j serai», «Se la verità mi spingesse a destra, ci sarei» (da un’intervista).

[9] E. GALEANO, Parole in cammino, 1998: «Lei è all'orizzonte. [...] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

[10] I. BRODSKIJ, Dall’esilio, 1987: «Eppure dobbiamo parlare […], per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo la quale se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, [...] dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; [...] che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre a costituirne la ragion d’essere».

[11] Un approccio semplificato è più facile e ha più presa di uno approfondito: per questo la nostra «classe dirigente» ha iniziato a trattarci come gregge, in una gara al ribasso: istruzione approssimativa e trattazione dei problemi con taglio grossolano; abolizione della declinazione della realtà secondo la complessità dei singoli casi (ruolo e responsabilità degli interlocutori, natura di ciò di cui si tratta, contesto); imposizione di un abito di comportamenti e idee standard, che garantisce protezione e appartenenza alla normalità; rinuncia, da parte di partiti politici e istituzioni religiose e sociali, all’educazione di giovani e adulti. Chi sentiva la responsabilità di accrescere le capacità di coscienza e autocoscienza del proprio popolo, instaurando un circolo virtuoso, ha lasciato il campo a chi di questa responsabilità se ne sbatte: allora, meno offerta di istruzione e confronto - meno capacità di critica e azione - maggior libertà d’azione e d’impunità per chi governa - induzione a minore domanda d’istruzione.

[12] P. FREIRE, La pedagogia degli oppressi: «Dichiararsi impegnato con la liberazione e non essere capace di entrare in comunione con il popolo, che si continua a considerare assolutamente ignorante, è un equivoco doloroso».

[13] Dario Fo, nella conferenza a Brescia, l’8 dicembre 2010, ricorda che dalla notte dei tempi il potere domina il popolo anzitutto con uno stratagemma: la costruzione di falsi nemici, da incolpare di ogni sventura, per evitare che si colga il vero responsabile, spesso il potere stesso; quest’ultimo si offre anzi come garante di protezione, fonte del senso di sicurezza senza il quale l’uomo crede di non poter vivere.

[14] Una lista delle informazioni indispensabili mi pare un buon punto di partenza per azioni di cambiamento: una lista in aggiornamento collettivo, «universalmente» diffusa, vagliata anche da persone più competenti di me. Forse è un’idea di difficile realizzazione, ma che gli uomini di un Paese condividano una base di informazioni vitali, è quanto di più indispensabile mi immagino, la condizione imprescindibile ad un vero confronto e a vere azioni. Come si può discutere di un problema, proporre azioni, darne conto, renderle efficaci e diffuse, se anche solo una persona che assiste o partecipa al dibattito ignora le basi del problema stesso? Intendo: non ha idea dell’ABC, dello svolgimento dei fatti. Come farlo, se anche un solo uomo non ha dati in proposito, o ha falsi dati? Una lista di 2+2 è il pavimento dell’azione, su cui si potrà costruire ciò che si vuole: se è fondata sull’informazione, qualsiasi proposta è legittima, la si può vagliare, contraddire o supportare.

[15] G. ORWELL, 1984, Oscar Mondadori 2002, Pag. 86. Quando il protagonista del romanzo, Winston, viene arrestato e torturato nel Ministero dell’Amore, sbotta: «Come posso fare a meno di vedere quel che ho dinanzi agli occhi? Due e due fanno quattro»; «Non sempre Winston. Qualche volta fanno cinque. Qualche volta fanno tre. Qualche volta fanno quattro e cinque nello stesso tempo».

[16] In molti casi non abbiamo la certezza di come si sono svolti i fatti, e la realtà stessa ha sfaccettature, punti di vista inconciliabili. Tuttavia, mi ribello con forza al fermarsi qui, al dire: «la verità nessuno l’ha in tasca», «solo un illuso può credere di trovare e affrontare le non-verità connaturare alla società». Affermare che la disinformazione, con tutti i suo sfaceli, impera in Italia, e che qualcosa si può fare, non è semplificare e sognare; invece, l’atteggiamento cinicamente adattato di chi prende atto della natura compromissoria della realtà, e ne fa un punto d’arrivo, è quanto di più rinunciatario mi posso aspettare dagli uomini avveduti d’Italia. Si dovrebbe aspirare, proprio perché consapevoli della complessità delle cose, almeno al minimo (chiarezza di base e diffusione di un’informazione eclettica), per combattere così le mistificazioni, quelle sì spesso individuabili nero su bianco, e di avere uno sguardo saldo su ciò che emerge, sul mondo multiforme.

