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04
Maggio 2011

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Coscienza di classe e consenso oggi

IL CORAGGIO DELLA LUCIDITÀ.

Giulia Inverardi

 

Un incontro

Sul far della notte camminiamo con calma sotto la gru, quella da cui sei migranti hanno srotolato in faccia a tutta Italia striscioni di realtà. Parliamo piano o stiamo in silenzio, all’ascolto della bellezza della città che a quest’ora riemerge, ronzando nel buio fermo. È un momento quieto con un piede nel sonno, già lì dietro l’angolo.

Invece una voce malferma ci ritira indietro, qualcuno chiama noi: «Ehi amico…G’ribaldi…». Un uomo con un cappellino verde scuro e una maglia rossa ci si fa incontro, portando per mano una bicicletta bianca “Peugeot”, con il cestello anteriore zeppo di cose. Si fa incontro ai nostri sguardi sospesi a scrutare; no, non lo conosciamo. Ha la pelle olivastra, è malfermo anche sulle gambe, tanto che avanza strascicando i piedi e uno sguardo affaticato, a mezz’asta. Non fa che ripetere «G’ribaldi», «G’ribaldi»; immaginiamo voglia sapere dov’è Piazza Garibaldi e proviamo a spiegarglielo, ma ci fa capire che conosce poche parole in italiano. Cerco di scandirgli il tragitto in francese, ma frasi e sguardi restano senza approdo, in bilico uno sopra l’altro. Però lo sconosciuto si presenta, «Ahmed», e noi: «Giulia», «Cesare», «Valentino».

Ahmed si traveste all'istante da maschera ossequiosa, capovolgendo il significato del suo nome: al mio di nome apre un sorriso rapito, mi dice: «Tu es très belle», ma dà della “belle” anche ai ragazzi. Mi chiedo se quella della gentilezza esagerata sia l’unica carta che può giocare, per sperare di ottenere qualcosa da chiunque incontri. È inequivocabile il suo confidenziale avvicinarsi a noi, e il suo sorriso brilla di adulazione interessata. A me questa pirotecnia delle smancerie dà un senso di assurdità stridente, ma subito mi pare assurda anche la mia pretesa, che chi ha bisogno d’aiuto si uniformi alla mia fantasia del buon povero, che “chiede” e se ne va senza rischiare di infastidire. 

Ahmed estrae dalla tasca dei pantaloni un plico di fogli, ce li mostra mentre dice: «Io tun’sino…L’mpedussa ehm Sarracussa ehm N’poli…Rroma…M’lano…poi Br’sia…» e poi, in una litania che ripeterà ritmica e infinita: «Io tun’sino, io no dormir de quatro jorni…». I fogli tracciano il suo arrivo a Lampedusa, il fermo a Brescia e il decreto di espulsione del prefetto. Io faccio di queste carte fra le mani una colonna, per non farmi strattonare da impulsi contrastanti. Osservando Ahmed, mi insospettisce la sua palpebra stanca – sarò drogato? – ma non è più probabile che sia solo stanco?!, mi stanco io a immaginarmi il suo viaggio… – lancio uno sguardo all’auto aperta – ora entra e se la prende – ma che se ne fa? – l’importante è che non venga fermato di nuovo, sennò finisce in un CIE così, senza che abbia fatto nulla – per ora… – sì, ad oggi non ha fatto nulla e potrebbe finire comunque in un CIE, mentre io no… – ora sicuramente ci minaccia e ci porta via tutto – probabilmente gli sembra che siamo ricchi, che abbiamo un sacco di cose superflue – e non è vero? E a me non verrebbe da portar via cose superflue, se io fossi senza niente, senza colpa? – ma anche noi siamo senza colpa! – lui è senza colpa e in più non ha niente – ma noi non abbiamo davvero niente da dargli – sicuramente abbiamo più di lui – e di che ho paura? Che ci faccia del male? – ma che, sta offrendo lui le mentine a noi – magari è droga… – no, no, è proprio una mentina – non so neanche cosa il mio cervello sta montando per avere paura, per difendersi – devo difendermi?

Chiudo gli occhi, devo fermare l’oscillazione-percussione nella mia testa, con un’idea, un qualcosa – guardo la persona che ho davanti: Ahmed dice che è stanco, che da quattro giorni non dorme, che non ha niente, e per testimoniarlo ci mostra una specie di strofinaccio, un paio di ciabatte da piscina, una saponetta e un bagnoschiuma, tutto cacciato nel cestello della bici (un cestello uno; colonne e colonne di cestelli mi danzano in testa). Dopo questa ostensione, Ahmed nota il toscano che Vale sta fumando, ne chiede uno, Vale estrae la metà del toscano rimasto e gliela offre, ma Ahmed, senza quello che noi chiameremmo “riguardo”, reclama il resto. Osservo un po’ preoccupata la scena – i toscani costano – beh ma Vale ne ha altri – sì, ma sono la sua passione!: Vale ha un sorriso tra lo sforzato e l’ironico, e lascia che Ahmed prenda l’intera confezione, con un toscano intero e una metà, e infili il bottino sotto lo strofinaccio. Ahmed ringrazia profusamente, e fa: «Io…te…tutti fr’telli».

Ma è inutile sperare di venirne fuori con due risate: Ahmed continua a ripetere che è stanco e sono giorni che non dorme. Io non riesco a pensare di ospitarlo in casa mia, nessuno dei tre se la sente: vedo scorrere di pupilla in pupilla una gradazione di timori, dal furto dei soldi al furto di oggetti cari, alla distruzione di piccole cose alla violenza fisica; sento anche, in sottofondo stile coro tragico, l’accusa di coglionaggine che i vari genitori ci rivolgerebbero. Ahmed adesso piange. Colta alla sprovvista, vorrei prendergli una mano o stringergli una spalla, ma  subito i suoi lamenti suonano forzati, recitati. Cominciamo allora ad avanzare proposte che perdono convinzione a un quarto della frase: non sappiamo dove sia la Caritas, non sappiamo se nella vicina parrocchia, attiva nel supporto ai migranti, abbiano posti letto, non sappiamo se qualcuno di nostra conoscenza possa accogliere Ahmed. Mi chiedo se cerco soluzioni, o qualcuno a cui delegare il problema.

