Recensioni
		
		IL COMUNE di M. Hardt e T. Negri
		
		Uno spettro s'aggira 
		per il globo
		
		Alessandro D'Aloia
		
		Nel riportare alcuni, fra 
		gl'innumerevoli, dei punti salienti dell'ultimo lavoro di Toni Negri e 
		Michael Hardt, bisogna sgombrare subito il campo dalla pretesa di 
		rendere in poche pagine la ricchezza di un testo enciclopedico, che si 
		configura come una sorta di summa teorica del pensiero rivoluzionario 
		nell'epoca attuale. Si cercherà piuttosto una chiave di lettura in cui 
		tentare di evidenziare quei tratti di affinità con parte delle tematiche 
		che la rivista sta cercando di 
		portare avanti da un po' di tempo a questa parte e che il testo in 
		questione riesce a legare insieme in una coerente e convincente trama 
		teorica. L'indicazione è quella di cercare di apprezzare le categorie 
		interpretative presenti nel testo al di là delle distorsioni e 
		strumentalizzazioni cui alcune di esse sono state sottoposte negli 
		ultimi anni, da parte di sinistre 
		forze politiche, le quali in preda ad un “nuovismo” a tutti i costi 
		improntato ad una pura estetica 
		terminologica, perseguivano coscientemente l'unico obiettivo di 
		determinare l'abbandono delle chiavi analitiche affermate nella lunga 
		tradizione del movimento operaio, senza però essere in grado di fornire 
		un nuovo quadro teorico comprensibile da porre quale riferimento 
		dell'azione politica, al fine di giustificare il proprio
		governismo più bieco, capace 
		di negare in toto tanto la 
		tradizione quanto l'attualità 
		di un'istanza rivoluzionaria a sinistra.
		Il linguaggio utilizzato dagli autori è 
		invece evidentemente frutto di una sincera tensione a fornire un quadro 
		di azione ancorato alle condizioni variate in cui il capitalismo 
		contemporaneo ci colloca rispetto al passato, senza con questo negare i 
		capisaldi teorici classici, che restano validi nelle loro condizioni 
		storiche.
		Gli autori posseggono un'indubbia 
		capacità di penetrazione delle problematiche contestuali attuali oltre 
		che una vastissima conoscenza del pensiero critico dal quale attingono 
		senza remore ideologiche di sorta, assumendo quell'utile atteggiamento 
		di trasversalità speculativa che non disdegna fonti “allargate” rispetto 
		alla tradizionale “ortodossia marxista”, pur dichiarando che il marxismo 
		rimane il principale angolo visuale dal quale costruire le
		macchine concettuali con cui 
		comprendere i fenomeni che si osservano[1]. 
		Lo stesso titolo del testo, Il Comune, è 
		straordinariamente simile e vicino all'evento della Comune parigina, il 
		quale pur avendo originato la possibilità di una concezione 
		completamente diversa della politica e della vita sociale è rimasto
		stranamente il grande 
		riferimento mancato della politica di opposizione al capitale lungo i 
		140 anni che ci separano dalla sua apparizione. Il semplice artifizio 
		letterario di titolare al maschile non autorizza, a parere di chi 
		scrive, a pensare che si stia parlando di qualcosa di diverso
		