[17] Nando dalla Chiesa, figlio del generale Dalla Chiesa e docente di Sociologia della Criminalità Organizzata, riferisce che in alcuni quartieri di Milano sono gli ‘ndranghetisti a fermare i poliziotti e a chiedere loro di identificarsi. Il controllo del territorio, quindi, è fortissimo anche al Nord, e questo accade anche per la complice omertà o per la compiacenza del tessuto sociale.

[18] «ll registro dei tumori della regione Campania non è mai stato attivato. […] Senza il registro è impossibile stabilire una relazione, valida in tribunale, tra un’impennata di tumori su un certo territorio e la presenza nei paraggi di una discarica o di un sito di smaltimento di rifiuti tossici. […] Quel poco che c’è è soltanto un registro ridotto. […] Quanto sarebbe necessario un registro più completo lo dimostrano i pochi dati disponibili, definiti agghiaccianti» («Il Fatto Quotidiano», 20 ottobre 2010). Ancora: «Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche». Fonte: La Repubblica Napoli.it del 18 dicembre 2010.

[19] Sempre Nando dalla Chiesa informa che in genere le mafie sono favorevoli all’apertura di discariche, di cui ottengono facilmente gli appalti; anche in caso contrario ne ricavano utili, poiché la costruzione di discariche o inceneritori necessita di materiali e di una catena di produzione di cui le organizzazioni criminali hanno spesso il monopolio in zona.

[20] F. DOSTOEVSKIJ, Umiliati e offesi, 1861: «Dicono che chi è sazio non può capire chi è affamato; io aggiungo che un affamato non capisce un altro affamato».

[21] Una mia conoscente, in realtà, diceva sempre che se fosse nata in Africa, lei, se ne sarebbe rimasta là tranquilla, anche con la guerra, anche a morire di fame. Mi ha sempre fatto ridere, in privato e amaramente, che lei, la lei bianca e pasciuta, non faccia che mangiare a quattro palmenti.

[22] La correlazione fra immigrazione e delinquenza è il luogo comune massimo, smentito dalle fonti più serie: «Tra gli italiani intervistati di recente, 6 su 10 attribuiscono agli stranieri un tasso di criminalità più alto e, perciò, è necessario approfondire i dati statistici disponibili e rispondere in maniera argomentata a tre questioni […]. Prima questione: se l’aumento della criminalità sia dovuto in maniera più che proporzionale all’aumento della popolazione residente. La risposta è negativa. Nel periodo 2001-2005 l’aumento degli stranieri residenti è stato del 101% e l’aumento delle denunce presentate contro stranieri del 46%. Alla stessa conclusione è giunta la Banca d’Italia in una ricerca imperniata sui dati relativi al periodo 1990-2003. Seconda questione: se gli stranieri regolari siano caratterizzati da un tasso di criminalità superiore a quello degli italiani. A prima vista sembrerebbe proprio così: nel 2005 l’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è stata del 4,5% e l’incidenza sulle denunce penali con autore noto del 23,7% (130.131 su 550.590). In realtà, solo nel 28,9% dei casi sono implicati stranieri legalmente presenti e ciò abbassa il loro tasso di criminalità, che scende ulteriormente ipotizzando che anche gli italiani che delinquono siano per il 92,5% concentrati tra i ventenni e i trentenni (come accade tra gli stranieri) e considerando che il confronto non tiene conto dei reati contro la normativa sull’immigrazione: alla fine, il tasso di criminalità risulta essere analogo per italiani e stranieri. Terza questione: se gli stranieri irregolari si caratterizzino per i loro comportamenti delittuosi. È vero che, in proporzione, sono più elevate le denunce a loro carico, da riferire in parte al loro stato di maggiore precarietà e in parte anche al loro coinvolgimento nelle spire della criminalità organizzata. Tuttavia, risulta infondata l’equiparazione tra irregolare e delinquente, come dimostra il fatto che la metà degli attuali quattro milioni di residenti sono stati irregolari, come lo erano, fino al mese di agosto 2009, le 300 mila collaboratrici familiari […]. Certamente anche gli immigrati possono delinquere e su questo bisogna vigilare, senza tuttavia trasformarli in un capro espiatorio del nostro disagio sociale». Fonte: Dossier Statistico Immigrazione Caritas-Migrantes 2009.