Nel frattempo, Ahmed si è seduto in auto. Io mi irrigidisco, ma vedo che Cesare è tranquillo, lo lascia fare. Ahmed chiede indirettamente di essere ospitato, oppure che lo portiamo da qualche parte. Gli proponiamo di accompagnarlo nella via di fronte, dove abitano molto tunisini, molti arabi, coi quali magari riuscirebbe a spiegarsi meglio (il suo francese è stentato, ma lui dice che è il mio ad essere “così così”); alla proposta, striscia per due volte il palmo della mano sotto il mento: «Tun’sini pff…no interesse…invece italiano…» e alza il pollice «italiano bene, amico!». Anche questa affermazione, come quella sul mio francese, ha un immediato effetto comico. Breve però, perché siamo proprio con le spalle al muro: la richiesta di aiuto di Ahmed è personale, a noi, e ci immobilizza. Mi sento inchiodata qui, ad essere coerente con quello che sostengo, non posso non trovare un modo per conciliare le convinzioni alla pratica, il generale al particolare, e insieme non mi viene un’idea. L’aria pesa nei polmoni. Cesare almeno pensa di telefonare al’8924, per farsi dare il numero della Caritas di Brescia.

Intanto, Ahmed ha cominciato a chiedere soldi, per dormire e mangiare; in auto allunga una mano, a tastare le borse – o no? Vale si siede sul sedile anteriore, gli parla, si fa raccontare qualcosa, e alla fine gli mostra il suo portafogli. Dentro ci sono 5 €, glieli dà. Allora Ahmed esce dall’auto, lo abbraccia, gli ripete «Fr’tello, fr’tello», e abbraccia anche me. Io sono un po’ restia alla nuvola di profumo che mi si fa contro, ma lui ripete: «No, no, fr’tello». Fraternamente o meno, mi stringe eccessivamente e allunga le mani verso il mio sedere; lo allontano calma, ma risoluta. Mi bacia sulle guance, poi cerca di avvicinarsi troppo, suscitando la mia irritazione e un intervento “divisorio” di Vale. Ahmed resta vicino, tiene la mia mano sulla sua guancia, la tiene con la sua; sembra un bambino. Poco dopo però mi ritrovo a bloccare col gomito una sua mano che da dietro risaliva verso il mio seno. In modo quasi infantile mi dice: «Tu molto belle...perché no, tu e io, sex, perché no?». Cerco di non farmi prendere da questa specie di collera che mi sale ai denti, gli dico: «Ma perché no. E poi lui è il mio ragazzo…mon ami…». A queste parole Ahmed inscena una rappresentazione teatrale fatta di invocazioni divine e inchini stesi a terra, a indirizzo del mio “ami”. Anche a me volge uno sguardo e gesti di scuse con le mani.

Cesare nel frattempo ha telefonato alla Caritas, ma nessuno risponde. Lo comunichiamo in qualche modo ad Ahmed, riusciamo anche a fargli capire che siamo studenti, che non abbiamo un’abitazione nostra, né soldi con noi. Lui si siede di nuovo in auto, sul sedile anteriore, e comincia a guardarsi attorno col suo sguardo appesantito; Cesare lo affianca al posto del guidatore, gli mostra il suo portafogli vuoto, trova qualche moneta che Ahmed rifiuta. Ci guardiamo, io e Cesare, come fosse la millesima volta, e i suoi occhi dicono quello che percepisco: timore, senso di colpa, forse anche vergogna della nostra impreparazione. Timore, quando Ahmed si distende indifferente sul sedile, o fruga nel portamonete che Cesare gli ha appena mostrato, vuoto di soldi. Senso di colpa quando Ahmed vuole regalare a me la sua saponetta, o capiamo che ha “riposato” solo per terra in questi giorni, o quando alle domande personali la persona che Ahmed è riprende la sua nitidezza. Sono solo dati e numeri che di solito appiattiscono e svuotano, ma ora l’uniformità fa risaltare la sua umanità, lo include nel gregge degli uomini: Ahmed è uomo con un’età, uomo con una provenienza, uomo con una donna che l’ha partorito. Capiamo che ha due bambini, e che sono quattro giorni che non dà notizie a casa. Gli spieghiamo anche, quando ci mostra le cifre traballanti su un foglietto, che nessuno di noi ha soldi sufficienti sul cellulare per offrirgli la chiamata. Pensiamo tutti che Ahmed abbia fermato le persone sbagliate.

Dopo l’approccio di Ahmed, pure blando e al quale ho risposto con fermezza, mi sono ritrovata seduta in auto, come se le gambe mi avessero ceduto (quando Ahmed vorrebbe sedersi dove sono io, gli rispondo secca: «Un attimo! Ci sono io qua!»). Ora non riesco a produrre altro che ramificazioni della mia stanchezza. C’è un silenzio sconfinato sotto le nostre occhiaie, più profonde delle tre di notte, e nel nostro sguardo, che non è il millesimo ma sempre lo stesso che corre senza tregua e riparte e rifà il giro, sul piano di asfalto surreale. Tutto è un teatrino – io seduta dietro con le gambe molli e il fiato doloroso, Cesare al volante con l’auto spenta e col sorriso insolitamente intermittente, questo Ahmed che mai ci saremmo immaginati di incrociare nelle nostre traiettorie già inclinate verso l’oblio notturno, Vale col suo toscano orfano e con gli occhi inarrestabili; un semaforo comincia a lampeggiare giallo e ad allarmare tutto; da un lato la gru gialla e blu a monumento delle proteste e a vietare scappatoie, dall’altro il palazzo finto-medievale, più in alto il castello tutto illuminato a fare scenografia, in mezzo il blu notte che riempie i nostri vuoti di idee. Ci sentiamo affogati.

