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06
Gennaio 2012

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SULLA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA DI OGGI

Redazione

 

Premessa

I giovani usano parole importanti con grande disinvoltura. Gli anziani, dopo una più lunga esperienza, finiscono con lo smettere di usarle, di modo che ogni concetto che rompa in modo drastico con la loro consuetudine e con lo stato presente delle cose, finisce coll’essere vista di traverso come una menzogna.

 

La parola rivoluzione, inoltre, è una parola, insieme, troppo facile e troppo difficile. «Bisogna fare una rivoluzione!» oppure «Una rivoluzione non è possibile» sono frasi nette, in un senso o nell’altro, magari necessarie alla vita quotidiana, ma che in un’analisi storica oscurano la realtà mutevole dei fenomeni. E deformano, al contempo, il ruolo dell’agire politico degli uomini nella società.

 

Rivoluzione, d’altra parte, è anzitutto un termine relativo. Rivoluzionare qualcosa significa cambiare ciò che essa è. Ma cosa è ciò che bisogna cambiare? Ed inoltre, le cose hanno bisogno della rivoluzione per cambiare, o non cambiano, piuttosto, anche da sole? Domande banali; ma non sono forse la realtà e la nostra ignoranza di essa, altrettanto banali?

 

Cominciamo con il dare dei nomi. La nostra “cosa”, che riguarda il nostro studio, che cambi o che non cambi da sola, che sia ferma o in movimento, si chiama, crediamo, ancora capitalismo. Tuttavia lo si può chiamare capitalismo come si chiamava quello di duecento anni fa, solo per omonimia. Si tratta, infatti, di cose diverse, per quanto mantengano una struttura di fondo che le accomuna. Potremo, allora, chiamare il nostro capitalismo di ultimissima generazione, un capitalismo post-umano (l’abbiamo chiamato così nel nostro editoriale precedente), o anche capitalismo post industriale, capitalismo basato su un’organizzazione post fordista della produzione, oppure capitalismo delle immagini, capitalismo di inizio ventunesimo secolo. I nomi, in ogni caso, non fanno le cose, con buona pace della società dello spettacolo.

 

Ed allora? Lo chiameremo così: capitalismo post-umano. Di modo che tale battesimo ci possa condurre almeno dritti ad una definizione del capitalismo odierno che valga per la definizione tutta della società contemporanea. Una definizione sulla base di cui il senso dell’agire umano sia messo in rapporto all’influenza che ha la tecnica oggi sulla nostra condizione umana e sul nostro mondo.

 

Dunque, capitalismo post-umano. Per giustificare questa definizione, usiamo un solo esempio, che se non basterà, potrà, comunque, aiutare. Ci si potrà domandare: chi svolge, oggi, i velocissimi e complicatissimi calcoli di previsione alla base delle speculazioni e degli investimenti finanziari, in genere, che tanto incutono ansia e paura a noi comuni mortali? Sono degli uomini, delle donne, degli specialisti, dei tecnici, degli intellettuali? Nient’affatto, si tratta di computer, software. D’altra parte su cosa si regge, l’attuale condizione di interconnessione dei mercati, e dunque, della vita su scala mondiale, la quale tanto caratterizza la nostra condizione di essere umani in questa fase storica se non sull’incredibile sviluppo, avvenuto degli ultimi decenni, delle tecnologie di informatizzazione del lavoro e della comunicazione?

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Scia del passato e macerie del presente

La rivoluzione di oggi, dunque, come quella di domani, non possono essere più concepite sulla scia di quella della borghesia dei secoli xviii e xix. Le predizioni contenute nel Manifesto del partito comunista o le aspettative della seconda o della terza Internazionale, se oggi non sono più attuali è per la semplice ragione che non più attuale è il quadro di sviluppo complessivo della società umana che la borghesia ha garantito negli ultimi secoli.

 

Tale quadro si è dato nei seguenti punti salienti: imposizione di un tempo lineare evolutivo della storia, sviluppo delle forze produttive su larga scala, rottura dei vincoli (sociali, ma soprattutto ideologico-religiosi) che resistevano a tale sviluppo, rimozione della questione dell’ambiente, messa a valore del tempo umano in funzione quasi esclusiva dell’accumulazione di ricchezza sotto forma di capitale, instaurazione di un atteggiamento d’indifferenza completa rispetto all’influenza dello sviluppo della tecnica sulla personalità umana, e, in genere, sovradimensionamento della costruzione del senso individuale rispetto alle forme collettive alla base dell’agire umano.

