banner
05
Ottobre 2011

home - indice

La città dell'uomo

FALSE CITTA'

Alessandro D’Aloia

 

Introduzione.

Polis o agglomerazione?

Nessun discorso intorno alla città potrà mai ritenersi definitivo e molti ne sono possibili. In questo scritto la città è intesa come prodotto materiale, e ad un tempo collettivo, della vita sociale, quadro generale dell'esistenza.

Quest’idea di città come manufatto collettivo è però in fortissima crisi, dal momento che essa non sembra più configurarsi come opera comune, ma come prodotto di pochi per la vita di molti. Chi costruisce la città nel tempo è una domanda che ha molto a che vedere con la sua qualità, con la sua capacità di essere uno spazio di libertà o, al contrario, uno spazio del controllo.

La rottura del nesso, storicamente esistente, fra cittadini-abitanti e costruzione del proprio spazio urbano, è uno dei principali, anche se generalmente sottovalutati, motivi della crisi della città, soprattutto quella vissuta (e non quella delle riviste patinate) che nel proprio degrado crescente materializza il segno di una ricchezza accumulata del tutto "fuori luogo".

Fra le analisi possibili della rottura di questo nesso, si propongono due punti di vista, e alcuni loro elementi, concettualmente separati ma concretamente relazionati, due dimensioni tra loro inscindibili nell’esperienza che l’ambiente urbano costituisce: lo spazio e il tempo della città.

Uno spazio qualsiasi slegato dall'esperienza è spazio archeologico, vale a dire morto e senza tempo.

La convinzione è che pur essendo la città sostanzialmente un fenomeno spaziale, la sua esperienza e le ricadute di questa sulla vita, non possono essere considerate astraendo dalla dimensione temporale, intesa da un lato come storia delle forme spaziali, ma dall’altro anche, e soprattutto, come risorsa sociale, che nella sua disponibilità o indisponibilità detta, in ultima istanza, la domanda circa la varietà delle tipologie di elementi urbani che la società immagina per se stessa. In questo senso la ricchezza o la povertà di spazi urbani, di cui la città si costituisce, risponde direttamente alla ricchezza o povertà di tempo sociale dedicato all’abitare, inteso in senso lato e non come la funzione precipua dell’abitazione. La persuasione è infatti che la città dovrebbe configurarsi come il luogo dell’abitare quanto e di più dell’abitazione stessa.

Allora gli elementi di crisi della città, quale materializzazione spaziale del tempo collettivo, sono da indagare in quei condizionamenti che da un lato non permettono la liberazione della forma nello spazio, dall’altro non permettono un rapporto temporale equilibrato tra la struttura urbana e suoi utilizzatori.

Il tempo considerato come risorsa, è il dato immateriale la cui disponibilità, può essere in grado di cambiare il rapporto dell'uomo con il proprio ambiente materiale e di de-specializzare l'interesse collettivo verso quest'ultimo. Concepire, al contrario, la questione urbana come completamente risolvibile all'interno del solo dato spaziale, produce un effetto anodino per il quale la forma dello spazio è percepita come un problema secondario, estetico, di interesse accademico, riservato agli amanti di forme vuote.

Da qui anche una sostanziale indifferenza della maggioranza della società riguardo gli esiti concreti dell’involuzione spaziale del costruito, sempre più in preda ad un dilagare del brutto e la convinzione conseguente, certamente fondata ma nondimeno fraintesa, che tutto ciò che è bello non può che appartenere al passato. Vedremo perché fondata, fraintesa perché ogni epoca produce una propria forma, la quale non può in nessun modo essere decontestualizzata temporalmente senza diventare immediatamente assurda. Ogni epoca ha le forme che si merita.

Non sembrerà pazzesco allora sostenere che la qualità della forma dello spazio, dipende sostanzialmente dalla quantità di tempo che la vita recupera per se stessa. In quest’ottica il problema della città, o del recupero del suo carattere positivo, più che essere un tema da "esperti della forma" rappresenta un interesse che non è possibile immaginare come indipendente dal più generale discorso sulla democrazia e la cultura che quest'ultima è in grado di generare. Ma questo non vuole significare in nessun modo che sia necessario affidarsi agli "esperti della politica" in luogo di quelli della forma (meglio i secondi che i primi a questo punto), semplicemente che si ammette che la falsa città è il riflesso materiale della falsa democrazia.

La polis, dal quale deriva il termine "politica", stava, all'origine, proprio a designare la città, quasi che i due fenomeni siano tra loro inscindibili e interdipendenti. Una città in cui il rapporto fra politica e fatti urbani sia, come avviene oggi, così drasticamente negato, rappresenta una vera e propria contraddizione in termini. Se anticamente la città è considerata quale "unità elementare" della politica, pensare che essa possa darsi in una dimensione astratta dalla partecipazione cittadina verso i fenomeni che la riguardano, significa ammettere che la politica non riguarda l’esistenza materiale delle persone e che queste debbano accettare una sua pratica implicante l’indifferenza verso tutto ciò che da più vicino le coinvolge. Come non notare che nella polis vigeva una sorta di ignoranza della separazione fra governati e governanti[1] e che all’affermarsi e al crescere di questa dicotomia nel tempo, si afferma e cresce la separazione fra chi costruisce la città e chi la vive? Se la democrazia è impensabile senza un tempo sociale della partecipazione attiva e diretta, allo stesso modo lo è lo spazio urbano e dunque non si potrà parlare di riappropriazione della città, del suo senso civile e della sua esperienza collettiva, senza legare questa necessità a quella più generale della riappropriazione della politica. Infine bisogna considerare che la città, in quanto habitat dell’uomo, rappresenta l’ambito in cui materialmente la coscienza può e deve misurare la relazione reale fra politica e vita quotidiana, unica in grado di legare in modo visibile cause ed effetti delle scelte politiche e perciò di formare esperienza concreta di azione politica. Una politica di parole mostra bene i suoi fatti, nella falsa città che produce. La città è sempre politica pietrificata[2].

Tuttavia, come già si accennava, l’ostacolo al recupero del significato positivo della città è duplice ed operante in entrambe le dimensioni che ne formano l’esperienza, cerchiamo di focalizzare alcuni elementi che impediscono una relazione feconda fra l'attività umana e il suo ambiente.

 (torna su)

1. Vincoli alla forma dello spazio

1.1 Il suolo e la sua storia dimenticata

È forse il caso di rispolverare velocemente alcune questioni di "archeologia" politica, passate nel dibattito veterocomunista della politica che fu, partendo dall'origine.

Al primo punto programmatico del Manifesto del partito comunista compare “l’esproprio della proprietà fondiaria e l’impiego della terra per le spese dello Stato”.

Tale punto, non necessita per gli autori del Manifesto di particolari spiegazioni, esso è quasi scontato, una sorta di premessa al cambiamento materiale dell’esistenza umana oltre il capitalismo.

La cosa, suona anche un po’ strana, dato che la terra, e i problemi della rendita fondiaria, sembrano infatti appartenere alle epoche precedenti lo sviluppo capitalistico e pertanto non essere elementi, in fondo, così importanti per l'esito della transizione verso il comunismo. Forse per questo motivo nella successiva storia dell'ideologia comunista (quella dei partiti), quando si parla di esproprio, se ne parla quasi esclusivamente in riferimento ai mezzi di produzione, come se l'unica preoccupazione vera sia soltanto quella di impedire la principale fonte di estorsione del lavoro, il  plusprodotto derivante dal meccanismo del plusvalore, per altro nuova forma di estorsione specifica (ed automatica) del capitalismo come sistema economico. Ne deriva una curiosa convinzione, per la quale basta negare al capitale la proprietà dei mezzi di produzione per realizzare un programma rivoluzionario, mentre si può sorvolare sull'eterno diritto dei privati di pretendere rendite derivanti dalla proprietà dei suoli (che è la proprietà certificata di una porzione del globo terrestre).

Se a questo si somma che l’avvento delle varie "riforme agrarie", di stampo borghese, sembra aver risolto definitivamente il problema della democratizzazione del suolo, sembra chiaro che è del tutto superfluo parlarne.

Osservando però la "città" attuale, sostanzialmente il più formidabile amplificatore conosciuto della rendita fondiaria, si notano i medesimi problemi (ad esempio la penuria di abitazioni accessibili a fronte dell'abbondanza di costruito) enumerati da Engels nel suo La questione delle abitazioni e non si capisce come mai su questo punto, e non solo, non si sia fatto nessun passo avanti (allo stesso modo di come non si riesce ad eliminare mai la disoccupazione). Anzi ad una lettura più attenta si osserva come nonostante sia oggi (quasi) realizzato lo scenario immaginato da Proudhon (il referente delle critiche di Engels), anche se per vie differenti, ovvero la diffusione (socializzazione) della proprietà della casa di abitazione (e della terra su cui essa sorge), questo fatto non abbia sortito nessuna soluzione ai problemi che attanagliano le condizioni dell'abitare dell'epoca capitalistica.

L'Italia è, per molti versi, un punto di osservazione privilegiato sulla questione, essendo uno dei paesi europei con il più alto rapporto di vani costruiti rispetto alla popolazione residente e uno dei paesi con la più alta diffusione di case di proprietà[3], ma allo stesso tempo uno dei paesi dove la pianificazione urbanistica è per lo più disciplina accademica senza applicazione pratica. Come ha potuto il bel paese, culla di cultura e di arte in tutti gli ambiti, (e modello storico di pianificazione urbanistica) trasformarsi nello scempio territoriale che abbiamo sotto gli occhi? Cosa è intervenuto nel frattempo fra la città storica e la sua attuale negazione? Cosa si oppone strenuamente ad ogni tentativo di ragionare attorno alla forma da dare allo sviluppo urbano? Non sarà forse proprio l'immenso, indistricabile garbuglio multistrato della proprietà diffusa?