[23] «Finché l’Europa non verrà in Africa con le sue ricchezze, l’Africa continuerà a venire in Europa con le sue povertà» (Julius Kambarage Nyerere, insegnante, economista e presidente della Tanzania). Ho ascoltato di recente alcune obiezioni a questa massima, perché l’Europa non è più ricca, e con la crisi i poveri si moltiplicano anche qui. La migliore risposta credo si trovi in una riflessione: il problema è sempre lo stesso, la diseguale distribuzione delle ricchezze. È questa l’ingiustizia prima da combattere. Ciò che è cambiato, è che ora il problema ci tocca più da vicino: la causa degli immigranti, la povertà, comincia o ricomincia a diventare nostra.

[24] L’OCSE «stima che nel nostro Pae­se vivano tra i 500 e i 750 mila immigra­ti clandestini. Sono l’1,09% della popo­lazione italiana, […]in linea con quanto avviene negli altri Pae­si europei. […] Ma le valu­tazioni sull’impatto che avrà il provve­dimento di sanatoria (nel prossimo me­se di settembre [2009]) per le colf e le badanti aiutano a correggere al «rialzo» il dato. Secondo il responsabile del Dossier statistico della Caritas Migrantes, Fran­co Pittau, - uno dei massimi esperti italiani di flussi migratori - la stima degli irregolari dovrebbe aggirarsi più realisticamente «intorno a un milione di persone». Perché […] in questo campo «vale la regola del doppio». E cioè per ogni colf e badante che chiede di «emergere» c’è almeno un altro immigrato irregolare sul territorio». Fonte: Corriere della Sera del 10 agosto 2009. La stima a maggio 2010 è ancora di 500-750 mila persone.

[25] J.P. SARTRE, L’Orphée Noir, 1948: «Qu'est-ce donc que vous espériez, quand vous ôtiez le bâillon qui fermait ces bouches noires ? Qu'elles allaient entonner vos louanges?», [Che cosa dunque speravate, quando levavate il bavaglio che chiudeva queste bocche nere? Che cantassero le vostre lodi?].

[26] «Cantieri dell'Expo: 3 € all’ora agli immigrati clandestini» (informazione riferita da Edda Pando, fondatrice del circolo Arci «Todo cambia», sulla base delle testimonianze di molti operai clandestini). Le stesse cifre sono confermate da varie inchieste, ad esempio dal IV Rapporto Ires – Fillea sui lavoratori stranieri nel settore edile: in esso, un manovale albanese racconta che «è pieno di gente che non trova lavoro o magari lavorano e poi non li pagano, lavori dalla mattina alla sera per 30-35 euro».

[27] Dovremmo sapere anche che in Italia, prima del reato di clandestinità già esisteva il reato di permanenza illegale sul suolo italiano, che conseguiva al fermo di un clandestino e all’intimazione a lasciare l’Italia; questa forma, che pure non risolveva la questione, è considerata quantomeno legittima da alcuni giuristi.

[28] Anche queste ultime due considerazioni ci sono offerte da Don Gallo, fonte inesauribile di riflessioni su attitudini anche semplici che, se adottate, migliorerebbero nel concreto le condizioni della società moderna.

[29] Ritengo che chi considera l’ordine pubblico una missione di guerra è estremamente pericoloso, e lo è in modo esponenziale se è un carabiniere; chi diffonde nei servitori dello Stato ideologie fasciste, poi, andrebbe processato. Riguardo al tema, consiglio il filmato Quale verità per piazza Alimonda (scaricabile gratuitamente su www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/veritadvd.php,) e un mio breve contributo, L’Italia dalle Fogne, leggibile sul sito www.cittafuture.org.

