banner rivista rosso
07
Maggio 2012

home - indice

Esperienza e rappresentazione

RAPPRESENTAZIONE

Giulio Trapanese

 

Maggio 2011, Scuola critica, Biblioteca Brau, Napoli

Questa costituisce una trascrizione rivisitata della seconda di tre parti del seminario «Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo» tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola critica.

 

Continuiamo, dunque, con la seconda delle questioni che sono al centro della nostra discussione: la rappresentazione. Partirò dalla fine di ciò che mi  ero preparato a dirvi, in modo da alleggerire di un po’ la presentazione.

 

Cristo o la rivoluzione d’Ottobre oggi

L’altro giorno, alla riunione periodica della rivista Città Future, parlavamo di come sia possibile pensare una rivoluzione oggi. Devo ammettere, d’altra parte, che questa questione è complicata fin nelle sue premesse: già non è semplice comprendere quali siano stati gli eventi rivoluzionari nel corso della nostra storia. Se assumiamo un’ottica storica, tuttavia, possiamo individuare alcuni autentici rivolgimenti che si sono presentati nella storia umana e soffermarcisi su. Tra questi, ad esempio, direi che spicca la nascita e la diffusione della religione cristiana, prima in Europa, e poi nel mondo. Vi invito, infatti, a riflettere intorno al mondo prima e dopo la venuta di Cristo. La comparsa della figura di Cristo, e la diffusione del suo messaggio hanno segnato per la nostra società un cambiamento decisivo, una trasformazione sostanziale in verità per quasi tutta la civiltà umana. Possiamo dire che il cristianesimo ha costituito un vero e proprio spartiacque nella storia degli ultimi millenni. Un altro momento storico a noi più vicino, invece, che potremmo assumere come evento fondamentale è la rivoluzione d’Ottobre, con i suoi importanti effetti sulla politica del Novecento e i suoi esiti che sono stati variamente interpretati. La rivoluzione d’Ottobre dalla sua è stato probabilmente l’evento più incisivo della storia di tutto il secolo del Novecento.

Ora quello che vorrei mettere in luce è come questi due tipi di fenomeni, come tutti i fenomeni storici del nostro passato, si sono presentati anzitutto come fenomeni locali, per poi solo successivamente assumere una portata e un valore globale. Cristo ad esempio, nasce nella regione di Palestina, e lì vi trascorre i suoi primi trent’anni[1]. La rivoluzione d’Ottobre è un processo che sedimenta nella particolare realtà della Russia e lo stesso fenomeno del bolscevismo è un fenomeno caratteristico del mondo russo dei primi due decenni del secolo ventesimo. Questo tipo di processi si sviluppa, dunque, in un primo tempo in modo silenzioso e senza un eccessivo clamore: quanti sapevano infatti di Cristo o di Lenin prima della loro morte? La diffusione nel mondo del senso di questi processi ha comportato dunque, a sua volta, un processo temporale e l’impegno e l’attività di un gran numero di persone che vi si sono dedicate; possiamo, in altre parole, dire che ha richiesto un vero e proprio movimento culturale. In base ad esso la rivoluzione russa, ad esempio, scoppiata nel Novembre del 1917, nei mesi e negli anni successivi fu in grado di diffondere la propria influenza in uno scenario molto più ampio; Cristo, d’altra parte, morì a trentatre anni ma è dopo la sua morte, e grazie all’opera dei suoi discepoli, che divenne l’emblema di una nuova religione e una figura esemplare.

Noi in questo momento potremmo fare lo sforzo immaginativo di pensare ad un evento storico che possa avere nel nostro presente una prorompenza culturale paragonabile per estensione e radicalità, ad esempio, al fenomeno del cristianesimo (ci vuole un grande sforzo!). Ora, se ci siete riusciti, pensate al modo in cui la spettacolarizzazione totale della vita[2] determinerebbe però per tutti una sorta di fermo immagine della verità; riflettete al mondo in cui essa imprigionerebbe l’evento accaduto in una forma chiusa, che diverrebbe necessariamente l’unica valida, al di là di tutte le altre e possibili rappresentazioni sull’evento.