		
		[2] ed è anche per 
		questo che il libro è interessante, nella sua riproposizione in chiave 
		attuale dell'enorme questione 
		della Comune. Se una “terza via” è contemplata nella visione degli 
		autori, questa terza via è appunto quella comunista, terza rispetto alle 
		opzioni storicamente egemoni del privato (dominio del capitale) e del 
		pubblico (illusione socialdemocratica nel governo politico del capitale 
		privato).
		Non che gli artifizi non paghino 
		necessariamente in termini di chiarezza, infatti le scelte stilistiche 
		hanno le loro conseguenze. È il caso di una narrazione che si svolge 
		quasi come un thriller, costretta per questo ad una certa 
		frammentarietà, pur di lasciare alla fine il capitolo sulla
		rivoluzione, o ancora 
		l'assimilazione tout court del 
		concetto di “socialismo” con la concezione di una gestione pubblica e 
		socialdemocratica dell'economia. Su quest'ultimo punto in particolare va 
		detto che chi legga il libro capirà benissimo in quale accezione gli 
		autori intendano la parola “socialismo”, ma che forse si poteva tentare 
		quanto meno una differenziazione fra il socialismo come ideale di massa 
		e la sua variante storica “reale” che negando il comunismo come 
		orizzonte, negava non di meno il socialismo come suo innesco, stando 
		almeno al Lenin di Stato e 
		Rivoluzione, ad esempio.
		Allora ammesso che nel linguaggio comune 
		i termini conservano sempre una certa ambiguità non è poi difficile 
		ammettere che una prospettiva rivoluzionaria abbia oggi bisogno tanto di 
		costituirsi contro il capitale, quanto di superare le “illusioni 
		socialiste” intese appunto come la credenza che sia possibile un 
		governo, ancorché pubblico, del capitale. Il capitale è ingovernabile 
		per fini ad esso estranei, tantomeno se si pensa che ciò sia possibile 
		mediante le attuali forme di rappresentanza istituzionale. 
		Nondimeno resta possibile, a nostro 
		avviso, intendere per “socialismo” esattamente la necessità di un 
		orizzonte politico complessivo altro dal capitalismo, ed è questo il 
		senso della rubrica intitolata 
		«socialismo come fine», per quanto si renda senz'altro necessario 
		problematizzare la questione della “transizione” in termini di 
		continuità con il presente piuttosto che come fase nettamente definita 
		in termini temporali. È del tutto condivisibile infatti la 
		sollecitazione a pensare la rivoluzione come un
		processo asintotico ancorato 
		nel presente e non separato da noi dal futuro, in quanto già 
		potenzialmente operante nelle modalità del lavoro biopolitico.
		«[…] la nostra declinazione non 
		dialettica della transizione delinea un approccio asintotico il quale fa 
		sì che, se anche il movimento non giunge mai a conclusione, la distanza 
		tra la transizione e lo scopo finale, tra mezzi e fine, diventa così 
		infinitesimale che cessa di avere importanza. Questa declinazione della 
		transizione non va confusa con le vecchie illusioni riformiste che 
		puntavano ad un cambiamento graduale con cui procrastinare 
		indefinitivamente nel futuro l'avvento della rivoluzione»[3].
		Questa presenza immanente nel presente 
		degli elementi di una nuova concezione dell'esistenza è talmente 
		condivisibile da portare a sostenere che, contrariamente a quanto 
		ritenuto dagli autori, le condizioni per una produzione autonoma di 
		valore e per un'autonoma “gestione del mondo” sono in essere almeno dal 
		1871, molto prima cioè della marginalizzazione del capitalista dal 
		processo produttivo maturata con il
		lavoro biopolitico. Certo che 
		ammessa questa impostazione bisogna capire cosa farsene del termine 
		“socialista”.
		È infatti del tutto ragionevole pensare, 
		con Lenin, che fino a quando i lavoratori avranno bisogno di capi per 
		lavorare essi sentiranno il bisogno di leader politici[4] 
		mentre «la democrazia si impara 
		solo facendola», e quindi 
		che se fino ad oggi la democrazia, come autonoma gestione della vita, è 
		stata negata, lo è stata non a causa dell'immaturità storica delle masse 
		subalterne, o della moltitudine, ma per precisa volontà politica del 
		capitale, che impone sempre separazione e quindi dei capi. Se così non 
		fosse, non si tratterebbe di criticare la storia delle dirigenze 
		politiche di sinistra ma direttamente l'incapacità politica della 
		moltitudine. Marx riteneva invece che il ruolo del capitalista nel 
		processo produttivo fosse storicamente superfluo già durante lo sviluppo 
		del Capitalismo e non pare di poter affermare il contrario, neanche con 
		il senno di poi. 
		Ma questo non vuol dire che dunque non 
		si possa essere, a maggior ragione, d'accordo con l'assoluta attualità 
		del problema dell'organizzazione autonoma del lavoro biopolitico, tanto 
		più al punto al quale ci troviamo oggi. Ma cerchiamo di procedere con 
		ordine, nei limiti del possibile.
		Prima questione: l'essenza del lavoro 
		biopolitico e le diverse fonti del valore. 
		Se si ricorda la sostanziale 
		assimilazione dell'inconscio ad una fabbrica e ad una società in 
		costante moto produttivo, di cui siamo debitori all'anti-Edipo di 
		Deleuze e Guattari[5], 
		risulterà più facile concepire la produzione umana come “poiesi” ovvero 
		come potere creativo innato nello spirito dell'uomo. Ne consegue che 
		l'umanità produce continuamente ed instancabilmente indipendentemente 
		dalle forme storiche di appropriazione di tale produzione, tanto che la 
		storia è in definitiva la cronaca dei modi con cui il valore prodotto 
		viene estorto. L'uomo crea valore non perché sottomesso all'imperativo 
		della produzione, ma per indole creativa. La produzione di valore è data 
		in assoluto, la sua trasformazione in valore economico è storicamente 
		determinata. La produzione di valore eccede continuamente le forme 
		storiche di estorsione che non sono in grado di realizzare l'intero 
		valore potenziale. Gran parte di questo valore non è misurabile in 
		termini economico-quantitativi, anche per questo è difficile 
		monetizzarlo interamente. Il capitalismo si caratterizza nella sua fase 
		fordista, come processo produttivo che estrae plusvalore dal lavoro 
		salariato, in modo automatico. Questa la principale fonte di 