 

La rivoluzione della società capitalistica, giunta ad un livello di complicazione superiore a quella del secolo passato, non potrà più quindi essere però intesa come uno sviluppo della società posto su basi diverse (proprietà e gestione pubblica dei principali centri di produzione di ricchezza), ma, tuttavia, orientato nella medesima direzione. In un certo senso, infatti, l’analisi di Marx portava a identificare (anche se mai, giustamente, a definire in modo troppo netto) la società socialista sulla base dell’approfondimento degli aspetti rivoluzionari venutisi storicamente ad instaurare con lo sviluppo delle società borghesi e con quello dell’apparato produttivo del capitalismo.

 

C’è oggi bisogno, invece, (e questo si fa sempre più evidente) di tutt’un’altra rivoluzione, e non di una rivoluzione borghese semplicemente (si fa per dire!) rovesciata di segno. Oggi possiamo sostenere con fermezza che una certa modernità ha trovato, infatti, il suo limite, e questo è evidente nell’odierno passaggio che mette l’insostenibilità evidente di questo sistema al confronto tuttavia con la sua apparente insostituibilità e la sua necessità a – storica. Cosa, infatti, potremo mai sostituire ad esso, oggi, dopo gli esperimenti di socialismo realizzato nel xx secolo? Non ci hanno ripetuto, infatti, negli ultimi decenni, che il comunismo era divenuto un semplice cane morto?

 

In ogni caso, quello di cui abbiamo bisogno è un’altra rivoluzione, un altro tipo di rivoluzione, una rivoluzione che ridefinisca ciò che vuole rivoluzionare. Perché esso non è oramai, e non è, non può essere, semplicemente il capitalismo nelle sue manifestazioni esteriori, per quanto tragiche (quali la precarietà, la disoccupazione, la povertà). Bisognerà, invece, rifondare un progetto di cambiamento radicale del rapporto dell’individuo con la società, e della società umana con la natura e la tecnica.

 

Noi non crediamo che questo possa avvenire attraverso la fondazione di un nuovo partito o un nuovo movimento, o l’astratta esecuzione di una politica di governo differente e alternativa rispetto a quella del presente. Gli uomini agiscono, infatti, per quanto siano lodevoli le loro intenzioni, entro un quadro di possibilità che gli è dato, ed entro una cornice spazio – temporale anch’essa, a sua volta, data, la quale non solo li condiziona, ma che, in un certo senso, se guardiamo ad una certa distanza storica, definisce di questi i stessi ruoli, le stesse scelte, le stesse caratteristiche, le quali, ad uno sguardo più immediato ed estemporaneo, noi attribuiamo alle loro soggettività individuali, coscienti e volontarie.

 

Queste condizioni di fatto oggi non sono assolutamente messe in discussione e non sappiamo, sinceramente, se siano stati tanti i momenti della storia in cui effettivamente la politica sia riuscita effettivamente a mettere in discussione le cornici di riferimento di base dello sviluppo sociale (Marx la chiamerebbe struttura economica, ma il concetto è da intendere in senso molto più esteso come struttura spazio temporale e di senso dell’esistenza degli individui umani).

 

In ogni caso, ciò che ci sembra necessario è un progetto che riprenda i temi della grande politica, dove per grande politica si intenda il progetto di cambiamento di ciò che rende gli uomini e le donne, nella loro essenza, quello che sono. Sarà necessario, allora, riproporre come temi veri della politica sia il cambiamento e la rifondazione del tempo dell’esperienza degli individui, oggi radicalmente modificato dalla rivoluzione tecnologica dell’informatica nel suo complesso,  sia il tema della spazialità oggettiva in cui si muovono le nostre vite, vale a dire il tema delle città e della loro natura (esse sole, infatti, possono essere luoghi di aggregazione sociale, e luoghi di ripresa del senso della politica); inoltre, andrà messo al centro il tema del lavoro umano e, in generale, dell’attività umana deputata alla produzione ed utilità sociale, che nell’attuale fase (in particolare nelle società occidentali) è andata completamente snaturandosi e perdendo il senso sociale da cui, nel bene e nel male, essa era sorta.

