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04
Maggio 2011

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Recensioni

LA ROULETTE DEL CAPITALISMO

Luigi Bergantino

 

Nell’introduzione del volume dello storico Lucio Villari, edito da Einaudi nel 1995, si ricorda un’intervista di John Kenneth Galbraith del 1993 pubblicata su di un quotidiano italiano: «Dobbiamo riconoscere che il capitalismo, come tutti i sistemi, cambia. Abbiamo più da temere ora dalla sua incapacità di quanto non si abbia da temere dalla sua autorità e dal suo potere […] Non sono mai stato tanto colpito dal capitale finanziario quanto, col passare degli anni, dalla sua mancanza di intelligenza e, a volte, dalla sua stupidità. Quando ero giovane mi preoccupavo molto del potere delle grandi società capitaliste. Adesso mi preoccupo della loro incompetenza».

Al di là della leggera ironia tipica di Galbraith, emergono chiaramente, in queste parole, dei concetti fondamentali: il capitalismo è una formazione storica e, in quanto tale, cambia; nella fase attuale, preceduta dalla fase dell’accentramento del potere nelle grandi corporation, il maggior pericolo deriva dal fatto che questo immenso potere, inseguendo unicamente un valore disumano come il profitto, si è posto fuori dall’umanità, fino a diventare “stupido”. L’avidità ha consumato anche quel particolare, deviato tipo di intelligenza che le ha permesso di svilupparsi tanto.

In questo breve scritto ho concentrato l’attenzione sulla svolta storica chiamata taylorismo: il culmine «di quel processo storico di identificazione tra capitalismo, razionalità e scienza che molto servì all’ampliamento dell’egemonia politica e sociale della borghesia».

Non è niente di originale, ma ho scelto di riportarlo ugualmente con l’idea di esporre la prima parte della ricostruzione di un processo – quello economico degli ultimi 140 anni – che oggi sembra giunto nei pressi di un ulteriore fase di svolta. Non ho fatto altro che attingere a piene mani dal bel libro di Lucio Villari, tralasciando, per il momento, la seconda parte delle suggestioni fornitemi dall’intervista di Galbreith – sull’istupidimento del potere economico – per limitarmi ad esporre i passaggi di un momento di grandi cambiamenti interni al capitalismo.

 

Uno dei capitoli del libro di Villari è intitolato al famoso ingegnere Taylor: «Le ragioni della Macchina». Subito si entra nel tema accennando a queste “ragioni”: «A metà Ottocento era maturata nella borghesia americana quella tipica mentalità (una vera ideologia) che vedeva nel consumo di beni industriali e di servizi la condizione prima del progresso materiale e spirituale dell’umanità».

Subito dopo si riporta l’emblematico esempio di un messaggio di augurio che il «romanziere Mark Twain» invia al «poeta Walt Whitman per il suo compleanno, congratulandosi con lui perché era vissuto in un’epoca così ricca di benefici materiali, compresi “gli stupefacenti, infinitamente vari e innumerevoli prodotti del catrame”. Se Whitman – continua Villari – fosse stato cittadino europeo ci si sarebbe congratulati con lui per l’altezza della sua poesia e non per essere questa poesia contemporanea dei derivati del petrolio». Queste parole si potrebbero interpretare come una battuta umoristica non troppo felice dello scrittore americano, se non fosse accompagnata dalla riflessione di un ingegnere che nel 1888 così commentava il sistema economico americano «che gli si trasformava sotto gli occhi»: «I grandi mercanti, i grandi fabbricanti, i grandi inventori, non hanno fatto forse per il mondo più di tutti i predicatori e filantropi? […] La storia e l’esperienza dimostrano che quando la ricchezza è stata accumulata e le cose costano meno, gli uomini migliorano nel modo di pensare, nell’atteggiamento verso gli altri, nelle idee di giustizia nonché di misericordia. Prima bisogna che ci sia il progresso materiale e su questo si fondano tutti gli altri progressi».

Tutto questo viene portato dall’autore come una testimonianza «di una onesta attitudine intellettuale della borghesia americana verso l’uso socializzato della ricchezza». È su questa attitudine positiva che poi germinò «una visione puramente tecnica delle attività economiche nella quale possono identificarsi le premesse teoriche dell’organizzazione scientifica del lavoro e della produzione venute alla luce negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80 [dell'Ottocento]».

Da qui nasce, quindi, l’importanza prima e il dominio poi del tecnico anche sull’economico. Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento gli Stati Uniti devono fronteggiare una disparità grave e crescente tra la geometrica ascesa dei volumi di produzione e la capacità di assorbimento della «normale domanda di mercato». Le cause di questo squilibrio erano individuate negli «alti costi di produzione» e nell’«inefficiente o inadeguato controllo e distribuzione della produzione». Il ruolo dei tecnici e degli ingegneri, che in quel momento si affacciavano dall’Accademia, fu immediatamente compreso dagli industriali americani con tutto il suo carico di opportunità ed utilità anche, ma chiaramente non solo, nell’abbattere il livello crescente di conflittualità tra lavoratori e imprenditori passato alla storia come «il periodo eroico della lotta sindacale negli Stati Uniti».

