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04
Maggio 2011

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NOI NEGLI OCCHI DEGLI ALTRI.

Dal lager si santa Maria Capua Vetere

Vincenzo Del Core

 

Il 4 Aprile apre a Santa Maria Capua Vetere, nella ex caserma Andolfato, uno dei centri di cosiddetta accoglienza allestiti in Italia per i migranti maghrebini, in particolare tunisini, giunti a Lampedusa nelle settimane precedenti.

 

Il 18 Aprile più di duecento immigrati entrano nel centro, ma a differenza di chi li ha preceduti, essendo arrivati in Italia dopo il 5 Aprile, non hanno diritto al permesso temporaneo, divenendo così, in uno stato di diritto, ostaggi del governo italiano. Il centro diventa il teatro di un sopruso generalizzato.

 

Il 21 Aprile si riuniscono gruppi di attivisti a portare sostegno ai giovani detenuti all’interno, oltre le 48 ore previste dal protocollo relativo all’accoglienza prevista in questo tipo di centri recentemente adibiti. Scatta un periodo di vuoto giuridico, in cui i tunisini sono dentro qualcosa che non è più un centro d’accoglienza, ma non è ancora un CIE (Centro di identificazione ed espulsione). La sera, dopo diverse ore, tentativi di fuga dei tunisini, guerriglia all’interno fra questi ultimi e i poliziotti, contestazione all’esterno, il centro diventa un CIE. Risulterà, paradossalmente, che i migranti detenuti all’interno oltre il periodo previsto, erano reclusi (secondo le autorità del regime) per loro spontanea volontà, visto che essendo un CAI (Centro accoglienza ed identificazione), dopo le 48 ore, potevano anche andarsene via di lì: insomma si sono fratturati gli arti ed hanno scavalcato l'imponente muro, con cocci aguzzi di vetro, solo per non uscire dalla porta principale.

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Quello che spinge un uomo a respingere un altro uomo è, per me, fondamentalmente oggetto di mistero: ed è così, che quando l’ombra di chi sta dinanzi a me si fa sempre più oscura, che io non posso esimermi dall’immergermi dentro!

 

Sentir dire da un parente leghista che la notizia di Napoli che brucia d’immondizia e degli extracomunitari che sono disperati nel loro Paese, non gl’interessa, perché lontana da lui, m’imbarazza: allora io lì forse capisco che non è l’egoismo che spinge un uomo ad ignorare un altro uomo, ma la sua stanchezza verso la vita: l’affievolirsi della cosiddetta “volontà di potenza” di cui Nietzsche tanto parla.

 

Quindi, per l’uomo medio, non si può portare disprezzo, ma solo attenzione e sostituirsi lì dove non può giungere: insomma capire che non tutti son così tanto forti da sopportare la sofferenza altrui: crearsi una sovrastruttura è così una facile soluzione su cui adagiarsi come “un genitore invisibile”: è un qualcosa che trasversalmente ci porta alla fuga ed alla non comprensione altrui.

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Insomma alla non-umanità.

 

Quante volte c’ho parlato con i “fratelli africani” e quante volte (nel fare la differenza) ho toccato con mano l’abulia dell’italiano e la sua vuotezza rispetto a questi .

Il suo essere pieno di complessi ed il suo litigare per questioni futili, anche nella lotta: fanciulli con la tetta della madre ancora in bocca, che piagnucolano se le cose non vanno, secondo (non dico le necessità) i propri capricci.

 

Abituati ormai a risolvere i nostri problemi tramite l’utilizzo sempre di un terzo non-umano.

 

Stare affianco ai migranti è quindi per me un esigenza d’umanità, in questo tempo dove per strada si vedono solo zombie-cadenti, dove l’unica qualità è l’antitesi del vigore pasoliniano: essere fiacchi significa oggi (nell’Era del Divano Rotto) essere parte di una società che corre, dove ai vertici del nostro inconscio c’è come ideale-fasullo “il big manager” capace di sostituirsi alla nostra fiacchezza.

 

Nel caso dei miei fratelli (detenuti senza aver commesso alcun “reato penale” in quella Caserma-Lager) non penso che vadano proprio così le cose, non penso che sia così stupida per loro la vita.

 

Noi siamo superficiali (anzi folli) perché abbiamo dato per scontato quasi tutto, credendo che tenere il “mondo in mano” significasse avere benessere, non ci siamo mai posti delle questioni di senso: e non riusciamo nemmeno a percepire che siamo incapaci d’avere la loro stessa fierezza: la stessa voglia di lottare, che in fondo dovrebbe essere il motore delle nostre scelte di vita.

 

Bambini contro Uomini!

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Quello che più mi mette rabbia e mi fa salire il sangue alla testa è che qui in Italia le manifestazioni non sono mai spontanee,e necessitiamo sempre dell’organizzatore che ci comunichi comodamente l’evento, o peggio, che permetta a più realtà d’intervenire. Forse i tempi son cambiati, ma credo che bisognerebbe agire come gli anarchici spagnoli nel lontano 36, che dinanzi all’occupazione fascista, solo guardandosi in faccia, hanno cacciato dalle fabbriche il nemico.

 

Ma noi abbiamo i nostri complessi e non è facile porsi da protagonisti, e nemmeno per me è facile avere una così piena responsabilità rispetto al mio vissuto: l’unico dato di fatto è quello d’aver ricevuto un educazione più che mediocre, dove l’essere pecora e nascondersi nell’ovile, è la qualità fondamentale per salvarsi la pelle: e per fortuna che stiamo in una società cattolica, dove i martiri cristiani affrontavano le belve feroci per difendere dal tiranno di turno la loro fede.

Se credessimo in qualcosa, forse, avremmo anche il coraggio del sacrificio, invece siamo immersi dai riti-meccanici, solo per stemperare la nostra violenza.

 

La nostra voglia di sudore è quindi nulla, rispetto alla forza dirompente di quegli angeli armati di rabbia. Difficile per chiunque fare un articolo sincero, quando si parla di questi uomini, ed è facile cadere nella mitizzazione: ma a me poco importa dell’essere reale, poco importa dell’essere obiettivo: il loro viaggio di ben 20 ore (in balia del mare) mi costringe a parlare di loro come degli eroi, che sono riusciti a strappare con le loro mani il momento più intenso dell’eternità.

Non mi va di parlare con lucidità! Non ci riuscirei, e potrei solo balbettare come Dante Alighieri davanti a Dio.

 

Posso solo dire che fuori a quella ex caserma Ezio Andolfato (dove dentro erano detenuti uomini liberi), e nel passeggiare durante quella manifestazione, io non portavo in me l’orgoglio, ma la vergogna d’appartenere ad un popolo come quello italiano.

Ad ogni passo del corteo pensavo alla miseria che ho subito, alla miseria degli amministratori locali, alla miseria di quei porci, alla miseria di tutti quelli che levandosi di tasca il peso di qualsiasi responsabilità sputano addosso al “dux di turno”.

L’italiano: un animale senza coda che ha l’esigenza lontana del comandare e del rimbecillirsi tramite i dieci comandamenti.

D’essere popolo ci siamo dimenticati: invece lì, tra i disperati, non esiste la paura: non possono permettersi d’aver paura.

 

(Il fotoreportage «Venti ore. Da Zarziz a Lampedusa» di Giulio Piscitelli su:

http://www.napolimonitor.it/2011/04/26/venti-ore-da-zarziz-a-lampedusa/)

 

APRILE 2011

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