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04
Maggio 2011

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Recensioni

IL COMUNE di M. Hardt e T. Negri

Uno spettro s'aggira per il globo

Alessandro D'Aloia

 

Nel riportare alcuni, fra gl'innumerevoli, dei punti salienti dell'ultimo lavoro di Toni Negri e Michael Hardt, bisogna sgombrare subito il campo dalla pretesa di rendere in poche pagine la ricchezza di un testo enciclopedico, che si configura come una sorta di summa teorica del pensiero rivoluzionario nell'epoca attuale. Si cercherà piuttosto una chiave di lettura in cui tentare di evidenziare quei tratti di affinità con parte delle tematiche che la rivista sta cercando di portare avanti da un po' di tempo a questa parte e che il testo in questione riesce a legare insieme in una coerente e convincente trama teorica. L'indicazione è quella di cercare di apprezzare le categorie interpretative presenti nel testo al di là delle distorsioni e strumentalizzazioni cui alcune di esse sono state sottoposte negli ultimi anni, da parte di sinistre forze politiche, le quali in preda ad un “nuovismo” a tutti i costi improntato ad una pura estetica terminologica, perseguivano coscientemente l'unico obiettivo di determinare l'abbandono delle chiavi analitiche affermate nella lunga tradizione del movimento operaio, senza però essere in grado di fornire un nuovo quadro teorico comprensibile da porre quale riferimento dell'azione politica, al fine di giustificare il proprio governismo più bieco, capace di negare in toto tanto la tradizione quanto l'attualità di un'istanza rivoluzionaria a sinistra.

Il linguaggio utilizzato dagli autori è invece evidentemente frutto di una sincera tensione a fornire un quadro di azione ancorato alle condizioni variate in cui il capitalismo contemporaneo ci colloca rispetto al passato, senza con questo negare i capisaldi teorici classici, che restano validi nelle loro condizioni storiche.

Gli autori posseggono un'indubbia capacità di penetrazione delle problematiche contestuali attuali oltre che una vastissima conoscenza del pensiero critico dal quale attingono senza remore ideologiche di sorta, assumendo quell'utile atteggiamento di trasversalità speculativa che non disdegna fonti “allargate” rispetto alla tradizionale “ortodossia marxista”, pur dichiarando che il marxismo rimane il principale angolo visuale dal quale costruire le macchine concettuali con cui comprendere i fenomeni che si osservano[1].

Lo stesso titolo del testo, Il Comune, è straordinariamente simile e vicino all'evento della Comune parigina, il quale pur avendo originato la possibilità di una concezione completamente diversa della politica e della vita sociale è rimasto stranamente il grande riferimento mancato della politica di opposizione al capitale lungo i 140 anni che ci separano dalla sua apparizione. Il semplice artifizio letterario di titolare al maschile non autorizza, a parere di chi scrive, a pensare che si stia parlando di qualcosa di diverso [2] ed è anche per questo che il libro è interessante, nella sua riproposizione in chiave attuale dell'enorme questione della Comune. Se una “terza via” è contemplata nella visione degli autori, questa terza via è appunto quella comunista, terza rispetto alle opzioni storicamente egemoni del privato (dominio del capitale) e del pubblico (illusione socialdemocratica nel governo politico del capitale privato).

Non che gli artifizi non paghino necessariamente in termini di chiarezza, infatti le scelte stilistiche hanno le loro conseguenze. È il caso di una narrazione che si svolge quasi come un thriller, costretta per questo ad una certa frammentarietà, pur di lasciare alla fine il capitolo sulla rivoluzione, o ancora l'assimilazione tout court del concetto di “socialismo” con la concezione di una gestione pubblica e socialdemocratica dell'economia. Su quest'ultimo punto in particolare va detto che chi legga il libro capirà benissimo in quale accezione gli autori intendano la parola “socialismo”, ma che forse si poteva tentare quanto meno una differenziazione fra il socialismo come ideale di massa e la sua variante storica “reale” che negando il comunismo come orizzonte, negava non di meno il socialismo come suo innesco, stando almeno al Lenin di Stato e Rivoluzione, ad esempio.