 

Dunque, Tempo - esperienza, Spazio - città, Lavoro - senso sociale, sono i tre temi necessari della politica per un cambiamento strutturale, necessari alla introduzione di un senso politico diverso per le nostre società. Sullo sfondo di questi temi, si staglia quello di una nuova relazione dell’uomo con la natura, attraverso, a sua volta, una relazione completamente differente con il mostrum della tecnica, che oggi sembra dominare, con i propri tempi e con quelli umani che essa ha modificato, le scelte delle società, le priorità dei valori, i paradigmi della politica. Forse, controllo cosciente delle e sulle forze produttive, di cui scriveva Marx, oggi non può che significare esattamente questo: inizio di una discussione e di una pratica critica rispetto alla tecnica (vera risorsa produttiva di oggi) ed elaborazione di un diverso modello di sviluppo (in un senso ampio, non produttivistico) per le nostre società future.

 

Detto questo, però, se la rivoluzione di oggi non può sorgere all’ombra di quelle di ieri (le rivoluzioni borghesi con i loro paradigmi culturali) bisogna pure aggiungere, se non vogliamo scadere in un progetto del tutto idealistico e astratto, che essa, d’altro canto, parte dalle macerie, (cioè da ciò che esse hanno distrutto lasciandocene in eredità i cocci) lasciate in eredità dallo sviluppo storico delle nostre società borghesi.

 

Una società frammentata, individualizzata, desacralizzata in ogni suo aspetto anche più insignificante, al punto da aver sottratto la possibilità anche alle idee di orientare la vita degli individui; una società sminuzzata in una serie di pieghe di per sé inconsistenti, ma divenuti ostacoli insormontabili per la coscienza comune di oggi fossilizzata su di un eterno presente, e su una rimozione violenta della percezione della vita di tipo storico (non parliamo della scienza storica, ma della percezione comune che le cose della vita umana sono nel tempo e che quindi hanno un loro corso). Una società che stenta e che fa difficoltà a cambiare valori, vigendo la considerazione comune che non siano i valori che ci fanno essere ciò che siamo. Una società che perverte la considerazione del lato materiale della vita unicamente nel senso del piacere, e che lo fa sulla base della necessaria e costante inclinazione ad un piacere da ricercare a tutti i costi, e che annulla l’ideale, il simbolico e i valori sostenendo che non riguardano più la coscienza moderna, poiché questa sembrerebbe poter facilmente sorvolare sulle cose che gli sono date senza porsi troppi problemi.

 

Dunque, si tratta di macerie rilevanti. Certo c’è anche dell’altro, e un’infinità di casi un po’ diversi e di esperienze minoritarie che contrastano con questa immagine, ma la generalità delle cose sta così, ed è essa che potrebbe anche portare la situazione attuale, non cambiando, a degenerare, e a trasformare radicalmente la nostra condizione di umani. Una trasformazione in atto sulla base dei vari processi di genocidio culturale che in questo momento ci sono nelle nostre società e che stanno recidendo il filo culturale tra le generazioni ad una velocità incredibile, alla velocità degli elettroni appunto con la quale i giovani degli anni ottanta e novanta sono stati portati su.

 

D’altra parte, la politica, non è semplicemente teoria, e, se non vuole, arrendendosi alle forze che oggi si dirigono in una direzione contraria, abdicare ad una rifondazione autentica del suo senso, essa deve riconoscere e prendere atto di ciò che c’è, di ciò che si muove, sapendo che lo sguardo, anche il più acuto, non riesce a concepire la varietà e la ricchezza di tutte le cose che si vanno muovendo al di sotto dell’apparenza dei fenomeni sociali che si osservano.