Ora il punto saliente è che nei processi storici noi non siamo mai di fronte a fenomeni statici, che rimangono identici a se stessi col trascorrere del tempo: la storia, infatti, come continuo trapassare, è, al contempo, un continuo ritornare su di sé e sui propri eventi, un ritornare che ha l’effetto di esaltarne alcuni passaggi, o di portarne altri all’oblio, con la conseguenza di generare desideri di emulazione o giudizi di condanna. Se torniamo al secondo dei nostri esempi, potremmo chiederci allora: quali effetti generò in Europa e nel mondo la Rivoluzione russa? Senz’altro reazioni, innovazioni, trasformazioni: conseguenze queste, tuttavia, rese possibili storicamente comunque da certe forme di rapporti sociali e da particolari istanze soggettive (i partiti comunisti nei singoli paesi, ad esempio, o i partiti liberali o fascisti che erano avversi al progetto del socialismo). Dall’altro lato, il cristianesimo, nato storicamente con la figura di Cristo, se è riuscito a diffondersi e imporsi, è stato anche per via della mediazione dell’aura mitico – simbolica che lo avvolse sia agli occhi dei suoi contemporanei che a quelli di chi venne nei secoli dopo: la figura della sofferenza di un uomo – Dio, morto per avvicinare Dio agli uomini. Il simbolismo si è caratterizzato, dunque, come uno dei più grandi strumenti di mediazione, e non certo solo in campo religioso.

Bisognerà dire che noi, dalla nostra prospettiva, abbiamo perso quasi ogni predisposizione a sentire il fascino di questa aura mitico – simbolica. Negli ultimi secoli della nostra storia infatti abbiamo ci siamo preclusi questa possibilità, e lo abbiamo fatto tanto dal punto di vista antropologico che da quello culturale. Oggi, alla fine di questo processo di disincanto durato diversi secoli, nessun nuovo Cristo potrebbe incantare i popoli, come fece Gesù: il sistema della conoscenza umana dei fatti della società e della storia si è chiaramente andato trasformando, e trasformando in modo essenziale. Oggi in particolare, esso si fonda sul gioco d’incastro delle istantanee rappresentazioni mediatiche degli eventi che accadono nel mondo, ovvero sulla loro immediata riproduzione in immagini, e la loro fissazione in significati universali. La venuta di un secondo Cristo, in ipotesi, sarebbe accolta oggi dallo sguardo razionale e da quella ricerca di una verità determinata dai fatti (“le cose sono andate così”), desiderosa di stabilire con un colpo unico giudizi definitivi sulle cose. Un nuovo Cristo sarebbe, così, immediatamente fotografato, ripreso, sarebbe un personaggio noto a tutti ancor prima di morire, e dunque non potrebbe divenire più una figura con un valore universale d’esempio. Lo stesso sacrificio della sua morte non sarebbe possibile, perché egli si troverebbe ad essere immortalato già prima, agli occhi di tutti, e nel medesimo istante, per via della diffusione su scala globale di immagini e informazioni. Non ci sarebbero i presupposti per la creazione di sette né per un autentico conflitto di interpretazioni, i vangeli non sarebbero tanti (come tanti lo sono stati, molto più di quattro) ma ve ne sarebbe un’unica versione. Ci sarebbe uno spettacolo unico, e ci sarebbe, quindi, un unico spettatore di massa. Nella rappresentazione unificata (“a reti unificate”, come si dice) troviamo, infatti, già contenuta implicitamente la radice dell’annientamento di ogni mediazione, di ogni lavoro d’interpretazione, di ogni tentativo di attualizzazione. L’evento viene ridotto ad una forma di oggettività astratta e la sua rappresentazione è resa immune da qualunque variazione sul tema dominante.

D’altra parte, se il Cristianesimo ha potuto diffondersi nei primi secoli del nostro primo millennio, e successivamente continuare a farlo fino alla nostra storia contemporanea, è stato sulla base della traduzione e dell’interpretazione continua del messaggio del suo fondatore. Un tramandare che è stato un tradire (il tradere latino così vicino al tradire), ma che lo sarebbe stato in ogni caso, come sempre è avvenuto per ogni processo storico. Lo studio della storia della Chiesa e della progressiva formazione del dogmatismo cristiano potrebbe dimostrarci facilmente allora come tutti i grandi fenomeni culturali si siano andati formando attraverso scelte e mediazioni, incontri casuali, perdite e ritrovamenti. Ogni processo di questo tipo, possiamo dire, sia avvenuto in virtù di travagliate selezioni culturali, in virtù delle quali, tra l’altro, come sempre, sono risultati vinti e vincitori. In ogni caso, niente a che vedere con un fenomeno di carattere globale quale siamo abituati a considerarlo oggi. Il processo è stato infatti lungo, travagliato e l’incontro fra nuove e vecchie religioni, interpretazioni scritturali, processi di conversione, è avvenuto in un arco di tempo sufficiente alla creazione consapevole di una forma nuova di ideologia e di pratica religiosa.