Allora ammesso che nel linguaggio comune i termini conservano sempre una certa ambiguità non è poi difficile ammettere che una prospettiva rivoluzionaria abbia oggi bisogno tanto di costituirsi contro il capitale, quanto di superare le “illusioni socialiste” intese appunto come la credenza che sia possibile un governo, ancorché pubblico, del capitale. Il capitale è ingovernabile per fini ad esso estranei, tantomeno se si pensa che ciò sia possibile mediante le attuali forme di rappresentanza istituzionale.

Nondimeno resta possibile, a nostro avviso, intendere per “socialismo” esattamente la necessità di un orizzonte politico complessivo altro dal capitalismo, ed è questo il senso della rubrica intitolata «socialismo come fine», per quanto si renda senz'altro necessario problematizzare la questione della “transizione” in termini di continuità con il presente piuttosto che come fase nettamente definita in termini temporali. È del tutto condivisibile infatti la sollecitazione a pensare la rivoluzione come un processo asintotico ancorato nel presente e non separato da noi dal futuro, in quanto già potenzialmente operante nelle modalità del lavoro biopolitico.

«[…] la nostra declinazione non dialettica della transizione delinea un approccio asintotico il quale fa sì che, se anche il movimento non giunge mai a conclusione, la distanza tra la transizione e lo scopo finale, tra mezzi e fine, diventa così infinitesimale che cessa di avere importanza. Questa declinazione della transizione non va confusa con le vecchie illusioni riformiste che puntavano ad un cambiamento graduale con cui procrastinare indefinitivamente nel futuro l'avvento della rivoluzione»[3].

Questa presenza immanente nel presente degli elementi di una nuova concezione dell'esistenza è talmente condivisibile da portare a sostenere che, contrariamente a quanto ritenuto dagli autori, le condizioni per una produzione autonoma di valore e per un'autonoma “gestione del mondo” sono in essere almeno dal 1871, molto prima cioè della marginalizzazione del capitalista dal processo produttivo maturata con il lavoro biopolitico. Certo che ammessa questa impostazione bisogna capire cosa farsene del termine “socialista”.

È infatti del tutto ragionevole pensare, con Lenin, che fino a quando i lavoratori avranno bisogno di capi per lavorare essi sentiranno il bisogno di leader politici[4] mentre «la democrazia si impara solo facendola», e quindi che se fino ad oggi la democrazia, come autonoma gestione della vita, è stata negata, lo è stata non a causa dell'immaturità storica delle masse subalterne, o della moltitudine, ma per precisa volontà politica del capitale, che impone sempre separazione e quindi dei capi. Se così non fosse, non si tratterebbe di criticare la storia delle dirigenze politiche di sinistra ma direttamente l'incapacità politica della moltitudine. Marx riteneva invece che il ruolo del capitalista nel processo produttivo fosse storicamente superfluo già durante lo sviluppo del Capitalismo e non pare di poter affermare il contrario, neanche con il senno di poi.

Ma questo non vuol dire che dunque non si possa essere, a maggior ragione, d'accordo con l'assoluta attualità del problema dell'organizzazione autonoma del lavoro biopolitico, tanto più al punto al quale ci troviamo oggi. Ma cerchiamo di procedere con ordine, nei limiti del possibile.

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Prima questione: l'essenza del lavoro biopolitico e le diverse fonti del valore.