Se Engels è contro la formazione di una classe reazionaria di piccoli possidenti[4], significa che egli prende in considerazione la mutazione sociologica che la proprietà privata è in grado di innescare, e tanto gli basta per decidere nettamente contro di essa, senza neanche voler considerare l'aspetto di vincolo di conformazione che la proprietà rappresenta per le possibilità di espansione del fenomeno urbano in sé e del significato che questo può avere sul destino della città materiale.

Il grosso equivoco, di considerare "democrazia" la spartizione particellare del globo, ha però un proprio “nobile” conforto. Le cosiddette “riforme agrarie” non sono state infatti solo il normale modo di procedere nelle diverse “rivoluzioni” borghesi, ma anche quello affermatosi nell’esempio della prima rivoluzione proletaria. Gli stessi bolscevichi, durante la Rivoluzione d'Ottobre, pensarono, per ragioni di ordine tattico, di distribuire la terra ai contadini, invece che tenerla in capo allo Stato per pianificarne l'utilizzo, come notato in seguito dallo spirito critico di Rosa Luxemburg, la quale, riprendendo in gran parte le osservazioni di Engels sul potere della proprietà privata di mutare geneticamente lo spirito rivoluzionario delle masse, separava l’opportunità tattica della mossa bolscevica, dalla sua opportunità rivoluzionaria[5].

Se una necessità storica contingente ha finito, da un lato, per determinare un decorso della rivoluzione sovietica problematico, ha, dall'altro, generalizzato un approccio positivo verso le cosiddette "riforme agrarie" di stampo borghese. Va però detto che se la politica bolscevica sacrificò completamente la sovranità statale sui terreni agricoli, essa si guardò bene dall’applicare la medesima politica ai suoli urbani, operando dunque una netta distinzione fra suoli urbani e extraurbani e fra suoli urbani stessi a seconda che le città fossero superiori o inferiori alla dimensione dei 10 mila abitanti[6].

In generale rispetto al problema della terra, e per transizione, dei suoli urbani, l'occidente ha pensato (parziale eccezion fatta per i bolscevichi) di risolvere la questione in un modo del tutto univoco: la parcellizzazione infinita della proprietà come unico modo di concepire la democratizzazione del dell'uso del globo terrestre. In questo la visione del problema nell'ideologia dei partiti comunisti occidentali si discosta poco o niente dalla visione dominante, se negli anni '70 del secolo scorso Henri Lefebvre, doveva ancora indagare la questione nei seguenti termini:

 

«Il radicalismo liberale (borghese) della Belle Epoque si proponeva di superare questi ostacoli alla crescita e allo sviluppo della società ereditati dalla storia, e si proponeva di abolire la proprietà privata del suolo, coltivabile o no. Pertanto, questo radicalismo mirava a sopprimere, mediante l'azione politica, la vecchia classe dei proprietari fondiari. Queste ambizioni, queste grandi intenzioni politiche non sono state realizzate. La stessa rivoluzione francese si è contentata di una "riforma agraria", la prima e una delle più ampie, che si è tuttavia limitata a un trasferimento della proprietà (confisca dei beni degli emigrati, acquisto di tali beni ad opera della borghesia in piena ascesa).

Nel quadro della proprietà privata in generale, la proprietà del suolo permane; sebbene abbia ceduto il passo di fronte a quella mobiliare (il denaro, il capitale), la proprietà immobiliare permane; anzi si consolida, rispetto all'epoca di Marx, giacché la borghesia arricchita compra la terra e acquisisce una proprietà fondiaria (e pertanto ricostituisce, sulla base di un nuovo monopolio, la proprietà fondiaria e la rendita del suolo). La proprietà del suolo, rimasta fondamentalmente intatta e ricostituita dal capitalismo, pesa sull'insieme della società.

Il cordone ombelicale che legava la società alla natura è stato tagliato male. Che cosa esigeva questo taglio e che cosa implicava una rottura? La città. […] In particolare, anzi soprattutto, subordinando il suolo al mercato, facendo della terra un "bene" commerciabile legato al valore di scambio e alla speculazione e non all'uso e al valore d'uso. Il cordone ombelicale […], si è trasformato in una corda, in un legame arido e duro, che impedisce i movimenti e gli sviluppi di questa comunità. Ne è anzi l'ostacolo essenziale»[7].

 (torna su)

In sostanza l'attuale assetto della proprietà privata dei suoli, non è affatto un dato scontato o “naturale”, ma la conseguenza di una rivoluzione borghese essa stessa inconclusa, anzi "tradita", visto che è proprio nel passaggio tra l'assetto proprietario feudale e quello capitalista, che la situazione odierna si è venuta a creare, impedendo le stesse aspirazioni della borghesia giacobina delle origini.

Se tutto ciò riguarda la terra, è però vero, che riguarda anche e soprattutto il mutamento storico del rapporto dell'uomo con la terra e con ciò che su di essa sorge. Se per secoli tale rapporto è stato sostanzialmente indifferente al problema della proprietà, oggi esso è il risultato di un mutamento di interesse verso la terra mediato dal possesso privato. L'interesse dell'uomo per la terra non è più un interesse generale (verso la terra quale bene di tutti), ma è tale solo in vista dello scopo finale del possesso personale della stessa.

Questo rapporto, traslato in una situazione urbana, si configura come un desiderio di possesso che trasforma gli abitanti della città, nel migliore dei casi, in un insieme coatto di proprietari, piuttosto che in cittadini. È una comunità forzata (come quelle condominiali). E l'attuale assetto proprietario maggioritario realizza una resistenza sociale a qualsiasi cambiamento in favore della città, considerata nel suo complesso, generando una mutazione genetica della categoria classica del "proletariato" e una contraddizione irrisolvibile fra interesse collettivo e interesse privato. Questi due interessi contrastanti non realizzano più una disputa fra classi diverse, ma una disputa (interiorizzata) che attraversa trasversalmente la maggioranza della popolazione di un paese, indipendentemente dall’appartenenza di classe. Tutto ciò che di male succede alla città e al territorio, seppure accade, è percepito come qualcosa che non ci riguarda direttamente fino a quando non danneggia la nostra proprietà, la quale dunque ci pone di fronte ad una contraddizione insanabile fra il vettore privato e collettivo della proprietà stessa. Tutti, ad esempio, trarrebbero vantaggio da più parcheggi, più verde, più spazio pubblico ed attrezzature, meno inquinamento e così via, ma tutto questo passa in secondo piano, se significa sacrificare rendite di posizione dei propri fabbricati (o anche solo della propria abitazione), perché in tal caso la maggiore vivibilità urbana potrebbe favorire alcune proprietà a scapito di altre. È evidente però che così ragionando nessun interesse collettivo, può essere considerato come direttamente immanente al "proprio" interesse.

Più nello specifico del problema urbano, è possibile, grazie all'opera dell'urbanista Hans Bernoulli, al cui testo La città e il suolo urbano si rimanda[8], delineare la genealogia sia della proprietà privata dei suoli che della rendita fondiaria e della trasformazione particolare di quest'ultima nel contesto del mercato capitalista.

Vi è un'eclatante differenza, che caratterizza nella città contemporanea, la sua parte storica, da quella più recente. Ancora una volta l'Italia è un punto di osservazione eccellente, per la particolare "caduta di stile" che si misura tra i suoi centri storici (fra i più belli del mondo) e le sue informi periferie. Nessun tipo di turismo culturale nazionale avrebbe senso in presenza della sola parte recente delle città italiane. C'è una differenza fra centro storico e tutto il resto, che non è semplicemente la differenza fra vecchio e nuovo, ma una differenza fra modo di concepire e costruire la città, nel passato e nel presente. L'Italia è uno strano paese in cui ciò che di bello si è prodotto si è materializzato prima che essa esistesse come Stato unitario.

Per Bernoulli la città medioevale (ma è così anche per le città di fondazione antica, in epoca greco-romana, ad esempio) sorgeva su suolo indiviso. Se la proprietà esisteva essa era del re e, per transizione, del signore della città, era cioè quasi astratta. Ciò faceva in modo che il terreno in generale fosse considerato, alla stregua delle altre risorse naturali, come un bene comune.

I fabbricati erano però privati, cioè costruiti da chi li abitava su suolo non proprio, secondo le indicazioni del "locator" (colui che delineava l'assetto concreto dell'impianto urbano). Quindi il diritto urbanistico medioevale era un diritto di superficie (possibilità di costruire fabbricati privati su suolo comune), contrapposto all'attuale diritto di proprietà.

In poche parole la città medioevale, nasceva dalla possibilità di una traduzione pratica dell'idea circa i requisiti che essa deve possedere, al contrario di ciò che accade per la "città" contemporanea frutto caotico della distribuzione della proprietà, preesistente allo sviluppo urbano, senza relazione alcuna, aderenza benché minima, ad una qualsiasi "concezione contemporanea" della città. Ne deriva una quadro urbano contemporaneo senza concetto e, in una visione umanistica, è dubbio che questo possa definirsi città[9].

Da Bernoulli in poi, il pensiero critico sulla città ha sempre trattato il proprio oggetto come un fenomeno specifico di un’epoca ormai passata. Per Lefebvre l’urbanesimo è l’utopia del capitalismo, che per quanto costruisca non sarà mai in grado di creare delle città. Per Vezio De Lucia l’interrogativo è: Se questa è una città. Per Mike Davis, parliamo di Città morte. Per Stefano Boeri siamo di fronte a L’anticittà. Per Francesco Erbani e Leonardo Benevolo si tratta di elaborare La fine della città, e altri esempi si potrebbero fare. Sembra chiaro che il capitalismo come modo costruttivo (modo di produzione edilizia), più che essere nemico dell’urbanistica, si pone come negazione ontologica dell’oggetto stesso dell’urbanistica.

Se la città è un organismo vivo, che nasce e cresce, la proprietà privata dei suoli è come un'immensa rete (griglia di striatura) a maglie troppo fitte, che strozzandola ne impedisce uno sviluppo "naturale". La città è sotto scacco.

La proprietà privata dei suoli non è una qualità metafisica, ma esiste con una sua struttura spaziale definita. Ha una forma, che preesiste alla costruzione, cioè al divenire della città, la quale ne è perciò condizionata. C'è, per questo, una contraddizione insanabile fra città e proprietà privata che impone una scelta: o l'una o l'altra.