 

Così, bisogna assumere la lente e mettersi a guardare meglio quello che è successo, dal punto di vista delle nuove forme di organizzazione e di espressione della politica, che hanno fatto la loro comparsa nel corso degli ultimi mesi. Ci riferiamo a quello che ha rappresentato apparentemente un fenomeno nuovo e (solo?) apparentemente unitario; vale a dire il fenomeno degli indignati, quello, più in generale, dei movimenti contro la crisi e la gestione finanziaria delle banche e degli speculatori. Il movimento Occupy, il movimento degli indignati, i movimenti che si sono manifestati, ad esempio, in Grecia rispetto alle assurde politiche di austerità che sono state proposte nel corso degli ultimi anni, crisi dopo crisi e riconoscimento dopo riconoscimento della necessaria insolvenza della nazione greca del proprio debito nazionale. Gli stessi movimenti che in Primavera hanno portato in Italia alle vittorie amministrative in alcune città importanti come Milano, Napoli e Cagliari e, a distanza brevissima, alla vittoria dei Referendum contro le privatizzazioni delle aziende dell’acque e contro il nucleare. Si tratta di movimenti che in parte noi stessi come Città Future abbiamo preso in considerazione nel nostro ultimo editoriale, e che molti hanno voluto vedere legati agli altri movimenti, quelli insurrezionali, avutisi in Tunisia, Egitto in altri paesi nord-africani e medio orientali (insurrezioni e processi tuttora in corso, rispetto a cui la questione libica assume poi dei tratti tutti suoi e di una drammaticità particolare, che tuttavia può gettare una certa luce anche sugli altri).

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Forme della politica e la democrazia possibile

Non crediamo, affatto, che questi processi siano unitari, ma tuttavia la sincronicità e l’emulazione non sono un evento da poco nella nostra società globalizzata odierna. D’altra parte, se è vero che ogni paese ha la sua storia, è pur vero che l’interconnessione di oggi ci pone oggettivamente tutti, in modi diversi, di fronte alla questione della crisi del (e su questo del c’è molto da discutere: solo del o nel capitalismo?) capitalismo come una questione strutturale, e determinante da tutti i punti di vista. Inoltre, in ogni caso queste diverse manifestazioni politiche presentano in ogni caso dei caratteri comuni che a loro volta pongono degli interrogativi comuni perché riguardano il modo e le forme dell’organizzazione politica dal punto di vista dei suoi elementi fondanti.

Crediamo, intanto, sia necessario mettere a tema queste questioni:

 

1) Osserviamo, all’interno di una dichiarata crisi ideologica della politica, la più circoscritta, ma non meno radicale, crisi delle forme partitiche di organizzazione della coscienza politica su scala di massa. Non vogliamo, dunque, dire che non esistano più partiti, o che essi non abbiano più alcuna influenza (anzi ciò che ne è rimasto svuotato del suo senso ne ha dunque anche di più, in un certo senso), o che tra gli Occupy, o gli indignati, o nella primavera italiana (tra l’altro assai poco incisiva su equilibri più generale almeno al momento attuale) non ci fossero partiti anche con una posizione determinante ai fini dell’esito e della loro riuscita. Piuttosto vogliamo sottolineare come la crisi dell’influenza dei partiti nell’organizzazione politica dell’alternativa sia oggi un dato assolutamente evidente, e, in larga misura, anche generalizzato, che se può non stupire (a noi non stupisce affatto, ad esempio) tuttavia non vuol dire che debba essere preso per quello che è senza porsi ulteriori domande. Non crediamo, infatti, ci si possa accontentare di un giudizio di sufficienza, e privo di qualsiasi considerazione storica sul significato dei partiti nel xx secolo, del tipo: «Prima c’erano i partiti, ed oggi ci sono i movimenti». Come se cose diverse, possano svolgere esattamente in effetti la stessa funzione ed illuderci che la loro differente natura non determini anche un tipo ed una qualità di politica differente all’interno delle società in cui operano.

 

2) Ruolo della rete nell’organizzazione dei movimenti di contestazione. Si tratta d’un discorso strutturale, ma anche particolare rispetto alla possibilità, all’efficacia, e al senso della forma politica oggi, quello della rete non può essere considerato un discorso d’appendice, del tipo «e poi, alla fine di tutto, dobbiamo considerare che, oggi, rispetto a prima abbiamo la rete, e la realtà virtuale», che nei fatti non cambia radicalmente quanto avviene nella realtà (come se si trattasse appunto solo di un campo di rappresentazione slegato da quello della realtà, e non di una rappresentazione che è reale e che fa la realtà, più di quanto la presunta realtà oggi non faccia se stessa). La questione della rete, inoltre, deve essere senza dubbio messa in relazione con l’aspetto di interconnessione su scala globale degli eventi, il quale, a sua volta, si va traducendo anche nello spirito di sostanziale emulazione degli uni nei confronti degli altri, e di una ripresa di temi, motivi, parole, ispirazioni, non del tutto neutra rispetto alla natura di ciò che accade nei singoli e magari foriera anche di una certa confusione spesso fra realtà delle cose ed apparenza (discrasia certo che non nasce oggi quanto a realtà del movimento e coscienza che esso ha di sé, ma oggi rischia di aumentarsi e incrementarsi).