Se si ricorda la sostanziale assimilazione dell'inconscio ad una fabbrica e ad una società in costante moto produttivo, di cui siamo debitori all'anti-Edipo di Deleuze e Guattari[5], risulterà più facile concepire la produzione umana come “poiesi” ovvero come potere creativo innato nello spirito dell'uomo. Ne consegue che l'umanità produce continuamente ed instancabilmente indipendentemente dalle forme storiche di appropriazione di tale produzione, tanto che la storia è in definitiva la cronaca dei modi con cui il valore prodotto viene estorto. L'uomo crea valore non perché sottomesso all'imperativo della produzione, ma per indole creativa. La produzione di valore è data in assoluto, la sua trasformazione in valore economico è storicamente determinata. La produzione di valore eccede continuamente le forme storiche di estorsione che non sono in grado di realizzare l'intero valore potenziale. Gran parte di questo valore non è misurabile in termini economico-quantitativi, anche per questo è difficile monetizzarlo interamente. Il capitalismo si caratterizza nella sua fase fordista, come processo produttivo che estrae plusvalore dal lavoro salariato, in modo automatico. Questa la principale fonte di accumulazione che caratterizza il capitalismo in quanto tale. Tuttavia l'irrompere di questa nuova modalità di “estorsione pacifica” non annulla, né sopprime naturalmente altre forme di estorsione dirette ed indirette, che in qualche caso derivano da criteri di appropriazione precapitalistici, in altri casi, rielaborati, determinano la nascita di nuove forme di appropriazione post-fordiste, che vanno ad integrare le modalità proprie del capitalismo, tanto che la rendita, di cui la finanza è il principale organo di captazione, nelle sue diverse forme torna prepotentemente al centro della scena. L'insieme di tutte queste intercettazioni di valore economico rappresentano le esternalità di cui il privato beneficia senza merito alcuno ed indipendentemente dal suo ruolo nella produzione di ricchezza. Il lavoro biopolitico è questa produzione incessante di valore (in tutte le sue forme), nonostante ed al di là del biopotere che cerca di controllare il mondo. Il biopotere, come il capitalista, ed in generale, i capi, sono un ostacolo per la produzione di valore, oltre che gli estorsori concreti. Il lavoro biopolitico per produrre è costretto ad eludere in ogni modo possibile il biopotere, raffinando per questo motivo le sue capacità di organizzazione, di cooperazione e di autonomia. Il lavoro biopolitico è la resistenza quotidiana al potere, che nell'atto della resistenza produce più valore di quanto il biopotere osi realizzare in termini monetari. L'incapacità del capitalismo di realizzare tutto il valore è ciò che determina il paradosso di una creatività diffusa e nondimeno dispersa, parcheggiata ai margini dei processi produttivi perché assolutamente eccessiva per quello che il capitale se ne può fare: uno spreco inconcepibile di talenti come fotografia dell'inadeguatezza storica del capitale.

In realtà tutto ciò che le forme storiche di appropriazione privata non riescono ad incamerare va a costituire il Comune come essere, come ricchezza disponibile, che caratterizza la doppia essenza del Comune, come prodotto del lavoro biopolitico oltre che come insieme delle risorse naturali del pianeta.

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Seconda questione: il soggetto rivoluzionario, ovvero la moltitudine.

Ma quale è il soggetto del lavoro biopolitico? È la moltitudine. Perché non dire “il proletariato” o “i lavoratori” o “il popolo”? Perché le categorie storiche con cui si designano in genere le masse oppresse, si basano sul presupposto della possibilità di un'identità unica, che in realtà non esiste.

Gli autori sulla scorta delle tesi di chi già dagli anni settanta, lasciava notare come l'identità non sia altro che una costruzione artificiale[6] sostengono che se l'individuo stesso, o meglio una singolarità, è di per sé una molteplicità (inconscio come una società) non riconducibile ad unità della personalità, a maggior ragione una massa di singolarità non risulterà mai rappresentabile in una categoria unitaria. L'essere è in continuo divenire.

Ma l'impossibilità di un'identità collettiva è lungi dal dare per spacciata l'opzione rivoluzionaria. Dire che un soggetto è molteplice non significa infatti negarne l'esistenza e le possibilità storiche, ma solo riconoscerne la natura. Il problema perciò non è tanto chi fa la rivoluzione, ma come la fa.