 (torna su)

1.2 La rendita fondiaria e la sua fisionomia urbana

Ma cerchiamo di seguire, sempre con l'aiuto di Bernoulli, la problematica della rendita fondiaria più da vicino. In realtà essa esisteva nel Medioevo, ma in una forma del tutto diversa da quella che assume con il mercato. La rendita era, in termini urbani, il canone che gli abitanti pagavano per il diritto di superficie al signore della città, che "rappresentava" la proprietà. La caratteristica della rendita medioevale era del tutto diversa dalla sua forma attuale, essa era immutabile, fissa e aveva un significato più simbolico che altro, servendo a rimarcare la differenza fra abitanti della città (diritto profano) e proprietario del suolo (diritto divino). Fu infatti proprio la sua esiguità che fece nascere l'idea del riscatto della proprietà del suolo da parte dei proprietari dei fabbricati. Con il passare del tempo e il subentrare dei Comuni, che gestivano pubblicamente le risorse collettive, e quindi con il venir meno del diritto "divino" sulla proprietà del suolo, o se si vuole, con la laicizzazione del problema, parve naturale che i proprietari dei fabbricati si liberassero in un colpo del vincolo sovrano sui loro fabbricati.[10]

In questo momento, senza che nessuno fosse in grado di presagire le conseguenze colossali di tale "riscatto" sul destino delle città e della società, si inverte del tutto il rapporto fra pubblico e privato nella problematica urbana.

Dal riscatto della proprietà del suolo su cui sorgevano i fabbricati, si giunge alla vendita dei "demani pubblici" per far fronte ai debiti degli stati moderni. È infatti il 1808, quando su proposta di Adam Smith, in Germania viene varata una finanziaria che autorizza il pubblico all'alienazione dei demani, pur conservando un diritto su di essi attraverso l'imposizione di una tassa che i privati erano ancora tenuti a versare, come durante il medioevo, per lo sfruttamento dei terreni di origine pubblica. Nel 1850, in pieno sviluppo del capitalismo, anche quest'ultimo vincolo venne eliminato. Bernoulli riesce a ricostruire l'andamento delle rendite fondiarie di tipo urbano in relazione alla città di Posen:

«Un esempio del come possa svilupparsi con l’andare degli anni la rendita fondiaria di una città, lo può dare la città di Posen dove il prezzo del territorio totale fabbricabile della città, fissato per esempio col valore 1 al tempo della fondazione (1253), nel 1400 è già 3,5; nel 1.803 è 52; nel 1848 è 754; e nel 1910 è 2.713. Dalle cifre surriportate si può dedurre che ogni cento anni il prezzo del terreno è salito di quattro e anche sei volte, e che nel tempo in cui la popolazione da circa 2.000 abitanti è aumentata a 150.000, il prezzo di un metro quadrato, conteggiato per persona, segna un aumento da 1,65 a 1.083 marchi»[11].

Non è per niente inutile sottolineare come nonostante la rendita esistesse in epoca precapitalistica essa assume il suo andamento iperbolico esattamente in concomitanza con lo sviluppo del mercato capitalista. Per quanto dunque la rendita fondiaria venga trattata generalmente come un problema teorico non specifico del capitalismo, è proprio in questa fase storica che essa diviene un problema lungo lo sviluppo della città. È proprio in questa fase che essa assume un significato strutturale in un sistema economico che sembra invece alimentarsi esclusivamente d'altro. Infatti H. Lefebvre vede esattamente nella rendita fondiaria, il principale sistema di compensazione moderna della "legge della caduta tendenziale del saggio di profitto" nel processo produttivo[12]. Nessuno sviluppo iperbolico della rendita fondiaria poteva essere immaginabile in assenza del fenomeno di spostamento di massa delle persone dalla campagna alla città, indotto dalla rivoluzione industriale e dallo sviluppo del sistema capitalista maturo. In questo nuovo contesto la rendita fondiaria non è più un simbolico meccanismo del passato, ma uno strumento attualissimo di compensazione delle disfunzioni sistemiche[13]. L'inversione del rapporto pubblico-privato in accoppiata al meccanismo infernale della rendita fondiaria urbana, rappresenta la sostanziale impossibilità del pubblico di intervenire concretamente sulla città[14]. Non solo però tutto questo costituisce un vincolo privato al bene collettivo, del quale gli amministratori dovrebbero essere i rappresentanti, ma la speculazione fondiaria, comincia ad elaborare e sviluppare una propria forma urbana, che nega all'origine qualsiasi aderenza del costruito alle necessità stesse del costruire. Nella città di epoca borghese, si affermano concezioni costruttive il cui unico fine è quello di massimizzare le rendite. La costruzione non è più relativa al bisogno sociale di abitare, ma è, come tutto il resto, puro strumento di profitto. Essa non appartiene più all'uomo e perciò comincia a cambiare lentamente forma[15]. Basti pensare alla rivoluzione urbana hausmanniana, ai tagli diagonali dei preesistenti tessuti storici operati in tutte le ristrutturazioni urbanistiche di fine ottocento, di cui Parigi è modello, volte a creare nuove strade principali e miriadi di incroci, in cui con l'ideologia della salubrità sanitaria, si consentono ad un tempo la massimizzazione delle rendite e il controllo militare del territorio urbano. Gli assi stradali poi si riempiranno di traffico e inquinamento e le notti si accorceranno.

Ma l'altro esempio eclatante è rappresentato dalla selva di grattacieli americani, che se apparentemente sono il prodotto della tecnica dell'acciaio e del cemento armato, in sostanza sono il risultato del costo spropositato delle aree urbane centrali, che impongono la moltiplicazione infinita dei piani, al fine di pietrificare una rendita che ripaghi dell'investimento iniziale e dei costi di costruzione stellari, realizzando il valore di scambio dell'area sulla quale sorgono.

Prima di chiudere questa seconda parte sulla nascita e trasformazione della rendita fondiaria in ambito urbano, sarebbe il caso di riflettere minimamente sulla legittimità della stessa. In altri passi del testo di Bernoulli è descritto il modo attraverso il quale, mediante opere pubbliche, viene gradualmente assicurato l'intero territorio urbano alla morsa della rendita. La deduzione generale è che i privati, in virtù della sola proprietà dei suoli, si trovano a beneficiare di aumenti di prezzi, sui quali non hanno in realtà alcun apporto attivo. In termini attuali, la rendita costituisce la privatizzazione di esternalità positive del tutto autonome rispetto ai beneficiari. E per questo la collettività, nel suo insieme, porta interamente addosso il doppio peso del carattere vincolistico della proprietà privata e del costo sociale del suo mantenimento, del tutto ingiustificato sul piano della legittimità economica, mentre lo diventa sul piano giuridico.

In termini spiccioli si pensi all'enormità di questo peso, che economicamente può arrivare a rappresentare anche il 40% del salario mensile di una famiglia monoreddito e comunque è difficile che assorba, in media, meno del 25% di un salario (1/4 di ciò che si guadagna). Se qualcuno pensava che "la trattenuta", in termini di prodotti del suolo, che il padrone terriero operava sul lavoro del contadino, fosse qualcosa di appartenente al passato, come considerare invece la parte del proprio lavoro che volontariamente si devolve al padrone di casa per avere un tetto? In sostanza in rapporto al monoreddito, il fitto rappresenta una seconda tassazione, anche più pesante di quella statale (un secondo e privato "apparato di cattura" della ricchezza sociale), che rappresenta in termini complessivi qualcosa come almeno 11,5-12 miliardi di Euro all'anno[16]. La media nazionale delle case in proprietà scende notevolmente se si considerano le grandi città e le fasce d'età sotto i 40 anni, come salgono di molto le incidenze sul reddito netto dei costi per l'abitazione. In città gli under quaranta che vivono in affitto rappresentano il 47,5% del mercato dell'abitazione (quasi la metà) della loro fascia d'età. E così si capisce anche da chi è costituito quel 30% di popolazione che non possiede casa di proprietà: da giovani.[17]

Che dire, infine, della libertà di scelta? In questa situazione è possibile ritenere che la scelta dell'abitazione sia libera? Non si tratta piuttosto della libera scelta dell'abitazione che costa meno? Non è questo il più potente zoning sociale concepibile? Non siamo noi a scegliere la città, il quartiere, la casa, ma esattamente il contrario. In questo modo, le classi abbienti non hanno bisogno di nessuno sfratto violento degli indesiderati, la città è un sistema auto-segregativo.

 (torna su)

1.3 Diritto di proprietà o diritto di abitare?

Addentrandoci nelle vicende urbane più vicine nello spazio e nel tempo, possiamo partire dal notare come in Italia, la vera e propria esplosione del fenomeno urbano sia sostanzialmente storia recente, grosso modo legata alla politica e alla concezione del diritto urbanistico della seconda metà del '900. Alcuni storici dell'urbanistica[18], tendono a sottolineare la sostanziale differenza concettuale che separa nettamente l'urbanistica fascista, da quella democristiana, confortata dall'osservazione che fino al 1950 circa, l'estensione delle città italiane non era molto maggiore di quella della loro porzione storica. Gli stessi ampliamenti di epoca borghese, anteriori alle riforme agrarie, avevano un carattere diverso da quelli posteriori alla infinita parcellizzazione proprietaria. Così si ha che in Italia, per le vicende storiche che hanno caratterizzato la vita nazionale, gli ultimi detentori di una visione urbanistica (distorta ma complessiva) siano stati i fascisti, mentre la democratizzazione repubblicana si è basata in gran parte sulla rinuncia a qualsiasi idea circa lo sviluppo urbano al di fuori dell'autoregolazione del mercato capitalista, secondo una pura applicazione del pensiero liberista, rinunciatario e nichilista il cui prodotto urbano è lo sprawl, ovvero il dilagare amorfo in ogni direzione possibile di ammassi di costruzioni private, che pretendono di realizzare l'urbanesimo mediante la somma di fabbricati senza alcun nesso organico tra loro e senza nessuna relazione, né formale e tantomeno produttiva (e feconda) con il territorio circostante. Pura casualità cementificata, a costo di un enorme sperpero di territorio, secondo un astratto e del tutto irrealistico principio di illimitatezza, in nessun modo sostenibile, tanto energeticamente, quanto socialmente. Lo sprawl è la materializzazione urbana del concetto di consumismo. L'oggetto del consumo è il territorio. Lo stesso termine di origine americana, denuncia come la cultura europea, ed italiana in modo particolare, anziché fornire modelli di sviluppo urbani collaudati storicamente, assorbe, americanizzandosi, disfunzioni in grado di erodere ciò che resta della propria cultura millenaria e profondamente urbana.