[30] Don Gallo pronuncia questa frase con un sorriso pieno di comprensione e ironia, e continua: «Quanti ammazzerebbero la suocera, ogni domenica, e non lo fanno non perché sono buoni, ma per paura delle conseguenze?».

[31] «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», dall’art. 27 della Costituzione Italiana.

[32]«73 detenuti su 100 ha problemi di salute. All'interno delle celle la percentuale dei sieropositivi è dell'1,4, cioè mille volte superiore a quella del mondo libero. Il tasso dei suicidi o dei tentativi di autolesionismo è fra il 4 e il 10 per cento, fuori di uno su 10mila. Bastano questi numeri per misurare rischi, fragilità e infelicità di un luogo. […]Dalla ricerca risulta che le maggiori malattie presenti sono i disturbi di natura psichica (33,2%) e che la principale patologia psichica (12,7%) è il disturbo mentale da dipendenza da sostanze. Tra le malattie infettive il primo posto è occupato dall'epatite da virus C (9,1%), ma preoccupano i casi i relativi all'infezione da Hiv (1,4%): «Siamo davanti a una situazione grave - spiega Fabio Voeller del settore Epidemiologia dell'Ars - per esempio, ci preoccupa l'alta percentuale di epatite C, o il fatto che ci siano procedure che si inceppano perché mancano agenti, per portare un detenuto a fare degli esami in ospedale»». Fonte: La Repubblica, dell'8 luglio 2010.

[33] «Silvio Berlusconi: imputato in oltre 20 procedimenti giudiziari, nessuno si è concluso con una sentenza definitiva di condanna, per via di assoluzioni, declaratorie di prescrizione e depenalizzazioni dei reati. L’elenco: 2 amnistie (falsa testimonianza P2 e falso in bilancio Macherio); 1 assoluzione dubitativa (corruzione Gdf, falso bilancio Medusa); 1 assoluzione piena (corruzione giudici Sme-Ariosto); 2 assoluzioni per depenalizzazione del reato da parte dello stesso imputato (falsi in bilancio All Iberian, Sme-Ariosto); 8 archiviazioni (6 per mafia e riciclaggio, 2 per concorso in strage). E ancora 6 prescrizioni (finanziamento illecito a Craxi con All Iberian; falso in bilancio Macherio; falso in bilancio e appropriazione indebita Fininvest; falso in bilancio Fininvest occulta; falso in bilancio Lentini; corruzione giudiziaria Mondadori); 3 processi in corso: Telecinco (falso bilancio, frode fiscale, violazione antitrust spagnola), caso Mills (corruzione giudiziaria); diritti Mediaset (appropriazione indebita, falso bilancio, frode fiscale); 1 indagine in corso (istigazione alla corruzione di alcuni senatori). [Aggiungiamo l’indagine in corso in cui il Presidente del Consiglio è indagato per concussione, avendo preteso la liberazione della marocchina Ruby proprio in ragione della propria carica, e per sfruttamento della prostituzione minorile]. Guido Bertolaso: Il 10 febbraio 2010 è stato raggiunto da un avviso di garanzia nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti del G8. Secondo l’accusa Bertolaso, insieme a diversi imprenditori e altri membri della Protezione Civile, avrebbe fatto parte di uno scenario di corruzione con scambi di favori di svariata natura, anche sessuale, in cambio di appalti. Bertolaso si difende ammettendo la possibilità che durante la propria gestione della protezione civile l’operato di alcuni dei suoi collaboratori possa essergli sfuggito. Umberto Bossi: condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont, e per istigazione a delinquere e oltraggio alla bandiera. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4 mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana, per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Ha un altro processo in corso per lo stesso reato. Il Senatùr èuscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4 in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto. Ancora aperto, invece, il processo di Verona per le camicie verdi della cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996: Bossi, con altri 44 dirigenti leghisti, deve rispondere in udienza preliminare di attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una struttura paramilitare fuorilegge. Ma la maggioranza di centrodestra ha riformato i primi due reati in modo da assicurarne la decadenza al processo di Verona. Roberto Maroni: condannato in primo grado nel 1998 a 8 mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. In appello nel 2001 la pena è stata ridotta a 4 mesi e 20 giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio era stato abrogato. È anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Reati depenalizzati. Resta in piedi solo il terzo». Fonte: www.blitzquotidiano.it. Mi fermo per motivi di spazio.