 (Torna su)

Rappresentazione ed esperienza

Adesso, dunque entriamo più nel merito del tema della rappresentazione. Seguiremo l’indicazione per cui, come dicevamo, esperienza e tempo non sono affatto due termini che possono essere disgiunti l’uno dall’altro, dal momento che l’esperienza si trasforma a seconda del modo in cui noi la viviamo, e a seconda del tempo in cui noi la compiamo. Non si dà, infatti, mai una medesima esperienza in tempi diversi. A proposito di questo cambiamento in funzione della durata[3], vi invito a dare un’occhiata allo schema 2 (presente qui alla fine del testo)[4]. In esso si rappresenta in modo semplice il modo in cui si forma una rappresentazione nella nostra mente, il modo, cioè, in cui si presenta alla nostra coscienza e in essa si mantiene: nello schema si mette a fuoco in particolare se questa rappresentazione viene assunta sic et simpliciter dall’esterno o se arriva a formarsi gradualmente dall’interno[5]. Quello che vorrei sostenere, insomma, è che noi normalmente traiamo la maggior parte delle nostre rappresentazioni dalla nostra esperienza di vita. Tuttavia, nel momento in cui le rappresentazioni si vanno formando al di là della mia esperienza concreta e al di là delle relazioni con gli altri, vale a dire sulla base di un modello di verità generale che supera e annulla la possibilità della formazione di vari punti di vista, il mio intero rapporto con il mondo andrà a definirsi in modo diverso.

Credo possiamo allora considerare, a questo riguardo, due aspetti. Il primo ha a che fare con il carattere universale del messaggio e, quindi, propriamente della rappresentazione. Si è andata sviluppando, negli ultimi decenni, l’abitudine ad esprimersi con molta leggerezza su quanto accade in giro per il mondo, come se tutto ci riguardasse da vicino (il che in un certo senso è anche vero), ma come ciascuno fosse capace di intendersi di tutto (questo vale per gli studenti universitari di materie scientifiche in particolare!). L’accelerazione dei tempi nella diffusione di informazioni ha reso così possibile questo atteggiamento, che è senza dubbio in continua e incontrollata crescita.

A questo riguardo, nello schema 2 che vi riporto, ho tradotto l’idea per la quale alla riduzione tendenziale del tempo di trasmissione di un’informazione e di formazione, quindi, nel soggetto della relativa rappresentazione, tale rappresentazione cadrà, con maggiore probabilità, nel campo del dominio. Con dominio intendo anzitutto, il campo del “sentito dire” tipico dell’informazione mediatica, che è oggettivata e composta  essenzialmente da fatti. Entro questo schema (che ovviamente è e rimane un semplice schema e non di più) al modello di rappresentazione che è espressione di un’esperienza e che partecipa della formazione del senso di un individuo, si oppone una rapidissima rappresentazione – informazione la quale, essendo per lo più non riflessa, cioè non elaborata dal soggetto, induce un atteggiamento difensivo nella personalità degli individui. Credo sia essa alla base anche della formazione della rigida superficie caratteriale dei giovani d’oggi, la quale se apparentemente mira a difendere la persona, in realtà, ne distrugge la fragile interiorità.

Il secondo aspetto riguarda, invece, la possibilità di recuperare un rapporto più intimo con le nostre rappresentazioni e le nostre conoscenze del mondo. Con questa possibilità identifico fondamentalmente, come scrisse Wilfred Bion, quella capacità di pensare e di apprendere a partire dalla propria esperienza e non da concetti astratti, il che ci porterebbe ad essere più propensi a considerare le rappresentazioni che sorgono dalla nostra vita come qualcosa di nostro, e su cui sia possibile fondare un modo di vivere, uno stile d’essere, in ultima analisi, un valore. In questa seconda ottica il genere di rappresentazioni che consideriamo è diverso dal primo di cui discutevamo: le rappresentazioni hanno in esso infatti un rapporto molto più intimo e personale con la nostra esperienza individuale.

Vorrei fare un esempio. Se andassi, ad esempio, in India, per due anni, e al ritorno scrivessi un libro, con esso offrirei una certa rappresentazione, (magari falsa) ma una rappresentazione in ogni modo figlia di un’esperienza del mondo. D’altra parte, invece, nella società in cui si formano rappresentazioni a scarso contenuto di esperienza e alto contenuto di astrattezza (ad esempio, mi faccio un’opinione sull’India guardando documentari in televisione sull’India e facendomi raccontare da altri) accade che alla mia coscienza sopraggiunga (in tempo brevissimo) un’immagine dall’esterno in grado di affermarsi sulla mia percezione personale del mondo. In questo caso sarà evidente che il documentario sull’India non riguarderà l’esperienza autentica del mio corpo e del mio sentire. Sarà piuttosto l’esperienza di un’immagine, un’esperienza astratta.