Le metropoli diventano grossi buchi neri che assorbono persone ed energia, risucchiando il territorio circostante (con il quale sono in conflitto e non in equilibrio), in un processo di continuo accentramento di popolazione, che se da un lato si iperconcentra in enormi ammassi disurbani, dall’altro svuota e desertifica i centri minori e i loro territori, i quali si vengono a trovare su una soglia di sussistenza molto prossima alla morte. Se la diversità biologica è messa a dura prova dal sistema produttivo capitalista, sul terreno dell’urbanesimo, è la varietà urbana ad essere cancellata da questa tendenza infinita all’imperialismo urbano delle grandi metropoli, non soltanto in termini di erosione sociale dei piccoli centri, ma anche in termini di uniformità generale nel modo di concepire la periferia globale, così simile in tutte le città del mondo, al punto da rendere irriconoscibile un luogo urbano qualsiasi a partire dalle sue forme insediative contemporanee. A partire da una immagine di periferia, si ha sempre quella strana sensazione familiare, di trovarsi a casa propria, in nessun luogo del mondo.

 

«Invece di un assorbimento e di una riassunzione della campagna ad opera della città, e del superamento della loro contrapposizione, si ha un deterioramento reciproco: la città esplode nelle sue periferie e il villaggio si decompone; un incerto tessuto urbano prolifera sull'intero paese. Il risultato è un magma informe: bidonvilles, megalopoli. Per usare la terminologia di Marx, si ha la minaccia di una ruralizzazione della città, che si sostituisce all'urbanizzazione della campagna, come ai tempi del declino delle città antiche».[19]

 (torna su)

Nella prefazione di Antonio Cederna al fondamentale testo di Vezio De Lucia, Se questa è una città, si sottolinea come l'Italia sia l'unico paese europeo a non essersi ancora dotato di una legislazione sui suoli, in grado di permettere, al pubblico, una moderna pianificazione urbanistica senza doversi svenare per l'acquisto delle aree. Nel far notare come la ricostruzione post-bellica sia stata condotta sospendendo, a causa dell'emergenza post-bellica (non la guerra ma la riconquistata pace rappresenta l'emergenza!), la legge urbanistica fondamentale (fascista) del 1942, questa sì esistente in Italia (e prima che negli altri paesi), si fa capire bene quale fosse l'aspetto più odiato di tale legge, che, all'articolo 8, prevedeva lo strumento dell'esproprio generalizzato a prezzi che non tenessero conto delle previsioni di piano e dunque senza incremento di rendita privata derivante da scelte pubbliche. Il risultato è stato quello per cui la ricostruzione post-bellica italiana è avvenuta in completo stato emergenziale, a differenza che negli altri paesi, dove essa è partita solo dopo la messa a punto di leggi urbanistiche come guida per la ricostruzione. Senza entrare troppo nello specifico della eroica (ma sconfitta) lotta dell'urbanistica "riformatrice", basti dire, che in Italia si è costruito del tutto allegramente fino al 1967, quando in seguito allo scandalo della frana di Agrigento, si è deciso di regolamentare in qualche modo l'espansione urbana delle città, ma a quel punto gran parte del danno era già stato consumato.

Si dica che quello che l'urbanistica riformatrice ha ottenuto di porre come problema è la separazione fra diritto di proprietà e diritto di costruire, il primo privato il secondo pubblico, senza che questo però abbia significato qualcosa di più che permettere, nel migliore dei casi, il controllo pubblico sull'attività dei privati, senza cioè che questo abbia permesso al pubblico di decidere attivamente  ed effettivamente circa le sorti della città. In sostanza quello che Bernoulli individua come un vincolo concreto ed internazionale alla possibilità di pianificare, il prezzo dei suoli urbani, in Italia si formalizza proprio come un'opposizione sancita giuridicamente in modo molto rigido, in cui la possibilità di decidere lo sviluppo urbano non può vincolare la proprietà privata per più di 5 anni. Non solo cioè, non è né affrontato, né risolto, il problema del costo dei suoli urbani, ma proprio imposto giuridicamente che il diritto proprietario privato è intoccabile anche in presenza dell'interesse collettivo, laddove questo non si realizzi in 5 anni, ma d’altra parte non si può da un lato accettare la proprietà privata e dall’altro fare come se non ci fosse.

Al di là comunque delle vicende, anche interessanti, dell'urbanistica riformatrice (si veda la questione del progetto di legge urbanistica Sullo, ad esempio), ciò che colpisce è la esasperata dialettica pubblico/privato, ma completamente interna al diritto di proprietà. In sostanza l'intera concezione del diritto urbanistico nazionale è basata sull'assunto che intanto si può parlare di diritto di costruire, in quanto si ha già una proprietà (fondiaria)[20]. Basti pensare all'enorme, kafkiana, macchina catastale e notarile. Tutto ciò non è mai in discussione. L'unico tentativo di opposizione a questa realtà è stata la abrogata legge sull'equo canone (1978-1992), che se da un lato tentava la calmierazione dei fitti, dall'altra prevedeva una mai avviata opera di costruzione, da parte dello Stato, di abitazioni da riservare a chi non possedeva una casa. Ma con il ritorno al mercato puro e la rinuncia all'edilizia pubblica, al di fuori del presupposto implicito della proprietà, nessun diritto alla casa è assicurato. Ecco perché sarebbe pur necessario cominciare a parlare di diritto ad abitare, piuttosto che diritto di avere una proprietà. La proprietà è vincolante tanto per l'iniziativa pubblica, quanto per il piccolo privato, che in tempi di mercato dei fitti impazzito, in generale non dispone mai di una proprietà localizzata in modo confacente alle proprie esigenze lavorative (sempre meno stabili, tra l'altro, con la precarizzazione del mercato del lavoro), con la qual cosa se è pur vero che il 70% delle famiglie italiane è proprietaria di casa, è anche vero che ognuno di noi è allo stesso tempo, per motivi contingenti, tanto proprietario quanto affittuario. Inoltre, sempre a causa del mercato fondiario, i fitti risultano in generale, per nulla interscambiabili, per cui neanche la (piccola) proprietà garantisce un diritto (se non a pagamento) ad abitare il paese, senza dover sottostare al ricatto dei fitti. La piccola proprietà non fa altro che vincolare le persone ad un determinato territorio, ad una certa località, rendendole cittadine di quella località e non di un ambito almeno nazionale e dunque con interessi e preoccupazioni che non superano l'orizzonte immediato del proprio giardino. Spesso è possibile notare un certo provincialismo degli italiani. L'estorsione rappresentata dal fitto, che s'impone in genere per motivi lavorativi o di studio, rappresenta una vessazione, a cui, chi può, cerca di sfuggire attraverso la soluzione individuale dell'acquisto mediante il mutuo. Da un certo punto di vista è come cadere dalla padella nella brace, ma da un altro punto di vista il mutuo rappresenta la possibilità di riscattare la proprietà dopo anni di rate, che, a seconda dei casi, possono essere anche vicine, in termini monetari, a quelle dei fitti, in modo che la scelta sostanziale divenga quella fra un "fitto a perdere" ed uno che lascia quanto meno l'agognato tetto in proprietà. Il mutuo è per certi versi una pratica proudhoniana individualista, peraltro riservata a una fetta di popolazione estesa in ragione inversa a quella dilagante sottoposta alla precarizzazione del mercato del lavoro. Inoltre da questo punto di vista, la rendita fondiaria diventa parte del più generale meccanismo di rendita finanziaria, come ampiamente dimostrato dalla crisi dei subprime esplosa nel 2008, e le case, quando le cose non vanno bene, sono delle banche, che non ne hanno bisogno. Dal problema della rendita fondiaria come leva di quella finanziaria non si esce pacificamente né a livello individuale, né a livello di gruppi organizzati con le pratiche di "autocostruzione" (cooperative ed altre forme di associazione il cui primo atto è la stipula del mutuo per l'acquisizione dei terreni), né a livello pubblico[21], senza porre fine alla legittimazione giuridica del "fitto eterno", senza riconoscere cioè la necessità di una riarticolazione strutturale del diritto urbanistico non più fondato, anche costituzionalmente, sulla proprietà privata.

 (torna su)

2. Vincoli al tempo.

2.1 Struttura del tempo. Astrazione o ciclicità biologica?

La città è la stratificazione immobiliare successiva dei prodotti della cultura umana dei diversi periodi storici. Le differenti concezioni urbane che è possibile individuare spazialmente sulla mappa topografica di un insediamento, sono anche il prodotto di una differente struttura del tempo che informava le diverse epoche. Ma il modo concreto di vivere una certa struttura urbana è sempre il risultato dell'interazione della forma data con la struttura del tempo di una certa epoca. Allora la medesima forma urbana cambia i suoi effetti sulla vita quotidiana anche in relazione ai mutamenti delle strutture temporali dominanti nelle diverse epoche. Si tende a dare per scontata l'oggettività del tempo e di conseguenza ad immaginare che il modo di vivere la città sia indifferente al modo di misurare e comunque percepire lo scorrere del tempo. Il problema è che c'è un tempo oggettivo ed esterno ed un tempo soggettivo ed interno e che gran parte della qualità della vita dipende dal rapporto concreto fra queste due nature del tempo. Un'epoca dominata dal tempo esterno implica una subordinazione ad esso dei tempi interni, il che significa un adattamento forzato dei ritmi biologici e dei cicli vitali ai ritmi della produttività sociale. E la differenza fra un'epoca autoritaria e un'epoca libera risiede, in ultima analisi, proprio in questa domanda: quale delle due nature del tempo subordina l'altra?