[34] Temo la violenza, ma non posso più non vedere che chi incendia il cassonetto durante le manifestazioni a Roma, non è per forza un black block: può essere un ragazzo come me, che non ha mai avuto a che fare con la violenza, ma portato ad una disperazione ed esasperazione tali da rompere ogni ideale, ogni paura, anche quella di finire in carcere o di far male. Dove sono le altre strade, quelle che dovrebbe avere per parlare e agire? Dove sono i suoi interlocutori? Di fronte al vuoto galattico, stanno a migliaia i pieni, quelli dei giorni pesanti d’ingiustizie. La mia posizione, quindi, è di speranza non cieca alla realtà, ed è ben rappresentata da quanto scrive Don Gallo nella sua lettera di auguri alla città di Genova: «Buon Natale ai movimenti di studenti, di lavoratori, dei Centri sociali. Grazie per averci fatto riscoprire l’indignazione trasformata in rabbia per la conclamata assenza di futuro e di fronte all’arroganza menzognera. Da tanti anni nessuno vi ha ascoltato. È ancora possibile un dialogo? Con chi? Non vi abbandoni la creatività».

[35] Il concetto, ricorrente nelle poesie di Luzi, indica il giusto in relazione alla vita, la sua legittimità necessaria (Cfr. Dal fondo delle campagne, 1965).

[36] Nella società dell’Oceania delineata in 1984, il Ministero della Guerra si chiama Ministero della Pace, il Ministero dell’Amore si occupa delle torture, quello dell’Abbondanza si occupa delle carestie endemiche, il Ministero della Verità cura l'alterazione del passato e la confezione delle menzogne.

[37] G. ORWELL, 1984, Oscar Mondadori 2002. Pag. 140: «Si chiedeva quante persone, come lei, si potessero trovare nelle generazioni più giovani che erano cresciute nel clima della Rivoluzione, che non conoscevano nient’altro al di fuori di essa, che accettavano il Partito come qualcosa di inalterabile ed inattaccabile, come il cielo, mettiamo, che non si ribellavano contro la sua autorità, ma solo s’industriavano di fargliela sotto il naso […]».

[38] La frase è pronunciata da Mario Capanna, ma è l’epigrafe del giornale «Les Révolutions de Paris», attribuita al giornalista e rivoluzionario Loustalot: «Les grands ne nous paraissent grands que parce que nous sommes à genoux. Levons-nous!».

[39] «Nel 2009 il credito al consumo è sceso dell’11%, i prestiti personali hanno registrato un -13% e la cessione del quinto a settembre 2009 ha raggiunto il +8%. Facendo una media di questi indicatori, si può calcolare un 10% in più di poveri, da sommare agli oltre 8 milioni stimati. Nella vita di tutti i giorni la crisi si traduce in difficoltà a pagare la spesa, il mutuo, le cambiali (+14% nel 2009). Nei primi mesi del 2010 alcuni sostenevano che la crisi economica era in via di superamento, ma ancora oggi il problema appare in tutta la sua gravità, ci presenta le difficoltà delle persone disoccupate, delle famiglie impoverite, di quelle che sanno che prima o dopo finiranno gli ammortizzatori sociali». Fonte: In caduta libera, Rapporto 2010 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Caritas.

[40] A. CAMUS, La Peste, 1947. Pag. 190 («Il peut y avoir de la honte à être heureux tout seul. [...] J'ai toujours pensé que j'étais étranger à cette ville et que je n'avais rien à faire avec vous. Mais maintenant que j'ai vu ce que j'ai vu, je sais que je suis d'ici, que je le veuille ou non. Cette histoire nous concerne tous»).