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07
Maggio 2012

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Transizione

ORIGINI E PROSPETTIVE DELLA CRISI ECONOMICA

Guido Cosenza*

 

Scrivevano nel 1854 Marx e Engels in relazione alla crisi in atto, alla luce dei numerosi analoghi eventi ricorrenti verificatisi negli anni precedenti:

 

La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione.[1]

 

La riflessione riportata era dedotta dalla lunga e approfondita analisi effettuata nei decenni precedenti intesa a decifrare il meccanismo di funzionamento di un congegno economico e sociale giunto allora a uno stadio di avanzata maturazione.

L’indagine condotta, frutto dell’impegno di molti anni di studio, culminati poi nel decennio successivo con la pubblicazione del primo volume del Capitale, è caratterizzata da un rigore metodologico esemplare, il che ci rafforza nella convinzione della validità anche attuale delle deduzioni desunte.

Il sistema capitalista è azionato da un meccanismo che non ha cambiato i propri connotati, le funzioni principali sono rimaste inalterate nonostante lo sviluppo verificatosi in più di un secolo di espansione selvaggia.

Molti sono gli indicatori che avvalorano l’asserzione, il più convincente è per l’appunto il riproporsi identico delle disfunzioni intrinseche all’organismo economico e sociale.

Il gigantismo accresce la virulenza delle patologie, ma non ne modifica il carattere. Le incongruenze, contraddizioni del meccanismo, si accentuano ma non sono suscettibili di essere soppresse in quanto sono connaturate al complesso sistema in crescita, eliminarle implicherebbe la disgregazione del congegno in funzione.

Di ciò intendiamo occuparci, ma prima vogliamo soffermarci brevemente su quanto affermato: che cioè nei trecento e passa anni in cui il modello di sviluppo capitalista si è andato consolidando ed estendendo l’apparato produttivo e i rapporti e le funzioni sociali non sono nella sostanza mutati. Si può constatare come le crisi si siano riprodotte con le stesse modalità originando qualitativamente le stesse disfunzioni, la differenza si manifesta nella virulenza con cui si presentano.

Tuttavia due elementi rilevanti vanno valutati

- La ridotta presenza della componente lavoro nel processo produttivo, circostanza che ha portato ad attenuare la conflittualità e ha favorito nella controparte sociale storicamente in contrapposizione il coinvolgimento in funzione della crescita.

- L’evidenziarsi dei limiti fisici dell’universo-pianeta.

Questi aspetti però non hanno modificato le caratteristiche funzionali del complesso congegno economico e sociale che è alla base del sistema.

È quindi essenziale riprendere l’analisi del meccanismo produttivo per sgombrare il campo dalle cortine fumogene diffuse ad arte per ostacolare il conseguimento di una chiara visione di fenomeni che per loro natura sono molto semplici da intendere.

Il processo produttivo che è alla base della struttura consolidatasi con l’avvento della rivoluzione industriale si impernia sul luogo in cui il capitale incontra il lavoro, la fabbrica, il centro erogatore del valore, cioè della ricchezza inerente al dispositivo economico vigente, il cuore del sistema, là dove il capitale impiegato si valorizza – si appropria del plusvalore – si espande.

La reiterazione del processo genera l’accumulazione del capitale e l’ampliamento della base produttiva. Si determinano varie conseguenze:

-aumenta il profitto e aumenta anche il volume del capitale che produce quel profitto,

- in generale si verifica che il rapporto fra capitale investito e profitto, il tasso di profitto, diminuisce.

- La caduta del tasso di profitto indebolisce il sistema, ma può essere attenuata riducendo il costo del lavoro ed estendendo la durata della giornata lavorativa. Si attuano anche espedienti alternativi, ad esempio la promozione di produzioni a basso contenuto tecnologico.

L’estensione della produzione, associata alla introduzione di innovazioni tecnologiche, determina un accrescimento di prodotti disponibili sul mercato e agisce anche sull’occupazione in fabbrica.