Siamo in un'epoca dell'oggettività o della soggettività? La risposta è resa evidente anche dal modo che una società ha di misurare il tempo. Esso, essendo considerato oggettivo, viene diviso, e di conseguenza misurato, in unità astratte, slegate dalla ciclicità dei processi biologici o legate a questi in modo del tutto formale. Ad esempio la divisione del ciclo giorno-notte in 24 ore e la divisione delle ore in 60 minuti e così via, che relazione hanno con i ritmi biologici dell'uomo? Cosa rappresenta lo scorrere di un'ora di tempo in rapporto alle attività umane? Quanto dura in effetti la capacità umana di svolgere un'attività con la stessa attenzione e rendimento? In che modo gli intervalli temporali stabiliti (successione continua di ore di lavoro, di riposo, di svago e così via) si adattano al metabolismo umano, e alle sue differenze soggettive? È meglio pensare che la società nel suo complesso svolga gli intervalli di attività e riposo in fase, o si potrebbe pensare ad un loro sfasamento? Uno degli ambiti in cui è evidentissimo il totale non rispetto dei ritmi biologici è quello industriale, in cui le turnazioni lavorative sono stabilite subordinando i ritmi dell'uomo a quelli della macchina, indipendentemente dalla capacità di qualcuno di lavorare meglio di notte che di giorno e viceversa e tanto più che questi turni vengono anche continuamente alternati.

Ma non è proprio questo modello che dall'industria è stato esteso a tutte le attività umane? Lo stress fisico non è sempre prodotto dalla difficoltà di regolare i propri ritmi interni con quelli esterni?

Che cos'è una settimana? Per quale motivo è composta di sette giorni (lo ha deciso Dio)? Essa è una pura convenzione, come d'altra parte i mesi di trenta giorni. Che significato ha un ciclo ripetuto di attività-riposo lungo sette giorni? In che modo esso risponde o si concilia con le capacità umane di sostenere un certo numero di ripetizione delle attività?

In poche parole, la struttura del tempo che regola la nostra esistenza, considerata come somma delle unità di misura del tempo a che logica risponde, se vi risponde?

Qualcuno è magari convinto che l'orologio sia sempre esistito, senza considerare che la sua diffusione di massa, con l'orologio da polso, è cosa molto recente, sostanzialmente relativa al primo quarto del '900. Ora si provi ad immaginare come cambierebbe il modo di vivere la città senza la possibilità di misurare esattamente i minuti e i secondi del flusso temporale. Molte transizioni temporali si sfaserebbero, alcune attività sarebbero aperte, altre già chiuse, le ore di punta potrebbero scomparire, gli ingorghi pure, non ci sarebbero appuntamenti ma incontri, la catena di montaggio sarebbe impossibile e con essa il moderno coordinamento delle azioni militari. La produttività individuale non risulterebbe misurabile quantitativamente e gli spostamenti urbani non sarebbero conteggiati in tempo ma in distanza, e chissà quant'altro.

In alcuni film di fantascienza si rappresentavano delle società future in cui il controllo sui criminali avveniva tramite l'apposizione di un bracciale elettronico in grado di permettere sempre alle forze dell'ordine di monitorare spostamenti e posizione in "tempo reale" dei soggetti incriminati, per la qual cosa la città diventava il luogo di reclusione, superando la necessità di dedicarvi delle strutture apposite. Con il bracciale elettronico il criminale poteva liberamente essere controllato. Se pensiamo a come tutti noi siamo dotati di un bracciale con delle lancette e a come volontariamente decidiamo delle nostre azioni quotidiane in base alla posizione che le lancette hanno sul quadrante, di colpo anche il bracciale elettronico controllato dall'esterno appare un concetto superato. La realtà è più dura della metafora.

L'orologio da polso è evidentemente uno dei principali agenti di Edipo. Il controllore è dentro di noi. Ma la città pre-capitalista non era regolata dalle lancette dell'orologio.

Il paragone del tempo feriale con quello festivo può essere utile a ragionare sulla relatività dell'importanza della misurazione precisa del tempo. Nei giorni feriali l'importanza della misurazione precisa diventa ossessiva, sono importanti tutti i minuti e quindi la scala fondamentale della misura si sposta dalle ore ai minuti (in alcuni casi addirittura sui secondi). In sostanza la misura elementare del tempo ha una dimensione piccola, rispetto al tempo festivo in cui diventa più importante lasciare che la giornata sia regolata sui ritmi necessari al riposo, all'appetito, allo svago. Si può osservare allora una striatura molto fitta (grana[22] fine) del tempo produttivo, rispetto ad una relativa lisciatura del tempo (grana grossa) festivo, in cui le azioni si contano ad ore piuttosto che in minuti. In un orologio per la festa la lancetta dei minuti potrebbe essere superflua o scattare con intervalli di mezz'ora. Consegue che anche il tempo, come lo spazio, può essere letto come più o meno liscio o striato[23] e che tale qualità sia direttamente influente sul nostro concreto modo di vivere.

La stessa città è diversa il lunedì rispetto alla domenica. Cambia il nostro rapporto con essa. E una città può avere dei ritmi relativamente differenti da un'altra città, soprattutto se diversa è la loro dimensione e la loro importanza come centri produttivi, il centro e la periferia hanno tempi diversi. Non si sfugge alla striatura del tempo, ma la sua fittezza (o grana) può cambiare relativamente da luogo a luogo, ma anche da cultura a cultura, o da un gruppo sociale all'altro, tanto che un gruppo sociale e il suo quartiere può anche essere definito da una concezione di tempo diversa rispetto ad un altro. Più che parlare di differenti luoghi e differenti tempi si potrebbe parlare di differenti configurazioni di "luoghi-tempo"[24].

L'esempio estremo è ovviamente quello dei nomadi, che oltre ad avere un rapporto indefinito con lo spazio, hanno anche un concetto del tempo molto poco striato, rispetto alle civiltà rigidamente territorializzate. Ma non sempre luogo e tempo definiscono condizioni ambientali coerenti. Un clochard non si cura di nessuna griglia temporale diversa da quella dei propri bisogni elementari per sopravvivere, pur abitando una città completamente imbrigliata. Un disoccupato lo si incontra in giro o a manifestare. A un "occupato" bisogna dare un appuntamento preciso per potergli parlare. I diversi tempi individuali e di gruppo sono una barriera alle interazioni fra gruppi diversi, costituiscono dei filtri sociali. Non sarà un caso che chi è esterno da una griglia spaziale definita si trova ad essere ugualmente esterno da una griglia temporale definita. La griglia di striatura è un meta-condizione della nostra epoca. Essa ha una forma spaziale definita sostanzialmente dalla configurazione della proprietà privata e una struttura temporale definita sostanzialmente dai cicli produttivi. Queste forme spazio-temporali sono da un lato indifferenti ai luoghi, dall'altro indifferenti agli individui, esse sono astratte come l'accumulazione infinita che tutto subordina.

 (torna su)

2.2 Ciclicità rigida o flessibile? Poli temporali concentrati o diffusi?

Seppure il tempo non fosse astrattamente suddiviso esso sarebbe comunque subordinato ad una necessaria ciclicità delle azioni, dalla quale non si può prescindere. Ma l'astrazione della misura determina, in diversi modi, l'astrazione delle ciclicità o se si vuole la rigidezza del loro susseguirsi. In una temporalità concreta, al contrario, sarebbe molto più naturale far seguire le misure alle ciclicità biologiche, il che implicherebbe una flessibilità dell'organizzazione sociale dell'attività relazionata concretamente alla predisposizione biologica all'attività, secondo un concetto per cui non è più tanto importante quanto tempo si impiega a fare qualcosa, ma il risultato complessivo (taylorismo vs toyotismo). La città non avrebbe tempi predeterminati, ma si configurerebbe come un'infrastruttura a disposizione del libero succedersi della produttività sociale. Gli spostamenti urbani non sarebbero concentrati ma diffusi, il che equivale a dire che si guadagnerebbe spazio.

Se si osserva il modo in cui si utilizza l'infrastruttura urbana oggi, si nota come gran parte dei suoi problemi derivi dalla rigidità di cicli forzatamente in fase. Il ciclo riposo-attività è forzato rispetto a quello notte-giorno. Ma si sa bene che ci sono persone che sono più produttive dopo il riposo ed altre che lo sono di più prima, è una questione di metabolismo, e anche di tipologia delle attività che si svolgono. L'unica eccezione che si fa a questa regola fissa, non è determinata da esigenze delle persone, ma da esigenze delle macchine (turni notturni in alcuni tipi di lavoro). Tutto ciò costringe a fare tutti le stesse cose nello stesso momento, il che si trasforma in un enorme sperpero di tempo sociale dovuto alle disfunzioni che questa contemporaneità genera (ore di punta).