		accumulazione che caratterizza il capitalismo in quanto tale. Tuttavia 
		l'irrompere di questa nuova modalità di “estorsione pacifica” non 
		annulla, né sopprime naturalmente altre forme di estorsione dirette ed 
		indirette, che in qualche caso derivano da criteri di appropriazione 
		precapitalistici, in altri casi, rielaborati, determinano la nascita di 
		nuove forme di appropriazione post-fordiste, che vanno ad integrare le 
		modalità proprie del capitalismo, tanto che la rendita, di cui la 
		finanza è il principale organo di captazione, nelle sue diverse forme 
		torna prepotentemente al centro della scena. L'insieme di tutte queste 
		intercettazioni di valore economico rappresentano le
		esternalità di cui il privato 
		beneficia senza merito alcuno ed indipendentemente dal suo ruolo nella 
		produzione di ricchezza. Il lavoro 
		biopolitico è questa produzione incessante di valore (in tutte le 
		sue forme), nonostante ed al di là del
		biopotere che cerca di 
		controllare il mondo. Il biopotere, come il capitalista, ed in generale, 
		i capi, sono un ostacolo per la produzione di valore, oltre che gli 
		estorsori concreti. Il lavoro biopolitico per produrre è costretto ad 
		eludere in ogni modo possibile il biopotere, raffinando per questo 
		motivo le sue capacità di 
		organizzazione, di cooperazione e di autonomia. Il lavoro 
		biopolitico è la resistenza quotidiana al potere, che nell'atto della 
		resistenza produce più valore di quanto il biopotere osi realizzare in 
		termini monetari. L'incapacità del capitalismo di realizzare tutto il 
		valore è ciò che determina il paradosso di una creatività diffusa e 
		nondimeno dispersa, parcheggiata ai margini dei processi produttivi 
		perché assolutamente eccessiva per quello che il capitale se ne può 
		fare: uno spreco inconcepibile di talenti come fotografia 
		dell'inadeguatezza storica del capitale.
		In realtà tutto ciò che le forme 
		storiche di appropriazione privata non riescono ad incamerare va a 
		costituire il Comune come essere, come ricchezza disponibile, che caratterizza la doppia 
		essenza del Comune, come prodotto del lavoro biopolitico oltre che come 
		insieme delle risorse naturali del pianeta.
		Seconda questione: il soggetto 
		rivoluzionario, ovvero la moltitudine.
		Ma quale è il soggetto del lavoro 
		biopolitico? È la moltitudine. Perché non dire “il proletariato” o “i 
		lavoratori” o “il popolo”? Perché le categorie storiche con cui si 
		designano in genere le masse oppresse, si basano sul presupposto della 
		possibilità di un'identità unica, 
		che in realtà non esiste.
		Gli autori sulla scorta delle tesi di 
		chi già dagli anni settanta, lasciava notare come l'identità non sia 
		altro che una costruzione artificiale[6] sostengono che se 
		l'individuo stesso, o meglio una singolarità, è di per sé una 
		molteplicità (inconscio come una società) non riconducibile ad unità 
		della personalità, a maggior ragione una massa di singolarità non 
		risulterà mai rappresentabile in una categoria unitaria. L'essere è in 
		continuo divenire.
		Ma l'impossibilità di un'identità 
		collettiva è lungi dal dare per spacciata l'opzione rivoluzionaria. Dire 
		che un soggetto è molteplice non significa infatti negarne l'esistenza e 
		le possibilità storiche, ma solo riconoscerne la natura. Il problema 
		perciò non è tanto chi fa la 
		rivoluzione, ma come la fa.
		Dunque il soggetto della rivoluzione, è 
		lo stesso capace della produzione di valore, il quale non deve fare 
		altro che rendere politica la sua resistenza quotidiana.
		 «[…], 
		il centro del programma politico è il passaggio dalla resistenza alla 
		proposta e dalla jaquerie all'organizzazione. Si tratta di un passaggio 
		arduo e complesso […]»[7].
		Il problema della moltitudine è infatti 
		il suo assoggettamento al capitale, ciò che rende la sua condizione 
		poietica, ma non ancora “auto-poietica”, e che allo stesso tempo 
		mantiene il Comune ancora al di qua di un “fare comune”, ancora 
		nell'abito di un prodotto dell'azione piuttosto che nell'azione stessa.
		Terza questione: cosa rende la 
		moltitudine un soggetto politico? L'organizzazione.
		Organizzarsi politicamente per la 
		moltitudine, che è sempre un assemblaggio di differenti movimenti di 
		oppressi a diverso titolo, significa innanzitutto lottare per la propria 
		soppressione.
		Se l'identità non esiste, la lotta non 
		può essere in nome di un'identità, dato che questa si trasforma 
		inevitabilmente in una difesa della
		proprietà di una certa identità.
		La soppressione dell'identità come fine 
		della lotta recupera in pieno l'obiettivo marxista della soppressione 
		delle classi, mediante l'estinzione dello stato e l'eliminazione della 
		proprietà privata. Gli autori chiariscono la linea di demarcazione fra 
		una politica rivoluzionaria ed una politica non rivoluzionaria 
		attraverso la differenza fra “liberazione” ed “emancipazione” 
		stigmatizzando tutte le tendenze volte al semplice
		«ottenimento di migliori 
		condizioni di lavoro, salari più alti, migliori servizi sociali, una più 
		larga rappresentanza nei parlamenti […] e perfino un certo grado di 
		emancipazione, ma solo a condizione di conservare l'identità di 
		lavoratori ed operai»[8]. 
		Una politica rivoluzionaria non può conservare una separazione di ruoli 
		sociali, che è una differenziazione delle parti e una classificazione 
		delle identità. Di passata gli autori fanno notare come la difesa ad 
		oltranza delle identità costituisca in nuce la sconfitta, ad esempio, 
		dei movimenti di genere e antirazziali ogni qualvolta questi non 
		assumano l'obiettivo del superamento dell'identità di genere o di quella 
		razziale, come la finalità del loro moto. Non è inutile sottolineare che 
		il superamento dell'identità non va interpretato come un'uniformazione 
		sociale (tutti proletari o tutti borghesi), ma esattamente all'opposto 
		come la liberazione delle singolarità e delle diversità, alle quali 
		proprio la concezione dell'identità come un'unità non riconosce nessuno 
		statuto di esistenza. 
		«Le identità possono essere emancipate, 
		ma solo le singolarità possono liberare se stesse»… Ci tocca perdere 
		quello che siamo per guadagnare quello che possiamo diventare»
		