Mi sentirei di dire, dunque, che l’esperienza contemporanea, stia andando, traducendosi troppo spesso purtroppo in quella dell’osservazione a distanza, lasciando, al contempo, che la posizione di chi osserva, a sua volta, si riduca a quella di un passivo spettatore. Spettatore di un mondo di cui non si partecipa più nei fatti e dal quale, dunque, si finisce coll’essere dominati, al modo in cui lo si è dalle immagini (quelle irrazionali che generano paura nella nostra mente) che non si conoscono per davvero, e che si sono venute a creare in modo autonomo prevalentemente sotto l’effetto di suggestioni. In base a questo schema allora vorrei mostrare come il piano possibile del dominio di rappresentazioni da parte di un sistema totalizzante vada tendenzialmente aumentando con la velocizzazione (che è nei fatti una moltiplicazione, in astratto) della nostra esperienza. Concluderei quindi che le rappresentazioni mentali hanno una genesi oggi sostanzialmente differente da quelle del passato. Il modo in cui esse si formano è diverso. Non vorrei terminare con una conclusione manichea: mi sentirei di dire, tuttavia, che questa è una tendenza affermata, e una linea di sviluppo ben radicatasi nella nostra società a partire almeno dagli ultimi decenni.

All’interno della rivoluzione informatica di oggi, in particolare, ultimo tassello di quel particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione della vita alla base della nascita del capitalismo, si può infatti registrare un certo scarto, un cambiamento dalle rilevanti conseguenze antropologiche, tra gli effetti delle tecnologie di ieri e quelle di oggi rispetto al modo in cui il soggetto si forma un’immagine di sé. Oggi, infatti, l’esperienza è negata da un ingente, e in continuo aumento, numero di rappresentazioni e informazioni, a loro volta frutto di una complessa struttura di dominazione. Alla possibilità di un’esperienza sensibile, questa logica di dominio sostituisce un quadro di senso ben definito e fondato su un grande numero di prove e controprove di tipo apparentemente razionale. Nello sguardo sulla vita, tuttavia, la verità è che si esprime sempre di più un punto di vista asettico ed universale, un punto di vista per il quale nel nostro punto di vista sul mondo già si esprime la sovranità stessa del dominio su di noi. Questo fenomeno è molto più affermato oggi che nei secoli e nei decenni passati. Il punto storico raggiunto, infatti, rappresenta lo sviluppo ultimo di quel fenomeno che già negli anni quaranta ci veniva descritto da un pensatore come Adorno, alle prese con l’amara osservazione degli effetti del capitalismo tecnologico sulla vita ordinaria degli individui.

 

Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel surplus che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione[6]

 

Credo si possano distinguere a questo proposito due questioni: da un lato il piano specifico delle rappresentazioni nell’odierna comunicazione di massa; dall’altro il problema della tecnica in sé, che include un discorso più generale sul destino del rapporto dell’uomo con il fenomeno tecnologico. Pur non esaminando nello specifico questi due temi, credo si possa sostenere con decisione che il sistema capitalistico di oggi prosperi sulla base di un consenso che viene ricercato in modo invasivo e continuo. Lo spazio qui disegnato alla lavagna [si riferisce alla lavagna dell’aula del seminario, indicante la totalità dello spazio sociale] costituisce uno spazio progressivamente eroso dal fuoco centrale (il modello capitalistico di consumo). Il centro di oggi, come diceva Guy Debord ne La società dello spettacolo (1967), è un centro che è più potente e radicato di quello di prima. Il sistema si è andato rafforzando. Ha invaso ciò che prima non gli apparteneva, ha prevalso, dunque, quasi completamente sul non capitalistico. Tuttavia alla forza di penetrazione nella periferia, si è andata affiancando la fragilità di una condizione che prevede il rinnovamento continuo del consenso, e, dunque, un controllo capillare su tutti i gangli della società. Solo con il controllo permanente di queste periferie, allora, il sistema capitalistico può oggi sussistere, dal momento che di suo, infatti, esso sembra non possedere una chiara legittimità nella società[7]. Il sistema economico di oggi assume, direi, le sembianze trascendenti tipiche di entità del passato: esso deve trovare ogni giorno la sua conferma, ha bisogno di auto legittimarsi nelle coscienze degli individui, è un fenomeno di tipo nuovo, ma non mistico, estremamente concreto, invece. Al posto delle vecchie preghiere, il sistema può riprodurre il proprio dominio attraverso atti di reiterato consumo, da intendersi come prove di fedeltà allo status esistente. Il centro di oggi potrà esistere soltanto allora nella misura in cui creerà e rinnoverà forme di vita, modi di essere, e nella misura in cui questa macchina riesca a non arrestarsi mai, e sia attiva di giorno, di notte, sempre.