Cesare abbozza un: «Ohi, noi dobbiamo andare…». Lo guardo quasi con sarcasmo, non credo proprio risolveremo la questione con una frase timida…Invece Ahmed si alza (ecco, ora anche il castello si alzerà su un paio di gambe e verrà giù dal colle); ci ringrazia tutti, ci richiede dov’è piazza Garibaldi; prova ancora a spillare a Cesare i soldi che non ha; chiede scusa ancora a Vale e a me; chiede a Vale di tagliarli a metà il toscano ancora intero, e raccoglie quello che ha buttato a terra quasi integro, nello scandalo generale, e ricomincia a fumarlo – per accendergli il moncone spento Cesare gli presta il suo accendino, e Ahmed chiede: «Regalo?!», Cesare annuisce, sorride: «Non ne dubitavo!». Sale sulla bici, ci saluta, e parte nel blu notte e nell’arancio che il semaforo spande attorno:

Arancio acceso – Ahmed c’è.

Arancio spento – Ahmed non c’è.

Arancio acceso – Ahmed c’è.

Arancio spento – Ahmed non c’è.

Arancio acceso – Ahmed non c’è.

Noi partiamo. Non diciamo una parola. Io sono dietro in auto, le gambe di pastafrolla e un tumulto in testa.

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Cosa ne pensate?

Che ironia della sorte. Mentre scrivo alcune riflessioni sull’immigrazione, la vita pensa bene di mettermi faccia a faccia con la realtà. Il reale né brutto né bello è un oggetto, uguale per tutti al centro del mondo, qui davanti: il reale è questo specchio bianco, ci vedo le mie idee come foglie senza l’albero attaccato – senza pluridimensionalità, pluritemporalità, prima, dopo, parallelo, rovescio e ombra, senza il brillio nascosto e la radice nella terra.

Pensateci voi. Pensate, sciogliete, conciliate. Cosa avreste provato? Sinceramente, cosa avreste pensato? E fatto? E cosa vi sareste detti? E soprattutto: dopo, che idea complessiva vi sareste fatti?

 

Cosa ne pensa Bruno Vespa – Brutti incontri

Mi capita di imbattermi in un articolo di Bruno Vespa, sul n° 16 di “Grazia” (18/04/2011). Lo leggo e la malafede, la colpevole mistificazione e la disperante bassezza di ragionamenti[1] di quello che dovrebbe essere un giornalista mi paiono così folli, che non posso non rilevarle in elenco.

Il giornalista Bruno Vespa nel 2008 ha scannerizzato ogni singolo individuo che è sbarcato a Lampedusa e, grazie a ignoti mezzi di intelligence, ha verificato il dato positivo: «non c’era tra quei disgraziati, né un tunisino, né un libico». Il giornalista Bruno Vespa, capisco poi, vuol cantare le lodi del Trattato Italia – Libia (Bengasi, 30 agosto 2008), per quanto concerne il contrasto all’immigrazione clandestina. Forse alcuni dati (la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, né lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998; in Libia l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati ha sempre avuto vita durissima, ed è stata chiusa senza spiegazioni nel giugno del 2010; quello libico era un vero regime, dittatoriale e violento[2]) non concorrono a formare il suo giudizio in merito, poiché egli approva, rimpiangendo anzi quella risoluzione, che lo Stato Italiano delegasse la gestione dei flussi migratori ad un dittatore senza scrupoli. Non mancano reportage e video[3] che testimoniano in quale modo Gheddafi garantiva che migliaia di africani non arrivassero sulle nostre coste: rinchiudendoli in carri bestiame e scaricandoli nel Sahara. Ma forse il giornalista Bruno Vespa non ne sa nulla, o non ritiene questi siano crimini che pesano sulla coscienza di chi ci governa, e di chi vota e sostiene chi ci governa.

Il giornalista Bruno Vespa ritiene che le proteste degli italiani di fronte ai numerosi sbarchi a Lampedusa siano “motivate” perché basate sul timore «di furti, scippi e di un generale peggioramento delle condizioni di vita nelle nostre città». Dunque, al giornalista Bruno Vespa basta, per compiere questa analisi, arrestarsi ad un pregiudizio, ossia all’equazione immigrazione – criminalità, ripetutamente smentita da studi seri e statistici[4]. Ma forse il giornalista Bruno Vespa non ha letto queste analisi. Oppure, il giornalista Bruno Vespa non conosce le regole di base per un serio giornalismo[5].

Il giornalista Bruno Vespa è inizialmente indotto a “grande moderazione” nella questione, a causa dei ricordi pietosi che la permanenza a Lampedusa gli ha lasciato, ma in seguito «questo sentimento si è, in parte, raffreddato» a causa di alcune occupazioni di seconde case da parte dei migranti. Bruno Vespa ritiene quindi che un giornalista debba modificare le proprie considerazioni in modo direttamente conseguente al variare dei suoi “sentimenti” personali ed episodici.

Il giornalista Bruno Vespa non riesce a comprendere il perché la maggioranza dei migranti siano uomini. Il giornalista Bruno Vespa metterebbe invece sua moglie su una carretta del mare, o forse il giornalista Bruno Vespa non ne ha mai vista una – di carretta del mare –, né sa immedesimarsi in questi uomini speranzosi, che probabilmente contano di arrivare, lavorare, regolarizzarsi, spedire i soldi alla famiglia perché si ricongiunga ad essi in Italia, con mezzi di trasporto meno rischiosi.

Il giornalista Bruno Vespa ha conosciuto ogni migrante italiano dal XIX secolo ad oggi, e ne ha seguito l’intera integerrima vita, dato che afferma: «Gli italiani venivano chiamati sulla base delle necessità dei paesi […] e nessuno, nemmeno tra i non molti clandestini, si azzardava a ricambiare l’ospitalità con atti di vandalismo». C’è, di nuovo, chi dispone di dati numerici reali[6], ma saranno pregiudizi[7], e sicuramente il giornalista Bruno Vespa conosce la storia: l’Italia pullula di teste zeppe di nozioni decorative, esperte ad esempio dell’arte del paradosso, ma incapaci di riconoscerne uno nel mondo reale.