Dunque il soggetto della rivoluzione, è lo stesso capace della produzione di valore, il quale non deve fare altro che rendere politica la sua resistenza quotidiana.

 «[…], il centro del programma politico è il passaggio dalla resistenza alla proposta e dalla jaquerie all'organizzazione. Si tratta di un passaggio arduo e complesso […]»[7].

Il problema della moltitudine è infatti il suo assoggettamento al capitale, ciò che rende la sua condizione poietica, ma non ancora “auto-poietica”, e che allo stesso tempo mantiene il Comune ancora al di qua di un “fare comune”, ancora nell'abito di un prodotto dell'azione piuttosto che nell'azione stessa.

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Terza questione: cosa rende la moltitudine un soggetto politico? L'organizzazione.

Organizzarsi politicamente per la moltitudine, che è sempre un assemblaggio di differenti movimenti di oppressi a diverso titolo, significa innanzitutto lottare per la propria soppressione.

Se l'identità non esiste, la lotta non può essere in nome di un'identità, dato che questa si trasforma inevitabilmente in una difesa della proprietà di una certa identità.

La soppressione dell'identità come fine della lotta recupera in pieno l'obiettivo marxista della soppressione delle classi, mediante l'estinzione dello stato e l'eliminazione della proprietà privata. Gli autori chiariscono la linea di demarcazione fra una politica rivoluzionaria ed una politica non rivoluzionaria attraverso la differenza fra “liberazione” ed “emancipazione” stigmatizzando tutte le tendenze volte al semplice «ottenimento di migliori condizioni di lavoro, salari più alti, migliori servizi sociali, una più larga rappresentanza nei parlamenti […] e perfino un certo grado di emancipazione, ma solo a condizione di conservare l'identità di lavoratori ed operai»[8]. Una politica rivoluzionaria non può conservare una separazione di ruoli sociali, che è una differenziazione delle parti e una classificazione delle identità. Di passata gli autori fanno notare come la difesa ad oltranza delle identità costituisca in nuce la sconfitta, ad esempio, dei movimenti di genere e antirazziali ogni qualvolta questi non assumano l'obiettivo del superamento dell'identità di genere o di quella razziale, come la finalità del loro moto. Non è inutile sottolineare che il superamento dell'identità non va interpretato come un'uniformazione sociale (tutti proletari o tutti borghesi), ma esattamente all'opposto come la liberazione delle singolarità e delle diversità, alle quali proprio la concezione dell'identità come un'unità non riconosce nessuno statuto di esistenza.

«Le identità possono essere emancipate, ma solo le singolarità possono liberare se stesse»… Ci tocca perdere quello che siamo per guadagnare quello che possiamo diventare» [9].

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Quarta questione: le istituzioni della democrazia rivoluzionaria.

Se l'identità non esiste essa non può essere rappresentata politicamente, né dall'esterno, né dall'interno.

«Il nesso tra diritti ed identità è un'arma dello schema rappresentativo per catturare tutte le identità in una logica del riconoscimento e per sorvegliare il divenire delle singolarità»[10].

Ne consegue che le istituzioni della democrazia rivoluzionaria non possono in alcun modo basarsi sull'istituto della rappresentanza.

«La libertà e l'uguaglianza chiamano in causa la democrazia in contrapposizione alla rappresentanza politica. A questo riguardo ci sono due istanze della rappresentanza […]. La prima imponeva la costruzione della categoria del popolo sul presupposto dell'esclusione della moltitudine. […], un popolo non è una formazione spontanea o naturale, ma è costituito da meccanismi rappresentativi che traducono la pluralità e l'eterogeneità delle singolarità in un'unità tramite l'identificazione con un leader, un gruppo dominante o in certi caso con un ideale. La seconda istanza rappresentativa, concernente in particolare il livello costituzionale, opera una sintesi disgiuntiva tra i rappresentanti e i rappresentati. […] La separazione tra rappresentati e rappresentanti costituisce una delle pietre angolari del potere. In entrambe queste istanze, la logica della rappresentanza detta che un popolo esiste solo ed esclusivamente in relazione alla sua leadership e viceversa. Questo artificio fonda una forma di governo aristocratico e per nulla democratico e questo anche se il popolo elegge l'aristocrazia. […]»[11].