«Fu appunto un industriale, Henry Towne (proprietario della Yele and Towne Manifacturing Company), a presentare all’American Society Mechanical Engineers una memoria dal titolo “L’ingegnere come economista” nella quale si auspicava un interessamento dei tecnici della produzione ai problemi di gestione delle imprese e all’aspetto economico del loro lavoro. […] Il programma era troppo ambizioso e affascinante perché i tecnici non lo facessero proprio. Secondo Georges Friedmann, questi ingegneri, “pieni di sincera buona volontà, immaginavano di poter tranquillamente sovrapporre al caos del loro tempo un ordine quasi matematico, superare mediante un incessante sviluppo del rendimento i conflitti tra padroni e operai, e portare così il successo della ‘scienza industriale’ allo stesso livello dei trionfi delle scienze meccaniche”».

È in questo contesto che compare la figura di Frederik Winslow Taylor. Quest’ingegnere si inserì nel dibattito del momento che verteva sul perfezionamento del sistema del cottimo al fine di garantire al lavoratore un salario soddisfacente ottenendo in cambio una buona prestazione lavorativa. Il problema era urgente perché si rischiava di giungere ad uno squilibrio insostenibile, a causa della crescente meccanizzazione, tra investimenti imprenditoriale (in strutture, macchine, ecc.) e rapporto tra numero di impieghi (in aumento) e profitti (che erano in stasi o regresso). Il pericolo quindi era che scattasse «il temuto ordigno della caduta del saggio di profitto».

Fu per sfuggire a questa contraddizione che si concentrò tutta l’attenzione nel tentativo – poi riuscito – di estrarre da una nuova organizzazione del lavoro una «fonte autonoma di plusvalore che si trasformasse immediatamente in profitto». Certo ci sarebbero state le vecchie vie della prima rivoluzione industriale, dello sfruttamento diretto del lavoratore attraverso l’aumento delle ore di lavoro, ma questa, insieme alla via fin lì seguita dei bassi salari, erano, in quel momento negli Stati Uniti, impraticabili. Il momento tecnico sembrava l’unico àmbito sul quale lavorare per tenere insieme tutte queste esigenze e viaggiare verso una produzione sempre crescente di beni di consumo a basso costo.

Il programma prevedeva, nelle sue linee essenziali, da un lato la definizione di quanto l’operaio produceva e, soprattutto, di quanto avrebbe potuto effettivamente produrre; dall’altro l’eliminazione dell’«attività intellettuale […] dall’officina» per concentrarla «nell’ufficio programmazione» (Taylor).

Per “eliminazione dell’attività intellettuale” come presupposto dell’efficienza dell’azienda, ci si riferiva non soltanto all’eliminazione della «partecipazione attiva del lavoratore con la sua intelligenza e fantasia artigianale alla confezione degli oggetti», ma all’eliminazione della presenza stessa di questa attività.

La teoria di Taylor rappresentò proprio l’«anello mancante della nuova impresa capitalistica» e un momento «particolarmente qualificante della storia del modo di produzione capitalistico» che Antonio Gramsci definì come «“il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare, con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”».

L’economista e sociologo americano Thorstein Vablen nella sua Teoria dell’impresa (1904) ci offre le ragioni aziendali per giudicare in questo modo il taylorismo, scrivendo che «“La standardizzazione dei processi, dei prodotti, dei servizi e dei consumatori industriali, facilita enormemente il lavoro dell’uomo d’affari nella riorganizzazione delle imprese su scala più vasta [:] consente di uniformare il lavoro di contabilità, di fatturazione, di stipulazione dei contratti, eccetera”». Questa standardizzazione è ben lungi dal riguardare solo la semplice modalità di lavoro dell’operaio nella fabbrica ma investì – come scrive Taylor nel 1903 – «“tutte le classi sociali”».

Non sono mancate le previsioni ottimistiche degli esiti socialisti che “probabilmente” questa standardizzazione avrebbe, con buone probabilità, generato (Veblen, Lenin), sottovalutando il dato generale del non determinismo della storia e il dato particolare dell’«ambiguità di fondo» di questo sistema, facilmente assoggettabile alla logica del profitto, ma del tutto inefficace al governo di quest’ultima. L’inchiesta condotta negli Stati Uniti (pubblicata nel 1921) per «imporre l’adozione del taylorismo a tutte le attività produttive del paese» rivelò che lo spreco (inteso come il non raggiungimento dei massimi possibili di rendimento e di efficienza) «era dovuto dal 50 all’81 per cento alla direzione delle imprese e solo dal 9 al 28 per cento alla forza lavoro. Ma […] proprio nei settori chiave della produzione industriale americana […] il peso del taylorismo era gravato quasi esclusivamente sulla forza lavoro poiché tali industrie si erano enormemente sviluppate nonostante che ai managers spettasse la responsabilità della maggior parte degli sprechi».

La maggior parte degli industriali – complice la partecipazione degli Stati Uniti alla Prima guerra mondiale – interpretarono a modo loro la razionalizzazione.

 

MAGGIO 2011

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