La rigidezza delle ciclicità implica nel tempo anche una semplificazione e forte polarizzazione dei fulcri temporali di un ciclo, per cui si tende ad una concentrazione anche spaziale dei poli di attività e di riposo. Un luogo di lavoro tende a prevedere semplicemente spazi di attività e nessuno spazio di pausa e relazione, il luogo del riposo viene assimilato sostanzialmente all'abitazione, dove però si è anche isolati. Il resto dello spazio è funzione di moto a luogo fra i due poli principali di attività e riposo. Viene a mancare quasi del tutto lo spazio ed il tempo relazionale. Promiscuità in luogo di vita in comune, isolamento in luogo di intimità. Si genera un'atrofizzazione del concetto di abitare, ridotto all'abitazione e sottratto dall'ambito dello spazio pubblico, quest'ultimo ridotto a pura circolazione. Nell'orgia circolatoria si realizza il delitto della passeggiata. Il soggetto è mosso dalla necessità di incastrare tempi rigidi e tende a considerare gli altri soggetti come ostacoli lungo il proprio cammino. L'incontro diventa scontro, l'interno un rifugio e l'esterno una lotta quotidiana. L'uomo si muove isolato e corazzato, portandosi ovunque in giro il proprio ambito "interno", protetto dall'esterno nella sua automobile o dal suo iPod e dal suo telefonino. In questo modello dello spostamento forzoso, lo spazio pubblico ereditato da città di altri tempi (e con altri tempi) appare sempre più come qualcosa di inutile e ingombrante (piazze vuote). L'ossessione per la propria individualità e la protezione che questa sembra garantirci è visibile anche nell'attenzione allo spazio solo interno della propria esistenza. Interni pieni di gadget confortevoli e quanto più possibile curati, soprattutto se di proprietà, ed esterni abbandonati all'incuria ed alla sporcizia. La città come una somma di interni impenetrabili giustapposti in un ambiente esterno indifferente, che può essere tanto un ambiente storico, quanto una periferia, un suburbio, una campagna oppure un deserto. Ma il punto è che la qualità della vita che si svolge in un qualsiasi agglomerato urbano dipende sostanzialmente da ciò che avviene sotto il cielo, dalla qualità dell'esterno e non da quella dell'interno, o, se si vuole, dalla capacità dell'esterno di conformarsi come un interno. Se così non fosse la città non avrebbe nessun significato, non esisterebbe. Anzi le città anche molto belle o molto fortunate nella storia, sono proprio quelle in cui la qualità dello spazio pubblico è preponderante rispetto allo quella dello spazio privato, quest'ultimo a volte anche molto sacrificato. Una struttura temporale che interpreta lo spazio pubblico semplicemente come veloce moto a luogo, e non come combinazione di più funzioni possibili e anche molto diversificate, implica un concetto di spazio collettivo impoverito. Se la collettività non ha però un suo tempo e un suo spazio, essa non esiste. È forse anche per questo che la collettività tende a virtualizzare il proprio spazio relazionale impiegando però il proprio tempo reale e desertificando ciò che resta del proprio spazio pubblico.

Nella misura in cui non è ancora possibile, nonostante tutto, ridurre la città alla polarità temporale casa-lavoro, non è neanche possibile eludere la funzione del consumo. Quello che si osserva facilmente è che l'attività è in generale consumo, di tempo ed energie, e che quando non si tratta di consumare per produrre, si tratta di consumare per consumare.

Così la rigida strutturazione dei cicli temporali urbani ammette poche grosse esperienze urbane diverse dalla produttività, anche se relegate ad un secondo livello di ciclicità più lunga e sostanzialmente polarizzata verso il finesettimana. Queste sono riassunte nel concetto di "svago a pagamento". La fetta preponderante dello svago è assimilata all'acquisto di beni e servizi, cioè al centro commerciale di massa dotato di amplissimi parcheggi, o in alternativa allo stadio, al cinema multisala, alla discoteca. La piazza in sé, non prevedendo permeabilità subordinata al consumo, non rientra in generale nel moderno concetto di svago. Ciò che non si paga, non ha considerazione in una macchina da rendita.

In questo modo la polarità temporale che detta l'attività circolatoria urbana è finalmente triangolata ed edipizzata (lavoro-riposo-svago), su un modello che non implica alcuna necessità relazionale fra i gruppi in gioco e in cui qualsiasi spazio capace di offrire altro è superfluo.

Detto di passata la precarizzazione del mondo del lavoro essendo stata interpretata da parte dell'imprenditoria unicamente come libertà di disporre a piacimento della produttività sociale, con il risultato concreto che si lavorano le stesse ore quotidiane per una retribuzione minore, non ha nessuna ricaduta di qualche influenza sui tempi della città. I precari quando lavorano lo fanno quanto e più degli altri, e quando non lavorano non lo fanno, ma in nessun modo riescono a stabilire un proprio ritmo esistenziale svincolato dalla produttività loro imposta a singhiozzi. Questo non ha nulla a che vedere con una la flessibilità dei tempi interni (soggettivi) quotidiani, ma semmai, e comunque solo alla lontana, con una flessibilità dei tempi esterni ai quali il tempo interno va subordinato sempre più selvaggiamente.

È anche chiaro che una completa soggettivizzazione del tempo si configura anche come elemento di disgregazione familiare, ad esempio, ma solo se non si vuole vedere come la famiglia sia già asservita completamente al tempo esterno, configurandosi, da quando non è più unità produttiva elementare, come semplice vincolo temporale spazialmente confinato.

 (torna su)

2.3 Estensione spaziale e segregazione temporale.

La crescita illimitata delle grosse metropoli, l'aumento dei tempi di percorrenza fra punti sempre più distanti, sono elementi che inseriscono delle soluzioni di continuità temporale nella continuità spaziale. Quando le distanze e le dimensioni crescono a dismisura, le diverse parti urbane comunicano sempre più difficilmente fra loro fino a diventare estranee l'un l'altra, allo stesso modo di come potrebbero essere estranee fra loro città completamente diverse. In questo senso l'illimitatezza della crescita urbana diventa un elemento che favorisce la separazione e la disgregazione di una collettività e uno strumento di controllo delle relazioni sociali più efficace delle barriere materiali. Ogni relazione possibile diventa non fisicamente impossibile ma temporalmente ed energeticamente poco opportuna. Il tutto urbano si divide, pur restando individuabile come organismo più o meno definito territorialmente. Da questo punto di vista nonostante l'apparente unità urbana delle grosse conurbazioni, ci troviamo di fatto di fronte a parti formalmente uguali (le periferie sono quasi tutte uguali) ma di fatto scisse.

Ma se questa inopportunità condiziona potenziali relazioni libere, si impone come non eludibile nella relazione spaziale fra riposo e lavoro, ad esempio, imponendo alla casualità delle collocazioni spaziali dei due poli temporali (riposo-attività, casa-lavoro) un consumo energetico sempre crescente. Le relazioni umane nei moti a luogo necessari, sono relazioni fra persone che non condividono quasi mai lo stesso spazio. Se nella città più rigidamente zonizzata di epoca fordista le concentrazioni produttive di tipo industriale fornivano una grossa condivisione spaziale tanto nel polo abitativo (i grossi quartieri operai) quanto nel polo lavorativo (la catena di montaggio), con la microframmentazione delle unità produttive post-fordiste, la dimensione spaziale condivisa diventa progressivamente meno massificata a fronte della crescita dell'organismo urbano. Le interazioni avvengono fra gente sempre più lontana, prive di esperienze comuni extra-circolatorie, che sono esperienze conflittuali.

Dove non arriva lo zoning spaziale, giunge quello temporale. Una striatura temporale cala su quella spaziale.

Di passata è facile osservare anche come le città che sono maggiormente pianificate, in genere sono anche quelle in cui tutto risulta più regolato. Una produttività razionalmente organizzata richiede uno spazio altrettanto organizzato. Il nuovo tipo umano della produzione fordista non doveva disperdersi in mille circuiti temporali, ma avere un’esistenza regolata da ritmi ben precisi e cadenzati, e precisamente individuati nello spazio e nel tempo. Da questa rigida dislocazione dell’esistenza deriva anche l’immagine poco festosa delle città produttive, nelle quali tutto si svolge ordinatamente.

A livello soltanto intuitivo, e non suffragato da dati, si può senz’altro notare come i centri produttivi maggiori, essendo basati su una più lunga tradizione di lavoro garantito e regolato, siano anche quelli più razionalmente organizzati dal punto di vista della disposizione spaziale degli elementi urbani e della dotazione di infrastrutture per una circolazione quanto più ordinata ed efficiente. Il fordismo portava con sé anche la pianificazione urbanistica. Laddove invece l’organismo urbano non costituisce un centro produttivo di una certa importanza, lo spazio resta in generale poco organizzato e sostanzialmente determinato al grado zero dalla frammentazione anarchica della proprietà privata dei suoli. Pare, in questo modo, che ad un certo livello, la frammentazione della proprietà è chiaramente un ostacolo alla produttività, ma anche che la pianificazione urbanistica è, in certo qual modo, legata alla pianificazione più strutturata della produttività. Non è difficile notare come le grosse metropoli dei paesi capitalisti con una minore tradizione fordista siano anche quelle in cui la spontaneità dei processi di sviluppo urbano siano prevalenti rispetto ad interventi pianificati, al punto che questi siano a volte talmente fuori contesto, da generare effetti sociali e formali addirittura peggiori della città "informale". Così nel mondo, proprietà privata e produttività sociale costituiscono due poli dialettici fra loro opposti sul piano dell'organizzazione dello spazio urbano, ma che non collocandosi all'esterno di un modello di vita subordinato alla produttività, non sono, ugualmente, in grado di generare una nuova concezione dello spazio urbano, finendo per rappresentare semplicemente due diversi gradi di sviluppo del capitalismo come modo di organizzare l'habitat urbano.

Da un altro punto di osservazione è chiaro che il beneficio organizzativo dei principi del fordismo, richiederebbe, in un'ottica riformista, la totalizzazione del controllo pubblico sul privato, che però non avrebbe alcun senso senza l'eliminazione di quei rapporti sociali e di produzione che fanno dello Stato e di tutte le istituzioni degli strumenti del privato[25]. In sostanza o il pubblico è controllato collettivamente dalla popolazione secondo modalità democratiche completamente nuove, oppure la dialettica pubblico/privata è obiettivamente priva di qualsiasi senso. E se questo sembra essere solo un problema politico, esso si traduce direttamente anche in un problema urbano.