L'istituzione rivoluzionaria non sarà mai statica, ma in continuo divenire, aperta permanentemente al conflitto e agita in prima persona dalla moltitudine, realizzando in questo modo la democrazia viva, in nome del fare comune e in opposizione tanto al privato, quanto al pubblico, vale a dire alla mediazione politica esterna e professionale. Se l'opposizione al privato è scontata, importanza fondamentale assume proprio la contestuale opposizione al pubblico, in quanto è questa a fondare l'istanza “abolizionista” dello Stato (lo stato deve essere abolito).

«La moltitudine ha interesse a mettere le mani sugli apparati di stato solo per smantellarli»[12] L'autonomia organizzativa come auto-poiesi della moltitudine e del lavoro biopolitico sarà ad un tempo capacità produttiva e autogestione politica.

«La democrazia dei produttori, oltre che dall'uguaglianza e dalla libertà, deve essere corredata da un elemento ancora più determinante: il potere di decidere l'organizzazione produttiva, le forme della cooperazione, e della comunicazione e di stimolare l'innovazione»[13].

La democrazia è lo strumento dell'auto-poiesi della moltitudine, essa nella sua realizzazione è ad un tempo mezzo e fine dell'azione rivoluzionaria. La democrazia non è un istituto, essa è un fare, un atto sempre da rinnovare, in una parola una prassi che dal fare si innerva nel sociale informando la vita e le sue modalità organizzative.

«Nella pratica politica […] l'unico modo per imparare è fare. […] La democrazia non è lo scopo di una moltitudine che disporrebbe dei poteri necessari per autogovernarsi, ma uno strumentario formativo, un dispositivo per espandere quei poteri, per formare non solo la capacità, ma anche il desiderio di partecipare al potere»[14].

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Quinta questione: un governo del divenire in permanenza. Il futuro ha i piedi nel presente

Lo stato nazionale non è più l'unica forma di potere istituzionale (così come il lavoro salariato non è più l'unica forma di produzione della ricchezza). Esso tuttavia permane accanto a nuove forme di potere, continuando a fondare la radice della follia capitalistica. Se le tesi imperiali volessero significare l'inutilità dell'attenzione verso lo stato nazionale, non sarebbe necessario sostenere il suo abbattimento. Invece l'analisi delle forme di potere sovra e sub nazionali torna utile a sostegno della possibilità concreta di una nuova forma di autogestione del potere fondata sul permanente divenire e sul conflitto. Negri ed Hardt fanno notare come le dinamiche di controllo del biopotere da tempo non hanno bisogno di stabilità per esercitare il proprio dominio. Il nuovo disordine mondiale post-ideologico, da tempo si concretizza in concentrazioni di potere “aristocratiche” non elette direttamente da nessun elettorato nazionale, quindi del tutto svincolate persino dall'istituto della rappresentanza che, a tutti i livelli, condizionano le politiche nazionali ed internazionali. Questa evidenza caratterizza l'attuale fase del dominio del capitale, che si svincola dal concetto di governo democratico, in favore del concetto di “governance” post-democratica. Il potere post-democratico si basa su una “distribuzione di poteri” a tutti i livelli.