L’ampiezza dell’occupazione è regolata da due fattori in controtendenza. Da un lato si riduce a causa delle innovazioni tecniche, diminuzione del contenuto di forza-lavoro per unità di prodotto.

Per altro verso si accresce nella fase espansiva della produzione. Nel tratto iniziale del ciclo predomina il secondo fattore: l’occupazione aumenta.

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La produzione non può crescere indefinitamente, si giunge a un punto in cui il volume delle merci prodotte supera la capacità di assorbimento del mercato. Si instaura un regime di sovrapproduzione.

La fabbrica deve allora ridurre la confezione di merci. Ne derivano alcune conseguenze capitali:

1) diminuzione della occupazione – disoccupazione,

2) formazione di ampie scorte di capitali in cerca di impiego. Il capitale generato nel processo di produzione allargata è fermo, risulta improduttivo e cerca disperatamente un’area di investimento,

3) il capitale già investito è anch’esso parzialmente inattivo e tenta freneticamente di procurare compratori per le merci invendute e per quelle che è in grado di produrre.

Il sistema produttivo entra in crisi.

I capitali vengono dirottati, il loro impiego si dirige verso procedure genericamente indicate come speculazione: finanziarizzazione del capitale. Si finanziano prestiti intesi a sostenere attività di esito incerto, si finanziano consumi per assorbire la sovrapproduzione, ecc.

Come si può notare, e del resto è stato ampiamente descritto[2], la speculazione non è la causa della crisi ma ne è la conseguenza.

L’utilizzazione improduttiva, finanziaria, è forzata dalla natura stessa del capitale, impossibilitato a restare fermo, costretto per costituzione a riprodursi di continuo in forma allargata; la finanziarizzazione gliene dà l’occasione.

L’esclusivo investimento produttivo porterebbe a un abnorme estensione della manifattura in settori i cui esiti stentano a trovare una collocazione sul mercato, di qui l’origine della disperata ricerca di soluzioni alternative. La scelta che si prospetta più agevole e naturale consta nella attivazione di meccanismi di collocazione del capitale nella disponibilità di operatori indipendenti dietro la corresponsione di interessi.

Si crea così un largo settore finanziario a cui contribuiscono e/o accedono agenti delle più disparate provenienze. Deve allora risultare chiaro che nel mondo capitalista produzione e finanza viaggiano in sintonia, sono due facce della stessa medaglia.

Ambedue gli aspetti del capitale messi in luce hanno i loro punti di debolezza.

- L’uso produttivo va incontro a periodi di sovrapproduzione.

- A sua volta l’impiego finanziario, nel gestire l’investimento di ingenti accumuli di capitale improduttivo, si trova esposto a ricorrenti crisi di insolvenza.

D’altra parte il capitale inattivo è soggetto a declino, in particolare in tempo di crisi. La forma denaro del capitale perde valore, un’alternativa ampiamente perseguita per sottrarsi ai rischi del gioco della finanza e della svalutazione consta nell’acquisizione, a prezzi estremamente vantaggiosi, di risorse e di beni di nazioni soccombenti in periodi di congiuntura negativa.

La congiuntura negativa è preceduta da una fase di ampie proposte di finanziamenti a condizioni molto favorevoli per cui paesi con programmi di crescita industriale vengono indotti a usufruire copiosamente delle opportunità offerte. Quando il sistema entra in crisi si determina una restrizione della circolazione di capitali, una diminuzione della domanda di risorse minerarie ed energetiche e di prodotti sia agricoli che industriali con conseguente caduta dei prezzi. Le economie che risultano esposte sono particolarmente danneggiate: aumento del debito pubblico, peggioramento della bilancia dei pagamenti.