 

3) Infine la rivendicazione, che a noi in quanto tale appare rilevante e senza ombra di dubbio essenziale, come abbiamo anche già scritto, della necessità di trasformare la democrazia (laddove democrazia formale c’è) in qualcosa di diverso, trovare una strada differente per sostanziare le parole di una costituzione che attribuiscono pure la sovranità al popolo ma che nei fatti non gli garantiscono le possibilità reali di esercitare tale diritto. Questo all’interno di un contesto in cui i veri poteri sembrano sfuggire continuamente al riconoscimento della gente comune. Chi comanda, infatti, oggi? Gli stati? Le banche? Gli speculatori finanziari? E chi sono questi speculatori finanziari? Dove vivono? Democrazia reale, si gridava in Spagna (dove tra l’altro c’era già anche un vecchio famoso slogan «lo llaman democrazia y no lo es», evidentemente ripreso e adattato all’esproprio odierno della democrazia ad opera della finanza). Si tratta dunque di approfondire il tema della declinazione del concetto di democrazia all’interno di un sistema che oramai si è modificato nella direzione di un’internazionalizzazione del potere economico e di una de - materializzazione al confronto di soli alcuni decenni fa.

 

Noi crediamo che questi siano alcuni, non certamente tutti e non per forza esattamente quelli fondamentali, tra i temi che la politica dei movimenti ha posto sulla scena e che oggi ci ritroviamo fra le mani, all’interno di una baraonda di posizioni e un pulviscolo confuso di idee, opinioni, rimandi al passato, e proiezioni in avanti, che solo un’attenta analisi può aiutare, almeno, a districare.

 

Il nostro fine, d’altra parte, non è certo quello di compiere una minuziosa analisi storica dall’esterno rispetto al movimento reale che esiste in questo momento. Né tanto meno di presentare ricette bell’e fatte a chi poi dovrà porsi il compito di renderle attuabili praticamente. Vogliamo tuttavia mettere a discussione tra coloro che sono interessati, e si sentono chiamati in causa da ciò che sta accadendo, una serie di questioni che, se apparentemente complicano le cose, in verità potrebbero renderle più semplici una volta prese in considerazione.

 

Ci chiediamo ad esempio, rispetto ai punti appena messi in rilievo: siamo certi che è possibile intendere la politica rivoluzionaria nello stesso senso di come era intesa nel momento in cui erano ancora in piedi una serie di ideologie, ed era in piedi, più in generale, una società ancora fortemente fondata su ideologie e convinzioni politiche, quando, d’altra parte, oggi è evidente che un certo quadro complessivo mette in discussione questo tipo di cornice ideologica? E ancora, il tema della rete può sopperire effettivamente alla distanza (in tutti i sensi) presente fra gli individui nelle attuali società, o è un tentativo di compensazione, sì necessario, ma insufficiente a contrastare lo sgretolamento dello spazio condiviso della politica e, in generale, dello stare insieme? A questo punto come bisognerebbe ripensare le forme della condivisione della politica e della condivisione tout court? Ancora, pensiamo che sia possibile discutere di democrazia oggi senza mettere in discussione oltre il regime di dominio della proprietà privata concentrata del capitale, ma quello, marcatamente odierno, dell’estensione dello spazio astratto del capitale e del suo dominio sull’intero globo rispetto a quello concreto e circoscritto della vita degli individui? Può esistere davvero una reale democrazia in un mondo di interconnessioni globali così accentuate, o si può al massimo sperare nella pacifica coesistenza di organismi statali affiancati da macro organismi finanziari? Il problema è che la democrazia in sé è un concetto superato, o bisogna ripensare, per affermare una prospettiva democratica, lo spazio, il tempo e la qualità dell’esperienza nel teatro globalizzato del nostro mondo di oggi?

 

DICEMBRE 2011

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