 (torna su)

3. Conclusioni

Da quanto detto emerge, si spera, un dato importante: per quanto la città sia una questione sostanzialmente spaziale, il problema della sua degenerazione non è risolvibile mediante misure di semplice configurazione spaziale. Non è solo una faccenda di "disegno". L'urbanistica non basta. La pianificazione urbanistica non è un'invenzione dell'epoca moderna, ma una pratica antichissima, eppure i moderni quartieri frutto di interventi pubblici pianificati, non vanno (quando riusciti) oltre una maggiore qualità formale dello spazio ed un'organizzazione più razionale delle funzioni, restando comunque imbrigliati in un funzionamento complessivo incapace di realizzare l'utopia. Il libro di Tommaso Moro nel descrivere Utopia non parla tanto di forme urbane, quanto di una diversa organizzazione sociale, di un diverso rapporto fra persone, implicando con ciò un diverso tempo globale in cui una specifica forma socio-urbana si inquadra. Una "new town" inglese, al pari delle sterminate periferie del nord America (o di Londra) è ordinatamente disegnata, ma questo non rende più libere (meno assoggettate all'imperativo della produttività) le persone che vi abitano, né le rende meno individualiste, ossessionate come sono dal proprio recinto in legno bianco, il proprio prato verde, la propria casa-capanna. Uno sprawl ordinato non differisce sostanzialmente da uno "spontaneo" per la vita che vi si conduce. Le disordinate conurbazioni metropolitane, non sono meno vitali delle ordinate capitali del capitalismo avanzato. Una città sovietica, sorta certamente su suolo indiviso, non pare essere più invitante di una qualsiasi altra città cresciuta in modo caotico, né liberata da striature di ogni sorta. Con questo non si vuole relativizzare la necessità della pianificazione urbanistica, o negare la generale preferibilità delle città pianificate, come non è facile sostenere che il fordismo fosse inferiore alla destrutturazione attuale del mercato del lavoro e dello Stato sociale, ma semplicemente significare che se è difficile pensare di tornare al fordismo, forse è altrettanto difficile pensare di continuare ad opporre semplicemente la città pianificata a quella spontanea (e il pubblico al privato), come unica possibilità di recuperare la ragione, senza cercare di porre il discorso su basi nuove in grado di non eludere l'enorme questione dell'azione diretta delle masse nel governo del proprio destino, attraverso la sostanziale liberazione della risorsa temporale e la definizione degli strumenti pratici della partecipazione, che è come dire: va bene pianificare, ma il vero problema è chi pianifica cosa.

«Il livello dell'architettura è quello dell'abitare; quello dell'urbanistica riguarda la società nel suo insieme, e la sua soluzione dipende da una trasformazione di questa società».[26]

Si è voluto fare riferimento ai concetti di liscio e striato, perché pare che la striatura, intesa come apposizione di barriere artificiose lungo le possibilità del movimento generico, sia una sintetica modalità di raggruppamento di problemi. E che al contrario la lisciatura come ideale da contrapporre allo stato di fatto, sia una caratteristica intuitivamente capace di riassumere un bel po' di soluzioni. Il concetto di striatura è applicabile tanto allo spazio (confini catastali, muri di recinzione, lati dei fabbricati, delimitazioni di quartieri, limiti amministrativi, zone militari, zone interdette, zone residenziali e così via), quanto al tempo (secondi, minuti, ore, settimane, mesi, distanze temporali), quanto, in definitiva, alle istituzioni politiche (e al potere separato) che si configurano come chiuse, poco accessibili, non trasparenti, interdette al pubblico (il palazzo), alle classi sociali e i vari gruppi e caste, alle discipline settoriali, alle culture e via dicendo. Allora la tensione verso una progressiva lisciatura di spazio, tempo, politica, società, sembra essere una valida indicazione di obiettivi da conseguire, con una ricaduta positiva in un vasto settore di realtà, onde giungere alla distruzione di quelle barriere artificiali che di fatto condizionano negativamente l'esperienza collettiva, la cui scena centrale è riassunta nella vita urbana. La polis futura o è liscia (senza barriere materiali e virtuali) e contemporaneamente nello spazio e nel tempo o è falsa (confinata nelle rappresentazioni opposte di spazio senza tempo, come la città pianificata, e di tempo senza spazio, come la periferia suburbana, la favela, la bidonville). La collettività o è liberata dagli ostacoli alla propria essenza comune, oppure è atomizzata e coagulata attorno alle proprie divisioni esteriori ed interiori.

Esistono o possono esistere spazi, tempi e istituzioni completamente lisci o striati? Probabilmente no, ma non è difficile distinguere un oggetto relativamente striato da uno relativamente liscio.

Cos'è uno spazio liscio? È uno spazio comune cioè permeabile, accessibile e continuo. La città, pur essendo lo spazio striato per eccellenza presenta una serie di spazi pubblici: le vie, la metropolitana, le piazze, un lungofiume, una battigia, un parco, una pista ciclabile, un centro sociale. Una serie di spazi semipubblici (permeabili, ma non sempre accessibili e non continui): il teatro, il cinema, il municipio, l'ospedale, le scuole, l'università, il tribunale, il centro commerciale e così via. Un resto di spazi privati, cioè impermeabili, inaccessibili e discontinui (o discreti e isolati) come l'abitazione/cella della famiglia/singolo. Di passata va notato che lo spazio pubblico, non produce rendita, quello semipubblico a seconda dei casi e quello privato sempre. Anche la prima casa se non produce rendita perché ricondotta al proprio valore d'uso, produce il beneficio della sottrazione al debito infinito del fitto. Non a caso l'attenzione allo spazio comune (non remunerativo) è in via di estinzione.

Cos'è un tempo liscio? Un tempo sottratto all'imperativo della ciclicità rigida, della produttività misurabile, dell'inopportunità energetica e della scansione astratta. È il tempo della festività, della vacanza, della passeggiata, della rinuncia, della lentezza, della pausa, ma anche della creatività, dell'invenzione, dell'imprevisto, dell'esplorazione, della scoperta, dell'amicizia e dell'amore. Il tempo in grado di mutare il senso dello spazio vissuto.

Cos'è una democrazia liscia? Lo strumento di gestione del tempo e dello spazio comune, liberato da recinti, dalla separazione fra rappresentati e rappresentanti, dalle pieghe di potere, dall'autorità degli organi superiori, dalle competenze, in poche parole: uno spazio continuamente accessibile a tutti, in cui la manifestazione spaziale di una decisione comune non sia più (infinitamente) differibile nel tempo.

La polis come luogo politico della riconquista dello spazio e del tempo dell'esperienza.

 

SETTEMBRE 2011

(torna su)


[1] La polis fu un modello di struttura tipicamente e solamente greca che prevedeva l'attiva partecipazione degli abitanti liberi alla vita politica. In contrapposizione alle altre città-stato antiche, la peculiarità della polis non era tanto la forma di governo democratica od oligarchica, ma l'isonomia: il fatto che tutti i cittadini liberi soggiacessero alle stesse norme di diritto […]. Ognuno trovava la propria realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva e nella costruzione del bene comune […]. La nozione di città stato, elaborata dai moderni, sarebbe troppo rigida per esprimere le diverse realtà locali in cui era frazionata la Grecia antica: questo termine sembra infatti far riferimento ad una grande varietà di forme di insediamento e di comunità politiche, a livelli cronologici oltretutto diversi. L'idea della polis senza stato è stata anticipata da alcuni interventi volti a sottolineare il carattere prevalentemente sociale della città greca. Robin Osborne ha sottolineato la mancanza di una autorità statale nella polis e un potere esecutivo vero e proprio. Paul Cartledge ha osservato che essa ignorava la distinzione tra governanti e governati come le nozioni dei diritti dell'individuo e di tolleranza, mentre conosceva una serie di forme di controllo sociale per il mantenimento dell'ordine costituito. La riflessione è stata approfondita da Moshe Berent, il quale sostiene che la polis non corrispondeva ai criteri necessari per poter parlare di "stato", in quanto non presentava una adeguata distinzione tra popolo e potere esecutivo, non aveva il monopolio della coercizione e affidava la tutela dell'ordine pubblico all'iniziativa individuale. Per lui era dunque una "stateless comunity", nel senso di una comunità di guerrieri la cui coesione dipendeva dalla tattica di combattimento politico. Recentemente Oswyn Murray ha sottolineato che il suo carattere era fortemente politico, identificando quest'ultima come "città della ragione" in cui ogni decisione era presa in seguito alla applicazione della procedura razionale della discussione; ossia si presentava come un contesto nel quale si esprimeva pienamente una forma di razionalità politica e si offriva la possibilità di vivere secondo ragione in base ad un ordine non imposto dall'alto, ma concordato dalla comunità. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Polis

[2] «L'architettura è anzitutto l'espressione di una volontà politica. La scelta politica condiziona tutte le decisioni a livello dello spazio costruito». B. Zevi, Profilo della critica architettonica, Newton & Compton Editori, Roma 2003, pag. 43.

[3] Dalla rilevazione dell’Istat, relativa al 2008, risulta che circa 7 famiglie su 10 sono proprietarie della casa in cui vivono. Si tratta di circa 16,9 milioni di famiglie, vale a dire il 68,5% dei nuclei familiari di tutto il Paese. Sono invece 4,7 milioni – due ogni dieci – le famiglie che vivono in affitto, per una percentuale del 18,9% sul campione di riferimento. Il restante 12,6% delle famiglie (3,1 milioni di nuclei familiari), invece, abita in case in usufrutto o in uso gratuito.

[4] «Gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato. Le rivoluzioni borghesi del secolo scorso hanno diviso la grande proprietà fondiaria della nobiltà e della chiesa in piccola proprietà particellare, come vogliono fare oggi i repubblicani spagnuoli con il latifondo che è ancora in essere, ed hanno creato così una classe di piccoli proprietari fondiari, che da allora è divenuto l'elemento ultrareazionario della società e il costante ostacolo contro il movimento rivoluzionario del proletariato urbano. Napoleone III divisò di creare nella città una simile classe mediante la diminuzione delle singole obbligazioni del debito pubblico, e il signor Dollfus e i suoi colleghi, vendendo ai loro operai piccole abitazioni da ammortizzarsi mediante rate annuali, tentavano di soffocare in loro ogni spirito rivoluzionario e contemporaneamente di inchiodarli con le catene della proprietà fondiaria alla fabbrica nella quale essi già lavoravano». F. Engels, La questione delle abitazioni, Editori Riuniti, Roma 1974, pag. 42.