		
		
		[9].
		Quarta questione: le istituzioni della 
		democrazia rivoluzionaria.
		Se l'identità non esiste essa non può 
		essere rappresentata politicamente, né dall'esterno, né dall'interno. 
		«Il nesso tra diritti ed identità è 
		un'arma dello schema rappresentativo per catturare tutte le identità in 
		una logica del riconoscimento e per sorvegliare il divenire delle 
		singolarità»[10].
		Ne consegue che le istituzioni della 
		democrazia rivoluzionaria non possono in alcun modo basarsi sull'istituto 
		della rappresentanza. 
		«La libertà e l'uguaglianza chiamano in 
		causa la democrazia in contrapposizione alla rappresentanza politica. A 
		questo riguardo ci sono due istanze della rappresentanza […]. La prima 
		imponeva la costruzione della categoria del popolo sul presupposto 
		dell'esclusione della moltitudine. […], un popolo non è una formazione 
		spontanea o naturale, ma è costituito da meccanismi rappresentativi che 
		traducono la pluralità e l'eterogeneità delle singolarità in un'unità 
		tramite l'identificazione con un leader, un gruppo dominante o in certi 
		caso con un ideale. La seconda istanza rappresentativa, concernente in 
		particolare il livello costituzionale, opera una sintesi disgiuntiva tra 
		i rappresentanti e i rappresentati. […] La separazione tra rappresentati 
		e rappresentanti costituisce una delle pietre angolari del potere. In 
		entrambe queste istanze, la logica della rappresentanza detta che un 
		popolo esiste solo ed esclusivamente in relazione alla sua leadership e 
		viceversa. Questo artificio fonda una forma di governo aristocratico e 
		per nulla democratico e questo anche se il popolo elegge l'aristocrazia. 
		[…]»[11].
		L'istituzione rivoluzionaria non sarà 
		mai statica, ma in continuo divenire, aperta permanentemente al 
		conflitto e agita in prima persona dalla moltitudine, realizzando in 
		questo modo la democrazia viva, in nome del
		fare comune e in opposizione tanto al privato, quanto al pubblico, 
		vale a dire alla mediazione politica esterna e professionale. Se 
		l'opposizione al privato è scontata, importanza fondamentale assume 
		proprio la contestuale opposizione al pubblico, in quanto è questa a 
		fondare l'istanza “abolizionista”
		dello Stato (lo stato deve essere abolito).
		«La moltitudine ha interesse a mettere 
		le mani sugli apparati di stato solo per smantellarli»[12] 
		L'autonomia organizzativa come auto-poiesi della moltitudine e del 
		lavoro biopolitico sarà ad un tempo capacità produttiva e autogestione 
		politica.
		«La democrazia dei produttori, oltre che 
		dall'uguaglianza e dalla libertà, deve essere corredata da un elemento 
		ancora più determinante: il potere di decidere l'organizzazione 
		produttiva, le forme della cooperazione, e della comunicazione e di 
		stimolare l'innovazione»[13].
		La democrazia è lo strumento 
		dell'auto-poiesi della moltitudine, essa nella sua realizzazione è ad un 
		tempo mezzo e fine dell'azione rivoluzionaria. La democrazia non è un 
		istituto, essa è un fare, un atto sempre da rinnovare, in una parola una
		prassi che dal fare si innerva 
		nel sociale informando la vita e le sue modalità organizzative.
		«Nella pratica politica […] l'unico modo 
		per imparare è fare. […] La democrazia non è lo scopo di una moltitudine 
		che disporrebbe dei poteri necessari per autogovernarsi, ma uno 
		strumentario formativo, un dispositivo per espandere quei poteri, per 
		formare non solo la capacità, ma anche il desiderio di partecipare al 
		potere»[14].
		Quinta questione: un governo del 
		divenire in permanenza. Il futuro ha i piedi nel presente
		Lo stato nazionale non è più l'unica 
		forma di potere istituzionale (così come il lavoro salariato non è più 
		l'unica forma di produzione della ricchezza). Esso tuttavia permane 
		accanto a nuove forme di potere, continuando a fondare la radice della 
		follia capitalistica. Se le tesi imperiali volessero significare l'inutilità dell'attenzione verso lo 
		stato nazionale, non sarebbe necessario sostenere il suo abbattimento. 
		Invece l'analisi delle forme di potere sovra e sub nazionali torna utile 
		a sostegno della possibilità concreta di una nuova forma di autogestione 
		del potere fondata sul permanente divenire e sul conflitto. Negri ed 
		Hardt fanno notare come le dinamiche di controllo del biopotere da tempo 
		non hanno bisogno di stabilità per esercitare il proprio dominio. Il 
		nuovo disordine mondiale post-ideologico, da tempo si concretizza in 
		concentrazioni di potere “aristocratiche” non elette direttamente da 
		nessun elettorato nazionale, quindi del tutto svincolate persino 
		dall'istituto della rappresentanza che, a tutti i livelli, condizionano 
		le politiche nazionali ed internazionali. Questa evidenza caratterizza 
		l'attuale fase del dominio del capitale, che si svincola dal concetto di 
		governo democratico, in favore del concetto di “governance” 
		post-democratica. Il potere post-democratico si basa su una 
		“distribuzione di poteri” a tutti i livelli.
		«La governance non ha alcun bisogno di 
		stabilità e regolarità per esercitare il potere dato che è assegnata 
		alla gestione delle crisi ed è chiamata a intervenire su uno stato di 
		eccezione permanente»[15]
		