In generale allorché si verifica che l’impiego produttivo del capitale nella propria realtà economica inizia a declinare si attivano due linee difensive strategiche, per un verso viene accentuata la destinazione degli investimenti in zone periferiche laddove il costo del lavoro è più basso, la conseguente diminuzione dei prezzi genera, in tempi di mercato saturo, un momentaneo vantaggio, per altro verso l’impiego del capitale viene indirizzato, secondo quanto esponevamo, su attività non produttive.

Quest’ultima destinazione, che finisce per divenire prevalente, è alla base della speculazione finanziaria: si acquistano titoli con elevate rendita, si ottengono diritti sulle entrate presenti e soprattutto future delle nazioni.

È opportuno esaminare più in dettaglio il dispiegarsi del fenomeno in modo da avere una visione circostanziata.

In una prima fase si ha un massiccio afflusso di capitali verso economie deboli. Tale corso origina un movimento alterno di risorse dal centro alla periferia e viceversa. Gli stati della periferia vengono inondati da offerte di finanziamento, di apertura di linee di credito, di proposte di investimenti produttivi e improduttivi. Si sviluppa una moltitudine di iniziative, di promozioni industriali e finanziarie scorrelate in paesi economicamente vulnerabili con conseguenti pesanti obbligazioni finanziarie in assenza di una solidità di progetto e affidabili prospettive. Infine interviene a imporre il rispetto degli impegni assunti il sostegno dei governi forti dei paesi di origine dei capitali.

In conclusione la procedura seguita per sottrarsi alla crisi soffre di una cruciale incongruenza: al fine di rendere disponibili ampi fondi atti a finanziare consumi adeguati al volume raggiunto dalla produzione e sorreggere la loro espansione vengono elargiti prestiti con copertura inadeguata, il capitale in eccesso viene in parte indirizzato verso attività ad alto rischio. L’operazione si avvita su se stessa per l’impossibilità del recupero dei crediti, si determinano alti tassi di insolvenza con conseguenti fallimenti e sofferenze gravi di banche, di istituti di credito, di imprese.

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A tale stadio del processo di involuzione finanziaria si è in piena opera di distruzione di capitali. La movimentazione del capitale risulta non più legata a procedimenti produttivi, il capitale non espleta l’attività specifica di valorizzazione per cui è deputato a operare. Siamo in presenza di un capitale non allocato produttivamente e depauperato dalle spericolate iniziative finanziarie. Esso, svalutato, privato temporaneamente del suo carattere precipuo non alimenta la produzione e non si valorizza. La macchina produttiva si inceppa. Perché si attui una ripartenza e possa proseguire la sequenza ciclica tipica dello sviluppo del capitale occorre che le perdite siano compensate, la compensazione avviene a spese delle classi subalterne.

Il cosiddetto risanamento, e quindi la ripresa, viene realizzato attraverso ingenti prelievi dalla finanza pubblica. Spesso lo stato di belligeranza, acuito o addirittura innescato durante le crisi, contribuisce ad alimentare la macchina produttiva e rappresenta uno strumento idoneo a favorire la ripartenza.

Dunque il ciclo si conclude con la distruzione ingente di capitali a cui si accompagna il recupero forzato di risorse dall’intera comunità e in particolare dalle classi subalterne nel processo di produzione, queste si trovano ora in una condizione di debolezza, la produzione è parzialmente ferma, il consumo declina, la lunga stagnazione già prelude a futuri bisogni da soddisfare, la disoccupazione dilaga e si è forzati ad accettare condizioni di lavoro sfavorevoli. Tale congiuntura determina condizioni idonee alla ripresa della produzione con rinnovata propulsione. Sono i prodromi della ripartenza.

Il ciclo interrotto dalla crisi riprende il suo corso a spese delle classi sociali subordinate al processo produttivo. La struttura di potere saldamente nelle mani dei detentori dei capitali predispone il prelievo  – la cosiddetta salvezza della nazione a cui anche in questa fase storica stiamo assistendo.

In conclusione lo schema di sviluppo conseguente al consolidarsi dell’odierno meccanismo produttivo e consono alla formazione dell’articolato attuale tessuto sociale si configura in una successione di cicli.