«La governance non ha alcun bisogno di stabilità e regolarità per esercitare il potere dato che è assegnata alla gestione delle crisi ed è chiamata a intervenire su uno stato di eccezione permanente»[15]

Allora se il lavoro biopolitico è già abituato a creare le condizioni per la propria esistenza e quindi per la produzione, la governance rappresenta un metodo efficace già in opera per gestire la complessità del mondo, a patto di sovvertirne la declinazione imperiale per trasformarla nell'organo della democrazia e della rivoluzione.

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Sesta questione: alcuni elementi di un moderno programma di transizione

1. Accesso cognitivo. Fondato sulla convinzione che è la cultura che forma le ossa, il comune va inteso anche in termini di conoscenza. L'accesso al comune inteso come insieme di cognizioni, saperi e connettività sociale è indispensabile per la lotta contro la miseria intesa come «la condizione che ci costringe ad essere separati da ciò che possiamo fare, e soprattutto, da ciò che possiamo diventare»[16]. Nel concreto ciò significa: libero accesso alle reti comunicative, protocolli e codici sorgente aperti, opere e ricerche scientifiche a disposizione di tutti.

2. Tempo. Senza liberare tempo dal lavoro coatto non è possibile né partecipare alla vita sociale, stringendo relazioni e scambiando informazioni, né avere la forza fisica di farlo. Tutta l'energia dei singoli è assorbita nel lavoro, quindi l'istituzione di un reddito minimo garantito su scala globale è contemporaneamente ciò che permetterebbe una riserva di energie utili ad essere impiegate (socio-politicamente) all'esterno del lavoro, e ciò che permetterebbe il necessario “rifiuto del lavoro” coatto, soprattutto quando esso si configura come precario ed indegno per l'uomo. Senza questo la moltitudine è sempre ricattabile e impossibilitata a mettere in atto l'esodo dalla repubblica.

3. Autonomia. Permettere a tutti di partecipare alla vita politica equivale a rifiutare qualsiasi forma di gerarchia socio-professionale e quindi qualsiasi delega politica a mediazioni professionali separate.

4. Proprietà comune. La proprietà privata è il principale ostacolo per la realizzazione autonoma del comune. Essa va abolita tanto nella forma della proprietà privata dei mezzi di produzione quanto nella forma, ad esempio, dei diritti d'autore sulla produzione intellettuale, tutte declinazioni di un'appropriazione indebita di ricchezza generata in comune.

 

Con quanto detto si declina qualsiasi pretesa di esaustività dell'opera, invitando senz'altro alla sua lettura diretta.

 

APRILE 2011

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[1] «Nel marxismo e nella storia del comunismo rivoluzionario, che rappresentano i principali punti di riferimento del nostro lavoro, il processo rivoluzionario è inteso come un evento che accade innanzitutto, sul terreno della produzione economica. Oggi, anche per chi non intende rinunciare a questi riferimenti, la prospettiva dell'azione rivoluzionaria è iscritta nell'orizzonte biopolitico».  M. Hardt, T. Negri. Il Comune, oltre il privato e il pubblico. Rizzoli 2010, pag. 242

[2] «A un livello esclusivamente concettuale, possiamo iniziare a definire il comunismo in questo modo: ciò che la categoria del privato è per il capitalismo e ciò che la categoria del pubblico è per il socialismo, la categoria del comune è per il comunismo». Ibidem, pag. 275

[3] Ibidem, pag. 361

[4] Ibidem, pag. 351

[5] Cfr. Alessandro D'Aloia, Storia e (in)coscienza di classe, in Città Future 02

[6] Cfr. G. Deleuze e F. Guattari. L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. 1972

[7] M. Hardt, T. Negri. Il Comune, oltre il privato e il pubblico. Rizzoli 2010, pagg. 248, 249.

[8] Ibidem, pag. 331

[9] Ibidem, pag. 337

[10] Ibidem, pag. 345

[11] Ibidem, pagg. 304, 305

[12] Ibidem, pag. 353

[13] Ibidem, pag. 305

[14] Ibidem, pag. 375

[15] Ibidem, pag. 370

[16] Ibidem, pag. 378