		Allora se il lavoro biopolitico è già 
		abituato a creare le condizioni per la propria esistenza e quindi per la 
		produzione, la governance rappresenta un metodo efficace già in opera 
		per gestire la complessità del mondo, a patto di sovvertirne la 
		declinazione imperiale per trasformarla nell'organo della democrazia e 
		della rivoluzione. 
		Sesta questione: alcuni elementi di un 
		moderno programma di transizione
		1. 
		Accesso cognitivo. Fondato sulla convinzione che
		è la cultura che forma le ossa, 
		il comune va inteso anche in termini di conoscenza. L'accesso al comune 
		inteso come insieme di cognizioni, saperi e connettività sociale è 
		indispensabile per la lotta contro la miseria intesa come
		«la condizione che ci costringe ad essere separati da ciò che possiamo 
		fare, e soprattutto, da ciò che possiamo diventare»[16]. 
		Nel concreto ciò significa: libero accesso alle reti comunicative, 
		protocolli e codici sorgente aperti, opere e ricerche scientifiche a 
		disposizione di tutti.
		2. 
		Tempo. Senza liberare tempo dal lavoro coatto non è possibile né 
		partecipare alla vita sociale, stringendo relazioni e scambiando 
		informazioni, né avere la forza fisica di farlo. Tutta l'energia dei 
		singoli è assorbita nel lavoro, quindi l'istituzione di un
		reddito minimo garantito su scala globale è contemporaneamente ciò 
		che permetterebbe una riserva di energie utili ad essere impiegate 
		(socio-politicamente) all'esterno del lavoro, e ciò che permetterebbe il 
		necessario “rifiuto del lavoro” coatto, soprattutto quando esso si 
		configura come precario ed indegno per l'uomo. Senza questo la 
		moltitudine è sempre ricattabile e impossibilitata a mettere in atto l'esodo dalla repubblica. 
		3. 
		Autonomia. Permettere a tutti di partecipare alla vita politica 
		equivale a rifiutare qualsiasi forma di gerarchia socio-professionale e 
		quindi qualsiasi delega politica a mediazioni professionali separate.
		4. 
		Proprietà comune. La proprietà privata è il principale ostacolo per 
		la realizzazione autonoma del comune. Essa va abolita tanto nella forma 
		della proprietà privata dei mezzi di produzione quanto nella forma, ad 
		esempio, dei diritti d'autore sulla produzione intellettuale, tutte 
		declinazioni di un'appropriazione indebita di ricchezza generata in 
		comune.
		