Ogni ciclo è costituito da quattro fasi successive:

1. propulsione della produzione,

2. sovrapproduzione, stallo e successiva  finanziarizzazione,

3. crisi finanziaria e perdita di capitali,

4. aspirazione di risorse dal basso ad alimentare la ripartenza.

La struttura a cicli si è protratta nel tempo.

La terza fase, pur essendo innegabilmente parte del ciclo e insopprimibile è stata ripetutamente dichiarata anomala e spuria dagli economisti accademici, essi hanno in generale asserito che le disfunzioni erano originate da comportamenti degli operatori finanziari scorretti, emendabili imponendo norme progressivamente più restrittive ed esigendo poi il rigoroso rispetto delle regole.

Le numerose elaborazioni teoriche sulle patologie affette dal congegno economico hanno al più originato misure il cui effetto si è limitato ad attenuare la virulenza degli eventi.

Tuttavia i cicli si sono inesorabilmente riprodotti e le disfunzioni si sono aggravate in seguito all’espansione del processo produttivo.

I cicli nel riprodursi vanno incrementando la loro ampiezza sconvolgendo progressivamente quote crescenti del mondo circostante e della società e se non vivessimo in un mondo limitato si potrebbe magari dar credito a quegli economisti che asseriscono che il sistema vigente è suscettibile di protrarsi indefinitamente.

Viceversa i limiti dell’habitat in cui viviamo porta il sistema in crescita a infrangersi contro le pareti del contenitore.

La collisione evocata esprime in forma simbolica l’adempiersi di una successione di eventi dagli effetti devastanti.

L’espansione necessita di

- aumento di disponibilità energetiche,

- crescente accesso a risorse fossili.

Peraltro comporta

- degrado ambientale dilagante,

- accentuazione degli squilibri climatici,

- depauperamento delle risorse e del territorio.

Tali fattori aggravano progressivamente le crisi in atto e preludono a una resa dei conti finale.

È da prevedere che la ripartenza del ciclo non possa indefinitamente riproporsi, di necessità si giungerà a un punto in cui le condizioni determinatesi non consentiranno più una ripresa. Quel punto è il valore singolare in cui si prevede che si raggiunga il termine di un sistema divenuto inadeguato. Pervenire a quella configurazione lasciandosi trascinare dalle forze endogene può essere disastroso, anzi nell’evenienza lo sarà. Sarebbe saggio porvi rimedio prima.

È opportuno chiedersi se la crisi che stiamo vivendo ora sia o meno l’evento ultimo a cui non possa seguire una ripartenza, se quindi risulterà inattuabile l’inizio di un nuovo ciclo.

I dati a disposizione propenderebbero per un decorso in grado di assicurare una ripresa, sia pure asfittica. Parrebbe viceversa accertato che la caduta successiva, se non verrà evitata, si presenterà come drammaticamente conclusiva di questa fase storica in campo sociale e produttivo.

È quindi della massima urgenza attrezzare noi e la generazione prossima ad affrontare una contingenza storica cruciale, un evento che si è prodotto altre volte allorché si è determinata l’inadeguatezza delle strutture sociali conseguite e si è innescata la transizione a un nuovo ordine sociale.

 

APRILE 2012

 

* Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico. È autore di La Transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Feltrinelli, Milano 2008; Il nemico insidioso. Lo squilibrio dell'ecosistema e il fallimento della politica, Manifestolibri, Roma 2010; e con Chiesa Giulietto e Sertorio Luigi, La menzogna nucleare. Perché tornare all'energia atomica sarebbe gravemente rischioso e completamente inutile, Ponte alle Grazie, Milano 2010.

 


[1] Karl Marx, Friedrich Enghels, Neue Rheinesche Zeitung, cit. in Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché, Derive e Approdi, Roma 2009.

[2] Giacché (cur.), cit., e Alberto Burgio, Senza democrazia, Derive e Approdi, Roma 2009.

 

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