NOI NEGLI OCCHI DEGLI
ALTRI
Vincenzo Del Core
Il 4 Aprile apre a Santa Maria Capua
Vetere, nella ex caserma Andolfato, uno dei centri di cosiddetta
accoglienza allestiti in Italia per i migranti maghrebini, in
particolare tunisini, giunti a Lampedusa nelle settimane precedenti.
Il 18 Aprile più di duecento immigrati
entrano nel centro, ma a differenza di chi li ha preceduti, essendo
arrivati in Italia dopo il 5 Aprile, non hanno diritto al permesso
temporaneo, divenendo così, in uno stato di diritto, ostaggi del governo
italiano. Il centro diventa il teatro di un sopruso generalizzato.
Il 21 Aprile si riuniscono gruppi di
attivisti a portare sostegno ai giovani detenuti all’interno, oltre le
48 ore previste dal protocollo relativo all’accoglienza prevista in
questo tipo di centri recentemente adibiti. Scatta un periodo di vuoto
giuridico, in cui i tunisini sono dentro qualcosa che non è più un
centro d’accoglienza, ma non è ancora un CIE (Centro di identificazione
ed espulsione). La sera, dopo diverse ore, tentativi di fuga dei
tunisini, guerriglia all’interno fra questi ultimi e i poliziotti,
contestazione all’esterno, il centro diventa un CIE. Risulterà,
paradossalmente, che i migranti detenuti all’interno oltre il periodo
previsto, erano reclusi (secondo le autorità del regime) per loro
spontanea volontà, visto che essendo un CAI (Centro accoglienza ed
identificazione), dopo le 48 ore, potevano anche andarsene via di lì:
insomma si sono fratturati gli arti ed hanno scavalcato l'imponente
muro, con cocci aguzzi di vetro, solo per non uscire dalla porta
principale.
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Quello che spinge un uomo a respingere
un altro uomo è, per me, fondamentalmente oggetto di mistero: ed è così,
che quando l’ombra di chi sta dinanzi a me si fa sempre più oscura, che
io non posso esimermi dall’immergermi dentro!
Sentir dire da un parente leghista che
la notizia di Napoli che brucia d’immondizia e degli extracomunitari che
sono disperati nel loro Paese, non gl’interessa, perché lontana da lui,
m’imbarazza: allora io lì forse capisco che non è l’egoismo che spinge
un uomo ad ignorare un altro uomo, ma la sua stanchezza verso la vita:
l’affievolirsi della cosiddetta “volontà di potenza” di cui Nietzsche
tanto parla.
Quindi, per l’uomo medio, non si può
portare disprezzo, ma solo attenzione e sostituirsi lì dove non può
giungere: insomma capire che non tutti son così tanto forti da
sopportare la sofferenza altrui: crearsi una sovrastruttura è così una
facile soluzione su cui adagiarsi come “un genitore invisibile”: è un
qualcosa che trasversalmente
ci porta alla fuga ed alla non comprensione altrui.
Insomma alla non-umanità.
Quante volte c’ho parlato con i
“fratelli africani” e quante volte (nel fare la differenza) ho toccato
con mano l’abulia dell’italiano e la sua vuotezza rispetto a questi .
Il suo essere pieno di complessi ed il
suo litigare per questioni futili, anche nella lotta: fanciulli con la
tetta della madre ancora in bocca, che piagnucolano se le cose non
vanno, secondo (non dico le necessità) i propri capricci.
Abituati ormai a risolvere i nostri
problemi tramite l’utilizzo sempre di un terzo non-umano.
Stare affianco ai migranti è quindi per
me un esigenza d’umanità, in questo tempo dove per strada si vedono solo
zombie-cadenti, dove l’unica qualità è l’antitesi del vigore
pasoliniano: essere fiacchi significa oggi (nell’Era del Divano Rotto)
essere parte di una società che corre, dove ai vertici del nostro
inconscio c’è come ideale-fasullo “il big manager” capace di sostituirsi
alla nostra fiacchezza.
Nel caso dei miei fratelli (detenuti
senza aver commesso alcun “reato penale” in quella Caserma-Lager) non
penso che vadano proprio così le cose, non penso che sia così stupida
per loro la vita.
Noi siamo superficiali (anzi folli)
perché abbiamo dato per scontato quasi tutto, credendo che tenere il
“mondo in mano” significasse avere benessere, non ci siamo mai posti
delle questioni di senso: e
non riusciamo nemmeno a percepire che siamo incapaci d’avere la loro
stessa fierezza: la stessa voglia di lottare, che in fondo dovrebbe
essere il motore delle nostre scelte di vita.
Bambini contro Uomini!
Quello che più mi mette rabbia e mi fa
salire il sangue alla testa è che qui in Italia le manifestazioni non
sono mai spontanee,e necessitiamo sempre dell’organizzatore che ci
comunichi comodamente l’evento, o peggio, che permetta a più realtà
d’intervenire. Forse i tempi son cambiati, ma credo che bisognerebbe
agire come gli anarchici spagnoli nel lontano
’36, che dinanzi all’occupazione fascista, solo guardandosi in
faccia, hanno cacciato dalle fabbriche il nemico.
Ma noi abbiamo i nostri complessi e non
è facile porsi da protagonisti, e nemmeno per me è facile avere una così
piena responsabilità rispetto al mio vissuto: l’unico dato di fatto è
quello d’aver ricevuto un educazione più che mediocre, dove l’essere
pecora e nascondersi nell’ovile, è la qualità fondamentale per salvarsi
la pelle: e per fortuna che stiamo in una società cattolica, dove i
martiri cristiani affrontavano le belve feroci per difendere dal tiranno
di turno la loro fede.
Se credessimo in qualcosa, forse,
avremmo anche il coraggio del sacrificio, invece siamo immersi dai
riti-meccanici, solo per stemperare la nostra violenza.
La nostra voglia di sudore è quindi
nulla, rispetto alla forza dirompente di quegli angeli armati di rabbia.
Difficile per chiunque fare un articolo sincero, quando si parla di
questi uomini, ed è facile cadere nella mitizzazione: ma a me poco
importa dell’essere reale, poco importa dell’essere obiettivo: il loro
viaggio di ben 20 ore (in balia del mare) mi costringe a parlare di loro
come degli eroi, che sono riusciti a strappare con le loro mani il
momento più intenso dell’eternità.
Non mi va di parlare con lucidità! Non
ci riuscirei, e potrei solo balbettare come Dante Alighieri davanti a
Dio.
Posso solo dire che fuori a quella ex
caserma Ezio Andolfato (dove dentro erano detenuti uomini liberi), e nel
passeggiare durante quella manifestazione, io non portavo in me
l’orgoglio, ma la vergogna d’appartenere ad un popolo come quello
italiano.
Ad ogni passo del corteo pensavo alla
miseria che ho subito, alla miseria degli amministratori locali, alla
miseria di quei porci, alla miseria di tutti quelli che levandosi di
tasca il peso di qualsiasi responsabilità sputano addosso al “dux di
turno”.
L’italiano: un animale senza coda che ha
l’esigenza lontana del comandare e del rimbecillirsi tramite i dieci
comandamenti.
D’essere popolo ci siamo dimenticati:
invece lì, tra i disperati, non esiste la paura: non possono permettersi
d’aver paura.
(Il fotoreportage
«Venti ore. Da Zarziz a Lampedusa»
di Giulio Piscitelli
su:
http://www.napolimonitor.it/2011/04/26/venti-ore-da-zarziz-a-lampedusa/)
APRILE 2011