[5] «I bolscevichi sono gli eredi storici dei Livellatori inglesi e dei Giacobini francesi. Ma il compito concreto, che ad essi spettava nella rivoluzione russa dopo la conquista del potere, era incomparabilmente più difficile di quello dei loro precursori. […] Certo la parola d'ordine dell'occupazione immediata e diretta e della suddivisione della terra da parte dei contadini era la più sbrigativa, la più semplice e la più lapidaria formula per raggiungere contemporaneamente due obiettivi: frazionare il latifondo e legare subito i contadini al governo rivoluzionario. Come provvedimento politico per i consolidamento del governo proletario socialista, questa era una tattica eccellente. Ma essa aveva purtroppo due facce e il rovescio della medaglia stava nel fatto che l'immediata occupazione della terra da parte dei contadini non ha per lo più nulla di comune con l'economia socialista […]. La parola d'ordine, data dai bolscevichi, della presa di possesso immediata e della divisione della terra da parte dei contadini, doveva operare addirittura in senso contrario. Non solo non è un provvedimento socialista, ma taglia la strada che vi conduce, ed accumula difficoltà insormontabili sulla via della trasformazione dei rapporti agrari in senso socialista […]. Si è creata così non una proprietà sociale, ma una nuova proprietà privata, vale a dire lo spezzettamento della grande proprietà in proprietà piccole e medie, della grande azienda relativamente progredita in piccole aziende primitive che lavorano con mezzi tecnici del tempo dei Faraoni». R. Luxemburg, La Rivoluzione russa, in Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1969, cap. 3, pag. 572.

[6] «Il 20 agosto 1918 un altro decreto si univa a completare le prime disposizioni […] e concerneva il diritto di proprietà fondiaria e immobiliare.

Art. 1. – Il diritto di proprietà individuale è abolito per ogni appezzamento di terreno, senza alcuna eccezione, compreso nei limiti di agglomerati urbani siano essi costruiti o no, sia che appartengano a privati, o a imprese produttive o a istituzioni.

Art. 2. – Nelle città di più di 10.000 abitanti, il diritto di proprietà individuale è abolito per ciò che riguarda tutte le costruzioni che, compreso il terreno sul quale sono edificate, eccedano un prezzo o producano un profitto maggiore ai limiti fissati dagli organi amministrativi locali.

Art. 5. – Tutti i terreni e gli edifici che, in applicazione del presente decreto, cessano di essere proprietà individuale sono messi a disposizione delle autorità locali.

Art. 6. – Nelle città di più di 10.000 abitanti, il diritto di costruire appartiene esclusivamente alle amministrazioni locali. Nelle città la cui popolazione è inferiore alla cifra di cui sopra questo diritto può essere concesso ai privati dalle autorità locali.

Art. 12. – Le autorità locali possono destinare fino ad 1/3 delle risorse così ottenute alle spese di gestione legate alla esecuzione del presente decreto così come alla soddisfazione dei bisogni della popolazione. Le autorità locali hanno l'obbligo di destinare il 10% dei proventi al "fondo abitazioni" centrale dello Stato che è incaricato della creazione di nuovi insediamenti urbani». A. Kopp, Città e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 56.

[7] H. Lefebvre, Il marxismo e la città, Mazzotta, Milano 1973, pag. 138.

[8] Leggibile per intero al link: http://www.urba.unifi.it/docprog/Venturaf/library/classicallibrary/Bernoulli/Bernoulli_Index.htm

[9] «Così il signore della città era padrone del suolo urbano, e ogni singolo abitante era padrone della propria casa. Con questi procedimenti, il concetto che il medioevo nutriva intorno alla città ideale poteva trasformarsi in legname o pietra; la città doveva sorgere sicura sopra un dorso di montagna o protetta da un fiume; doveva avere un mercato, una via principale lunga e larga oppure un ampio quadrato, nel centro. Il suo sistema stradale doveva essere comprensibile a prima vista, segnare comodi quartieri, inconfondibili distinzioni fra le vie principali e le secondarie, fra quelle antistanti e quelle retrostanti. La chiesa col suo camposanto doveva sorgere appartata dal traffico, ma in modo tale che la navata maggiore e il campanile, emergendo dalle altre case, dominassero la piazza e la via principale». H. Bernoulli, La città e il suolo urbano, Antonio Vallardi Editore, Milano 1951, pag. 25.

[10] «I fondatori delle città medievali avevano distribuito agli abitanti le aree fabbricabili per un tempo indeterminato: e il canone da pagarsi era stabilito immutabile […]. Non farà quindi meraviglia se già nel 14° secolo alcuni proprietari di casa si liberarono dell’importuno balzello col pagare in una sola volta un capitale press’a poco corrispondente a quello del tasso periodico. In tal modo il Comune che quasi dappertutto era subentrato al Signore – Principe o Vescovo – si lasciò prendere la mano per un piatto di lenticchie e perdette la sovranità sul suolo». Bernoulli, cit., pag. 46.

[11] Bernoulli, cit., pag. 58.

[12] «Tardivamente, ma in modo sempre più netto, il settore immobiliare diventa un settore subordinato al grande capitale, […] con un rendimento attentamente precostituito sotto la veste dell'organizzazione del territorio. […] I profitti risultano immensi e la legge (tendenziale) della caduta del saggio medio di profitto viene contrastata con grande efficacia». Lefebvre, cit., pag. 141.

[13] Questo senza dimenticare che non c'è realizzazione di rendita urbana senza "processo costruttivo", il che da un lato significa che la rendita è in qualche modo il vero motore della produzione edilizia, dall'altro che l'enormità dei capitali necessari, costituisce tutt'oggi una preponderanza produttiva nei sistemi economici nazionali, rispetto alla produzione industriale di beni mobili. «In Francia, nel 1965, con 1.200.000 salariati e una cifra d'affari di circa 430 milioni di franchi, l'industria delle costruzioni era, e resta, la più importante dell'economia nazionale; l'industria automobilistica non rappresenta che un terzo di questa cifra». Zevi, cit., pag. 38.

[14] «Qualora la città fosse stata la proprietaria del suolo, avrebbe avuto libero campo per concedere o rifiutare le aree a destinazioni edificatorie non desiderabili. Ma, avendo essa già alienato i terreni, dovette bandire ogni diritto in proposito. Ora invece, quando la città, per una miglioria che deve servire a tutti, per esempio un nuovo parco, un campo sportivo, una scuola, una caserma per pompieri, un cimitero, deve rivolgersi al proprietario privato del terreno o dell’edificio, questi si mette sorridendo a disposizione della comunità, ma dà gentilmente a comprendere che l’affare sarà un po’ costoso. Comincia un contrattare, un mercanteggiare che non ha mai fine; e tanto più l’area conviene per lo scopo che la città si prefigge, tanto più si eleva il prezzo che il proprietario richiede. Spesso il rappresentante del Comune se ne deve andare scuotendo deluso le spalle. La ricerca del terreno per molti edifici pubblici diventa spesso una faccenda dolorosa, poiché con ritagli casuali di terreno non si possono costruire né un teatro, né un museo, né un municipio. Per simili costruzioni occorrono località di primo ordine, una situazione di monopolio e quindi anche cifre di monopolio. Al pronunciarsi del prezzo naufragano tutti i progetti. È per questa ragione che le nostre città difettano di ampie località libere per il riposo delle persone anziane e di ampi campi di gioco per i bambini. L’alto prezzo delle aree spaventa tutti». Bernoulli, cit., pag. 69.

[15] «Non tutti questi terreni erano però favoriti dalla fortuna: ma la fortuna stessa poteva essere a sua volta modificata. Siccome le aree fabbricabili lungo le strade principali erano valutate assai più di quelle lungo le strade secondarie, la delicata pressione della proprietà fondiaria ottenne che i nuovi quartieri fossero riccamente dotati di strade principali. Quindi il concetto di strada secondaria scomparve per decenni dall’ordine del giorno. E siccome nella serie delle case d’affitto, la casa d’angolo si addice particolarmente per negozi, vetrine, ristoranti, locali d’affari di alto reddito, le avvedute amministrazioni civiche si impegnarono ad incrociare affrettatamente le vie in modo che le case d’angolo vi potessero sorgere numerose» Bernoulli, cit., pag. 68.

[16] Stando ad un calcolo sommario e medio, basato sul reddito medio di 1.200 euro al mese, il cui 25% è pari a 300 euro mensili, vale a dire 3.600 annuali, che moltiplicati per lo stock di 3,2 milioni di case private in affitto (2005), dà appunto 11,5 miliardi di Euro l'anno, quasi quanto una finanziaria "ordinaria".

[18] Piero e Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, Roma 1988.

[19] Lefebvre, cit., pag. 145.

[20] «Il sistema contrattuale (giuridico), mantenuto e perfezionato dallo Stato in quanto potere (politico), si fonda sulla proprietà privata del suolo (proprietà immobiliare) e del denaro (proprietà mobiliare)». Lefebvre, cit., pag. 118.

[21] Neanche cioè, se il pubblico costruisse, come non fa, case da cedere agli affittuari dopo un certo numero di anni (quello che auspicava Proudhon), in modo da rientrare dai costi dell'operazione. Questo per la sostanziale ragione che la proprietà immobiliare, come suggerisce la parola stessa, essendo immobile, implicherebbe una stabilità dell'attività lavorativa almeno di qualche decennio e si trasformerebbe comunque immediatamente in nuova proprietà privata una volta riscattata e perciò di nuovo soggetta agli andamenti del libero mercato.

[22] Per il concetto di "grana temporale" e altre dimensioni del tempo si veda: K. Lynch, Il tempo dello spazio, Il Saggiatore, Milano 1977, pag. 97.

[23] Per i concetti di "liscio" e "striato", si veda: G. Deleuze e F. Guattari, Il liscio e lo striato, in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.

[24] Lynch, cit., pag. 287.

[25] «Nazionalizzazione? Municipalizzazione del suolo? Ne conosciamo più i limiti che i vantaggi». Lefebvre, cit., pag.  139.

[26] H. Lefebvre, in Zevi, cit., pag. 38.