Il giornalista Bruno Vespa è convinto che gli italiani emigranti fossero tutti onesti, ma con solenne compostezza concede che i vandali tunisini «sono una minoranza» e che «anche tra loro» (persino!) «c’è una maggioranza di persone con storie che meritano grande comprensione». Lodiamo il suo buon cuore? Noto solo che la tecnica dei “due pesi due misure” è nota e se ne abusa, nei nostri mass media: «Poiché non è accettabile né sostenibile una presa di posizione meramente xenofoba o un rilancio di atteggiamenti neorazzisti, […] si avanza una distinzione tra immigrati buoni e cattivi, tra diversi che credono nei valori dell’Occidente e fanatici che non ci credono. In tal modo l’antirazzismo di principio è salvo, e nel contempo si possono legittimare gli interventi repressivi o le stigmatizzazioni ideologiche nei confronti dell’Altro»[8].

Il giornalista Bruno Vespa non ha idea di cosa sia un’invasione, oppure non sa contare: afferma che «le dimensioni dell’invasione [rimarco: invasione] sono tali da richiedere attenzione anche sotto il profilo dell’ordine pubblico»[9].

Il giornalista Bruno Vespa è combattuto fra un buonismo di facciata e la sua vera natura, che sentenzia pacificamente: «Il nostro interesse è di spedirne [rimarco: spedirne] il più possibile nei Paesi di lingua francese». Il giornalista Bruno Vespa non si stupirà quindi se la Francia continua a opporsi allo scaricabarile che il governo italiano vorrebbe astutamente attuare. Il giornalista Bruno Vespa, en passant, considera gli uomini come merce da spedire.

Il giornalista Bruno Vespa, per concludere, ha tratto dal suo incontro con vari Ahmed l’idea che l’emergenza dei migranti, vera o presunta, vada gestita col metodo del bastone e della carota: «con il cuore ma anche con mano ferma». Il giornalista Bruno Vespa non conosce l’esistenza di un organo misterioso, a cui affidare la risoluzione di questioni complesse: il cervello[10].

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Cosa ne penso

Il giorno dopo aver incontrato Ahmed ci troviamo ancora noi tre. Buttiamo lì qualche battuta, sul frigorifero di casa che per Ahmed sarebbe stato subito “Regalo!” o sui rimpianti toscani, ma quello di ieri non può restare solo un episodio nella saga autoironica dei ricordi. Sento un bisogno potente, per colmare l’impreparazione emersa, di conoscere tutti i lati della realtà, tutte le statistiche, i dati, tutte le storie di tutti i Paesi, tutte le storie di tutte le persone straniere, e di quelle italiane. L’impossibilità sfuma nell’unica possibilità: un punto di partenza fermo, pulito da falsità e equivoci. Allora, negli scambi di idee immediate tra noi trovo un appiglio, poi un altro, una scala per riemergere ad una forma di comprensione: da dove bisogna partire, per capire come affrontare il fenomeno dell’immigrazione? Che aspetti si devono prima di tutto tenere fissi? Quali i trabocchetti, le false idee, e quando ci si acceca, in un senso o nel suo opposto?

 

Il di più di angoscia

Sono convinta che un di più di angoscia alle mie sensazioni l’abbia dato, durante l’incontro con Ahmed, la strategia dell’allarmismo cui i mezzi di comunicazione ci sottopongono. È un problema così chiacchierato, questo, che molti credono di averlo risolto schioccando le dita: “Io no, io so, io critico”. Credo invece che qualche inconscio tarlo si faccia strada anche in chi, e forse proprio per questo, ha la presunzione di essere immune ai condizionamenti noti. Qualche scossa si frappone sempre ad offuscare il nostro raziocinio, quando l’intento deliberato dei mezzi d’informazione più frequentati non è quello di suscitare curiosità critica e fornire punti di vista, ma di parlare il linguaggio degli istinti affinché essi prendano il comando esclusivo dei nostri pensieri e azioni. Rendendoci così, ovviamente, molto più docili: le paure ataviche che soprattutto la TV va a  stimolare sono altrettante redini su di noi, altrettante sottrazioni alla nostra libera ragione[11].

Mi sono resa conto che le mie preoccupazioni in quella situazione non solo sono state eccessive, ma soprattutto non erano “mie” preoccupazioni. Le provavo e contemporaneamente le guardavo con forte alterità, perché ero sequestrata non dalla mia emotività e da una circospezione giustificata, ma da un nervosismo esterno, parassita. Il bombardamento di maliziosi fraintendimenti, di facilità di superficie colpisce tutti, e solo accorgendosene si può ricominciare a ragionare, neutralizzando ciò che ci priva di noi stessi, del nostro autentico considerare il mondo.

Molti studi scientifici attestano la correlazione tra esposizione ai mass media e insorgenza di stati anche patologici di ansia, ma credo sia più convincente la prova individuale. Restate cinque mesi senza guardare la TV, e proverete un senso di vera disintossicazione da preoccupazioni, di liberazione e ritorno all’autenticità. Quando l’ho sperimentato, non mi sono trasformata in una sciocca imprudente: sono tornata ad essere la persona curiosa ma assennata che sono, che non vede un ladro o uno stupratore, per forza, in ogni ombra. L’attenzione guardinga è una cosa, il terrore e il di più di angoscia xenofoba sono un’altra. 

 

Non confondiamo tutto I

Non avevo mai percepito quanto manchino, nei discorsi e persino nelle analisi sull’immigrazione che ci attorniamo, alcune chiarificazioni di base che dicano: “questa è una questione e questa è un’altra”; “questo dato può essere vero, ma non è pertinente riguardo a quest’altro”. La messa a fuoco di cui anzitutto ho notato la mancanza è quella che separa i comportamenti del tutto variabili che una persona straniera può avere (l’insieme delle azioni prodotte dalla sua volontà, ed eventualmente influenzate dalla sua formazione culturale, sociale e religiosa) e la qualità invariabile di uomo di qualsiasi persona straniera.