		Con quanto detto si declina qualsiasi 
		pretesa di esaustività dell'opera, invitando senz'altro alla sua lettura 
		diretta.
		
		APRILE 2011
			
				
				
				
				
				[1]
				«Nel marxismo e nella 
				storia del comunismo rivoluzionario, che rappresentano i 
				principali punti di riferimento del nostro lavoro, il processo 
				rivoluzionario è inteso come un evento che accade innanzitutto, 
				sul terreno della produzione economica. Oggi, anche per chi non 
				intende rinunciare a questi riferimenti, la prospettiva 
				dell'azione rivoluzionaria è iscritta nell'orizzonte 
				biopolitico».  M. 
				Hardt, T. Negri. Il Comune, oltre il privato e il pubblico. 
				Rizzoli 2010, pag. 242
				
				
				
				[2]
				«A un livello 
				esclusivamente concettuale, possiamo iniziare a definire il 
				comunismo in questo modo: ciò che la categoria del privato è per 
				il capitalismo e ciò che la categoria del pubblico è per il 
				socialismo, la categoria del comune è per il comunismo». Ibidem,
				pag. 275
				
				
				[3]
				Ibidem, pag. 361
				
				
				[4]
				Ibidem, pag. 351
				
				
				[5] 
				Cfr. Alessandro D'Aloia, Storia e (in)coscienza di classe, in Città Future 02
				
				
				[6] 
				Cfr. G. Deleuze e F. Guattari.
				L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. 1972
				
				
				
				
				[7] 
				M. Hardt, T. Negri. Il 
				Comune, oltre il privato e il pubblico. Rizzoli 2010, pagg. 
				248, 249.
				
				
				[8]
				Ibidem, pag. 331
				
				
				[9]
				Ibidem, pag. 337
				
				
				[10]
				Ibidem, pag. 345
				
				
				[11]
				Ibidem, pagg. 304, 305
				
				
				[12]
				Ibidem, pag. 353
				
				
				[13]
				Ibidem, pag. 305
				
				
				[14]
				Ibidem, pag. 375
				
				
				[15]
				Ibidem, pag. 370
				
				
				[16]
				Ibidem, pag. 378