Ciò che intendo, è che i comportamenti condannabili che uno straniero può avere sono un fatto; altro invece è il suo essere uomo: bisogna mantenere fermo l’individuo, sempre, inchiodarlo al centro della nostra considerazione, qualsiasi sia il dibattito che infuria. Al contrario, poiché troviamo inconcepibili alcuni comportamenti di alcuni stranieri, ne attenuiamo o neghiamo la qualità umana: perdiamo di vista il fatto che questo uomo violento è comunque un uomo e che, altra distinzione fondamentale, molto spesso non compie un crimine in quanto straniero, ma in quanto violento, o malato, o affamato[12]. Che alcune persone di religione musulmana rendano i precetti religiosi una giustificazione della sottomissione e della violenza sulla donna, ad esempio, non può far sì che le stesse persone vengano private dei diritti umani fondamentali. Non possono esserne private, a maggior ragione, per motivi futili, come pretese antipatie nazionali, o pregiudizi collettivi: “A me stanno antipatici i pakistani” non può essere la premessa (ridicola, ma tralascio) a: “I pakistani sono di tot gradi meno umani di me”

Questa distinzione dovrebbe sempre restare fissa, soprattutto quando si riflette sulla legislazione in merito all’immigrazione. Niente può giustificare una scala degli uomini: né violenze, né integralismi di nessuna natura, né abitudini differenti, né condizioni economico-sociali, né tantomeno impressioni e “superficialismi”, per nessun uomo, connazionale o straniero. Se corrisponde ad un crimine, sarà giudicato e sanzionato da chi ne ha la competenza il comportamento, non il grado umano di un essere umano. Le complesse origini di quel comportamento, poi, vanno certo studiate e viste, ma con lucidità e serietà: esperti con cognizione di causa, ad esempio, dovrebbero comprendere come fissare un limite all’ingerenza religiosa di qualsiasi confessione, o in che modo occorra intervenire qualora una pratica di certe popolazioni immigrate sia inaccettabile (ad esempio, la mutilazione genitale femminile). Tutto ciò mi sembra molto lontano, tutt’altro discorso appunto, dall’abbassamento ad un grado sub-umano che molti, con leggerezza, tributano ad alcuni migranti.

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Non confondiamo tutto II

Trovo micidiali anche altri pregiudizi, opposti a quelli di stampo razzista. Non voglio ridurre in un solo gruppo chi vorrebbe dipingere come facile ciò che è complesso, né le eventuali motivazioni, in buona fede o meno. Voglio solo sgombrare il campo da una serie di superstizioni altrettanto nocive di quelli leghiste, temo, perché non corrispondono comunque ad una lucida analisi: può essere l’apriorismo della “semplicità onesta” dello straniero, o della sua non arretratezza in nessun campo delle attività umane, quello generico della “facilità dell’integrazione”, o l’etichetta ipocrita che bolla come “cattiva interpretazione” ogni lettura violenta del Corano  (o della Bibbia: riguardo i molti effetti nocivi delle religioni, e la mancanza di consapevolezza in proposito, consiglio a tutti la lettura de “L’illusione di Dio”[13]).

Chiarimenti e premesse. È chiaro: che sono inorridita all’affermazione della “superiorità della civiltà occidentale” su quella araba; di fronte all’idiozia leghista, la raffinatezza di alcune epoche ed aspetti delle civiltà arabe mi è apparsa sempre come un faro; personalmente, non mi ritengo sufficientemente informata riguardo ad una moltitudine di questioni riguardanti il mondo arabo, o cinese, o dell’est Europa; non sono affatto propensa ad estendere a qualità generali del mondo arabo (o cinese, o sudamericano…) né le mie esperienze personali, né le non-statistiche da telegiornale. Premesso che: nessuna considerazione o dato, come detto, deve mai scalfire la dignità umana che tutti dobbiamo difendere in ogni uomo; nessuna simile considerazione può trasformarsi in una sentenza preventiva, a cui ci appelliamo in automatico ogni qualvolta incontriamo una persona che da quella società, cultura, religione proviene; c’è un’infinità di approfondimenti e studi e esperienze che occorre rinnovare continuamente. Chiarito e premesso ciò, non si può negare che alcuni comportamenti, attitudini o valori che spesso hanno persone provenienti da paesi esteri, li porteranno a scontrarsi con alcuni comportamenti, attitudini, valori che spesso molti italiani hanno. Vedere e conoscere al meglio quali sono queste aree di possibile scontro è il modo migliore per capire come governare il fenomeno dell’immigrazione, per attenuarne le punte taglienti e metterne a frutto i semi preziosi.

 

Esempio I

Credo che un rapporto personale offra situazioni particolari da cui osservare le questioni dell’integrazione, non per trarne conclusioni totalizzanti, ma per arricchire il quadro generale. Qualche anno fa feci un primo viaggio in Albania, alla scoperta del paese d’origine del mio ragazzo di allora, e quelle settimane sono state un vero catalizzatore di pensieri. Le occasioni di scontro e riflessione, di portata anche generale e “esistenziale”, sono state innumerevoli nel corso degli anni, ma è stato soprattutto in quel viaggio che mi sono saltati agli occhi gli effetti dei “pregiudizi positivi” e delle semplificazioni allegre.

Arrivavo in Albania già condizionata da mille fantasie: immaginavo uno Stato povero, ma pieno di tipicità, ed in sostanza europeo. Non mi aspettavo la distesa di mutilati al porto di Durazzo, le strade spaccate da voragini, le case dalle pareti mai costruite ma dal tetto superbo, il caos urbanistico, l’assurdo dell’autostrada (l’unica) e la contadina con foulard e mucca al lazzo che l’attraversano, i bambini tra i muli le pietre e il fango, i musei chiusi con il custode da scovare in paese.

Ma soprattutto i rapporti umani mi “gelano”, non per una negatività di fondo, ma per la difficoltà di comprensione. Dal cibo divenuto un incubo (non pensate al nostro Mezzogiorno: le famiglie che ci ospitato qui in Albania continuano ad organizzare banchetti col cibo che sarebbe bastato loro per le due settimane successive, e la madre del mio ex ragazzo cucina tanto che io rimetto tutto già al secondo giorno), alla stufa della discordia (fa freddo e sto tutta imbacuccata davanti alla stufa; la madre, che parla bene italiano, mi chiede se la deve spegnere; rispondo che se può la terrei accesa ancora un poco; lei, senza una parola, la spegne), alle risate sul bagnato (capisco poco l’albanese, e dopo un pomeriggio pieno di molte visite e di risate inspiegate, evidentemente, mi compare scritto in faccia che mi sento fuori luogo, quasi mi trattengo dal respirare; la madre gira lo sguardo su di me e con voce acuta mi chiede: «Giuulia, che haii? Non capiscii?!» e scoppia a ridere).

Piccole incomprensioni, niente di orribile e scioccante, ma causa e conseguenza di un senso di estraneità estremo, che assolutamente non mi aspettavo, di una difficoltà di contatto e comprensione forti come mai avevo sentito, né ho più sentito. Credo tutti avreste provato, ad esempio, un senso di soffocamento da gabbia dorata, perché riveriti ma privi di libertà d’azione e scelta – la vostra opinione sollecitata per essere cestinata, o sottomessa a leggi non scritte, né lettevi. Vi sareste sentiti non in un paese quasi europeo, fra persone quasi simili a voi nel modo di pensare, ma su un altro pianeta, fra extraterrestri. Forse si tratta di una problematicità “grado 1”: per la stufa e per la risata alle spalle del mio senso di esclusione, ho alzato le spalle e pensato al resto del viaggio. Ma riguardo a idee pregresse, e fondamentali per una persona? Riguardo il bisogno di formare il prima possibile una famiglia, e il bisogno di viaggiare e comprendere meglio, prima, se stessi e il mondo? Riguardo l’abitudine di attribuire ai membri della famiglia una sorta di diritto di gestione dei propri tempi, risorse e spazi, e una concezione della famiglia molto meno prioritaria? Riguardo problematicità “grado 10”?

Sarebbe stupido desumere che i padri albanesi si facciano solo servire e riverire, non allungando nemmeno il braccio verso il raki portato in tavola dalla moglie, che contemporaneamente sbriga altre mille attività domestiche, o che l’autostima di tutte le famiglie albanesi sia proporzionale ai chili di cibo consumati dall’ospite (una testa di ovino integra per estremo onore mi viene piazzata di fronte, gli occhi riflettono i miei sull’orlo di una crisi epilettica; ora ci rido su). Quello che desumo è che alle differenze individuali si aggiungono differenze a monte, a volte semplici – e il tessere un ponte ha un senso di utilità e ricchezza –, a volte di respiro ampio, riguardando concezioni che non ci precedono esternamente, ma ci pervadono e ci caratterizzano, perché le abbiamo riconosciute ed elaborate. Questa deduzione banale è fondamentale, senza alcun determinismo pessimista; mostra quanto le semplificazioni siano dannose e quanto invece si debba essere anzitutto lucidi, prima di qualsiasi emozione o pensiero. Inoltre, essa ricorda che l’integrazione è più grande dei singoli rapporti personali, ma insieme parte da essi: l’integrazione richiede la consapevolezza non solo delle dinamiche, delle alchimie dei rapporti umani, ma anche di altre, più studiate. Insomma, di nuovo: non (solo) col cuore, né (mai) con la forza, ma (soprattutto) col cervello.

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Esempio II

Quando Ahmed si è allargato nell’abbracciarmi, ho trovato del tutto fuori luogo, e quindi ancora più negativo, il suo comportamento; quando mi ha chiesto perché non potevamo fare sesso, il senso ridicolo della proposta ne ha coperto il lato offensivo: Ahmed forse non si pone la questione, o non concepisce che chiedere ad una ragazza di fare sesso con lui, avendola conosciuta da cinque minuti, equivale a considerarla priva di dignità e di “autoconsiderazione”. Non so come Ahmed la pensi, ma per me e sicuramente per molte ragazze una proposta simile non è segno di interesse, ammirazione, passione, né è “naturale”, è anzi l’opposto: ci fa sentire ininfluenti – capiamo che la proposta è “standard” e sarebbe rivolta a chiunque –,  esposte e pianamente “prendibili”, come un oggetto in una stanza senza voce in capitolo, che chiunque senza pensiero impugna.

Il punto è che persino un abbordaggio come quello di Ahmed, innocuo, in presenza di due ragazzi, appena tentato a gesti e appena richiesto a parole, ha creato sensazioni spiacevoli; di peggiori ne avrebbe create se non Valentino e Cesare, ma Elena e Isabella fossero state con me quella sera. Avremmo chiamato la polizia – quella stessa polizia opprimente e arrogante, che ci pare davvero fuori luogo, quando manifestiamo o solo passeggiamo in certe vie di Brescia –? L’incomprensione si sarebbe mantenuta piccola, senza insulti e senza danni?

Preciso. Che Ahmed sia tunisino o italiano, a me non importa; in un certo senso, a freddo, mi sento più “clemente” verso di lui e sarei più intollerante nei confronti di un italiano. Però, credo che alcuni comportamenti vengano sdoganati più da alcune culture che da altre: senza colpevolizzare gli individui, e senza confondere le questioni (un simile abbordaggio, ad esempio, non è uno stupro), penso che Ahmed si senta più legittimato a piccole iniziative simili nei confronti di una ragazza, rispetto allo stesso Ahmed in Italia da generazioni. Forse l’Ahmed appena sbarcato non si sogna che allungare le mani, dopo cinque minuti di conoscenza, può essere offensivo; questo può attenuare la sua colpa ai miei occhi, ma qui sta il problema: Ahmed dovrebbe sapere quali comportamenti non sono accettabili a nessun costo, con diverse gradazioni di “severità” di giudizio, in Italia, e a quali reazioni va incontro, senza eccezione. Ma insieme, è assurdo pensare che Ahmed possa sapere quali comportamenti sono moralmente scorretti in Italia, essendo vissuto per anni in una nazione che ne permette altri e ne condanna altri.

Penso quindi sia fondamentale trasmettere il prima possibile ai migranti alcuni strumenti, come informazioni riguardo la realtà italiana (culturali, di costume, riguardo abitudini e usi, legali e linguistiche…), per veicolare comportamenti compatibili e non soverchianti, per tutte le sensibilità. Non è di grande aiuto alla “formazione” dei nuovi italiani l’esempio dei vecchi, con la distonia nostrana fra dire e fare, fra familismo e violenze domestiche ad esempio, fra quote rosa e maschilismo devastante.   

 

Il problema dei fantasmi

Passati i grattacapi del momento, mi chiedo: che giorni avrà passato Ahmed? Avrà mangiato qualcosa di simile a questo piatto di pasta? E avrà trovato qualcosa di simile a questo letto? Sarà riuscito a chiamare casa? Avrà richiesto soldi e ospitalità ad altre persone? Più preparate ad aiutarlo? Oppure persone del tutto indifferenti, colpevolmente cattive, o governate dalle redini della paura? Avrà incontrato qualche leghista dal fucile facile? O qualche caporale, ed è già diventato due braccia che lavorano per la Brescia bene? Due braccia che portano alluminio, e magari già tanto rancore?

Il problema è: non lo sappiamo né possiamo saperlo. Ahmed è diventato un fantasma in una dissolvenza arancione, nel momento in cui è uscito dal nostro campo visivo: dov’è Ahmed? Ahmed è un uomo, non un fantasma: deve mangiare, dormire, stare bene; Ahmed può ammalarsi, essere picchiato e morire; Ahmed può fare del bene, del male, lavorare, rapinare, pagare o non pagare. Ma Ahmed diventa di asfalto appena esce dai miei occhi, Ahmed non c’è, eppure c’è! Questo mi terrorizza, perché migliaia o centinaia di migliaia, addirittura milioni di Ahmed vengono cancellati con la gomma, e non ho idea di cosa diventino: buchi neri del male, avamposti del bene; salute o malattia; vita o morte.

Per uno Stato che si vuole sicuro, favorire la clandestinità, ad esempio con leggi-trappola e non eliminando alla radice le cattive realtà, come il lavoro nero, che rendono praticabile e anzi conveniente la clandestinità in Italia, è una vera contraddizione in termini: un’ipocrisia criminale, criminogena e offensiva verso i propri cittadini e verso l’uomo. Come si vede, di passi in avanti da fare, in fatto di “vita felice” e migliore per tutti, ce ne sono molti, alcuni neanche troppo complicati.

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L’alternativa ai fantasmi: bacchetta magica o cannoni?

Ma che altro destino potrebbe avere Ahmed? Migliaia di uomini e donne arrivano, molti parlano italiano poco o niente, tutti credono di trovare un approdo e trovano un’Italia allo sbando in tutto, con fabbriche chiuse, operai in cassa integrazione da anni, laureati sommersi da stage che li macellano in serie, nessuno con la forza di difendere chi va difeso, una dittatura di antivalori unici e facili. E questi uomini che arrivano, hanno occhi pieni di altri paesaggi, usi, priorità.

No, non penso che dovremmo rimandarli indietro a cannonate. No, so che l’immigrazione è un fenomeno del tutto inevitabile e pieno di legittimità, appunto perché il “diritto alla vita” è un diritto. No, non cedo alle formule senza senso, al “prima i nostri” (nostri? Chi sono? Il mio vicino che bestemmia alla play-station? Quello che è nato e morto qui? Quello che è arrivato e ha passato un test d’italiano, di storia, di geografia che milioni di italiani non passerebbero?).

Al contrario, la conoscenza del quadro, progressiva, mi dà sempre di più la certezza che servono volontà incrollabili ed organizzazione, per creare terreno fertile a questa pioggia inevitabile e giusta; sempre più chiaramente si palesa come un danno, danno per tutti, qualsiasi azione che non veicoli una politica dell’immigrazione “positiva”. Una politica positiva nel conoscere la realtà attuale e storica, locale e globale; nel cercare di smussare gli angoli taglienti e nel puntare sulle possibilità di ricchezza; nel mirare anzitutto a giustizia ed equità, non dimenticando mai che di uomini si tratta; nel rendere questo spostamento inevitabile e legittimo di persone il più positivo possibile. Proprio perché l’immigrazione comporta delle problematiche complesse, tutto ciò che non mira con sincerità a risolverle le rende più complesse e potenzialmente pericolose. Pericolose per tutti. Ogni proclama della Lega, ogni euro speso in ronde, ogni legge che rafforza il circolo vizioso e spinge giù, sempre più giù verso l’illegalità e lo sfruttamento gli uomini nuovi, ogni azione che si oppone, che strumentalizza, che non ha capito, che banalizza in qualsiasi senso: tutto ciò, sono energie, soldi, tempo sottratti ad una vera politica utile, utile alla sicurezza, alla qualità di vita che deve, deve essere di tutti, senza prima e dopo, senza nostri. Non esiste la bacchetta magica, ma esistono lucide intenzioni, mezzi e metodi che vanno nella giusta a direzione. A cominciare dall’obiettivo di eliminare il più possibile le condizioni sociali, economiche e di disinformazione, presso la comunità ospitante italiana e presso i migranti, che acuiscono le differenze: se esistono differenze reali, che devono essere affrontate con coraggio e lucidità, occorre però sgonfiare quelle determinate in modo sempre più acuto dalle diseguaglianze, dalla discriminazione, dai pregiudizi.

 

Pensandoci infine

Non nego la spiacevolezza dei miei cinque minuti di disagio. Eppure ora, pensandoci, quelle impressioni sono ben poco. Ben poco, rispetto ai giorni in mare, in treno, in bicicletta, a tutto quanto c’è prima e attorno la vita di Ahmed. Ben poco, rispetto agli anni di disagio causati a me, direttamente, da chi mi ruba il futuro. E i miei cinque minuti di disagio, poi, non sono nemmeno “a causa di” Ahmed: sono a causa dello stesso genere di persone, quelle che rubano a me il futuro e di più il suo, che remano sempre contro tutti, pro a se stessi soltanto. Il nostro è stato un incontro fra esseri più o meno schiacciati, più o meno consapevoli, ma certo bisognosi di molto di più.

Una coraggiosa e lucida direzione allora c’è sempre, la stessa: l’unione di chi è schiacciato, di chi è ingiustamente privato di vita e dignità, per una ripartizione equa di risorse e aiuto, perché la gioia e il dolore non siano monopolio di nessuno.

 

MAGGIO 2011

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[1] Cito un paragrafo di un suo altro articolo: «[si tratta di] lavoratori manuali […] chiamati dal regime di Gheddafi a supplire alla tradizionale svogliatezza dei libici (che sono piuttosto scostanti e non vogliono sporcarsi le mani più di tanto). Non a caso, finora, non sono scappati dal loro Paese nonostante la guerra civile. Chiunque vinca, gas e petrolio gli consentiranno di vivere di rendita. La svogliatezza dei libici fa quasi pensare a quella dei giovani italiani» (Fonte: “Grazia” n° 18, 2 maggio 2011). L’arguzia sfavillante del pezzo non necessita sottolineature, come l’errore grammaticale nell’uso di un pronome personale.

[2] «Il folklore e la bizzarria del leader di Tripoli sono riusciti a far passare in secondo piano la situazione drammatica dei diritti umani in Libia, ai quali Amnesty International ha ora dedicato un nuovo rapporto, da cui emerge che “le riforme sono state incredibilmente lente e non all’altezza”, come ha dichiarato Diana Eltahawy [ricercatrice del segretariato internazionale sul Nord Africa, Amnesty International]. […] In Libia “la pena di morte viene inflitta per una vasta gamma di reati”, anche per “attività ascrivibili al semplice esercizio pacifico dei diritti di espressione e associazione”. Non esistono “salvaguardie contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, disumane e degradanti”, e si pratica un “sistema legale parallelo”, il cui fine è quello di processare persone accusate di reati “contro lo stato”. Particolarmente colpite sono due categorie: le donne e gli immigrati. […] La Libia non ha inoltre ratificato la Convenzione sullo status di rifugiato, e questo rende assai dura la vita agli immigrati (il cinquanta per cento dei condannati a morte, non a caso, è formato da stranieri, che sono doppiamente discriminati in quanto le dichiarazioni nei loro processi non sono tradotte nella loro lingua). […]“Mancano trasparenza e rule of law, e nessuna manifestazione di opposizione è tollerata”, aggiunge Eltahawy […].“Siamo ancora più preoccupati se pensiamo al ruolo di grande rilievo che ha assunto Tripoli a livello internazionale e a quanto strette si siano fatte le relazioni tra Italia e Libia”, ha osservato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty, che ieri ha presentato il rapporto alla camera dei deputati. […] Intanto la Libia si è di nuovo rifiutata di ratificare la Convenzione di Ginevra e non permette di operare all’ufficio dell’Unchr a Tripoli». (Fonte: «La Libia “disumana di Gheddafi - Torture, ingiustizie, censure: Amnesty lancia l’allarme», europaquotidiano.it del 18 novembre 2010).

[3] È de “l’Espesso” il video che ha scioccato il mondo: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/morire-nel-deserto/2119367.

[4] A titolo esemplificativo rimando ai Dossier annuali della Caritas Migrantes.

[5] Solo per avere un’idea: la Sentenza n° 112 del 1993, della Corte Costituzionale recita: «il giornalista è tenuto ad assicurare ai cittadini un’informazione: “qualificata e caratterizzata da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui [i giornalisti] attingono conoscenze e notizie in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni, avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti».

[6] Usa 1908: immigrati in cella per reati gravi:francesi: 341; inglesi 679; irlandesi: 395; italiani: 2.077. Fonte: Colajanni Napoleone, La criminalità italiana negli Stati Uniti d'America, Bollettino dell'Emigrazione, n. 4, Ministero degli esteri, Roma 1910. 

[7] «Il quartiere di Spalen a Basilea è diventato negli ultimi anni una vera colonia di operai transalpini. La sera soprattutto queste strade hanno un vero profumo di terrore transalpino. Gli abitanti si intasano, cucinano e mangiano pressoché in comune in una saletta rivoltante. Ma quello che è più grave è che alcuni gruppi di italiani si assembrano in certi posti dove intralciano la circolazione e  occasionalmente danno vita a risse che spesso finiscono a coltellate». (Fonte:La Suisse”, Ginevra, 17 agosto 1898); «Si suppone che l’Italiano sia un grande criminale. È un grande criminale. L’Italia è prima in Europa con i suoi crimini violenti. (…) Il criminale italiano è una persona tesa, eccitabile, è di temperamento agitato quando è sobrio e ubriaco furioso dopo un paio di bicchieri. Quando è ubriaco arriva lo stiletto». (Fonte: “New York Times”, 14 maggio 1909); «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro». (Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli Usa, ottobre 1912); «Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è… che non ne riesci a trovare uno che sia onesto». (Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti d’America, 1973).

[8] Grossi, Belluati, Viglongo, Mass-media e società multietnica, Milano, Anabasi, 1995, pag. 61.

[9] Per quanto riguarda il numero dei rifugiati, l’Italia si mantiene ad una quota contenuta (55.000), soprattutto in rapporto a Germania (600.000), Regno Unito (270.000) o Francia (200.000). Riguardo ai migranti sbarcati a Lampedusa in questi primi mesi del 2011, i dati ci parlano di 20.000 persone circa, non più di 30.000.

[10] I titoli dei testi firmati da Bruno Vespa paiono tradire la sua fissazione per la contrapposizione immaginifica di forza bruta e sentimenti, mentre la ragione gli resta sconosciuta: L’amore e il potere, Il cuore e la spada, Donne di cuori, Il duello

[11] Esistono moltissimi studi riguardanti gli effetti di linguaggio, immagini, modalità dei servizi dei mass-media, sulla nostra percezione della “realtà migrante” (cito gli autori: Mansoubi; Grossi, Belluati e Viglongo; Lodigiani); utile il saggio del Prof. Maurizio Core, avviato nell’ambito del Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona: «Noi e gli altri: l’immagine dell’immigrazione e degli immigrati sui mass-media italiani», “Prospettiva EP”, gennaio-marzo 2002.

[12] Non posso non citare una vignetta di Vauro; carabiniere ad una donna violentata: «Albanese? Marocchino» – «No. Uomo».

[13] Richard Dawkins, «L’illusione di Dio», Milano, Mondadori.