 

Vincenzo: «Vorrei porre una domanda: in che senso il sistema capitalistico di oggi ha bisogno di produrre delle forme di vita? E che si intende per forma di vita?»

 

Credo che rispetto alla questione delle forme di vita possiamo riferirci a quanto sostenuto da G. Agamben[8], interpretando questa espressione “forma di vita” in una duplice maniera, a seconda se attribuiamo al genitivo un senso oggettivo o soggettivo. Se consideriamo il genitivo come oggettivo, la vita sarà allora formata a partire da un modello che le proviene dall’esterno e rispetto a cui essa è sostanzialmente passiva. Nel caso opposto del genitivo soggettivo, è la vita stessa che contribuisce a creare la propria forma, ad autodeterminarsi. Sulla base di questa precisazione, possiamo individuare proprio nel labile confine fra la vita formata e la vita che forma il fronte più acceso di lotta fra l’individuo con la sua possibilità di esprimersi nella vita e l’imposizione di modelli esterni da parte del sistema dominante. Per quanto io personalmente non creda nella teoria di una costruzione totale della identità individuale ai nostri giorni, né, quindi, creda nell’esistenza dei sistemi, per capirci, alla 1984 di George Orwell, in grado di sopprimere integralmente l’orizzonte della creatività umana, credo tuttavia sia necessario proseguire, e con attenzione, su questa strada per farsi un’idea delle trasformazioni epocali dell’antropologia del nostro tempo. Dispiace essere apocalittici, ma se con apocalissi intendiamo un momento di forte passaggio nella storia e nella coscienza degli individui, allora bisogna pur esserlo in questi anni.

D’altra parte, come si diceva, se il sistema oggi non riesce ad affermarsi imponendo i propri stili di vita e di comportamento, esso non può sussistere. Senza creare ed organizzare forme di vita, il capitale, nella sua fase attuale, non riesce più ad auto-rigenerarsi. Se non produce, ad esempio, immagini di jeans e di maglie, oltre che jeans e maglie, il sistema oggi perde la propria base di sussistenza. In questo modo possiamo vedere come la produzione industriale, che è sorta nella storia come una produzione meccanizzata di oggetti volti al soddisfacimento di bisogni, in buona sostanza, primari, si sia andata trasformandosi nella produzione di merci d’altro tipo, che vanno ben al di là delle necessità più stringenti. La macchina del capitale oltre che merci produce così personalità di individui, individui necessari alla perpetuazione del proprio meccanismo, individui che possano comprare e affezionarsi alle merci che consumano.

 (Torna su)

Il totalitarismo del XX secolo e la nuova rappresentazione del potere

Veniamo ora al punto specifico che vorrei trattare e che riguarda la soppressione dell’esperienza a vantaggio della rappresentazione. Facciamo un esempio a partire dalla storia del Novecento. Si dice comunemente che in quest’ultimo secolo, la storia avrebbe conosciuto diverse forme di sistemi totalitari. Su tutte il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. Ciascuno di questi sistemi avrebbe incarnato a suo modo una rappresentazione particolare del potere, ma tutti avrebbero comunque saputo ben adoperare i nuovi strumenti di comunicazione di massa, che lo sviluppo tecnologico metteva a disposizione. Hitler, Stalin, Mussolini incarnavano ciascuno una rappresentazione chiara ed evidente del comando, fondando la propria legittimità storica su alcuni elementi ideologici e alcuni valori universali che interessavano una larga fascia della popolazione. L’esempio della Russia ci permette, ad esempio, di constatare come con l’affermazione del dominio staliniano, abbiamo avuto anche la riproposizione dei tradizionali miti della cultura russa, il ritorno al concetto di patria, il recupero del valore della famiglia; in senso politico più generale, le masse sono state coinvolte in ideali di competizione nazionale con le altre nazioni, rendendo il comunismo una bandiera e un ideale generale. Il nazismo, dalla sua, ci offrirebbe elementi ancora più significativi per poter riconoscere i punti ideologici necessari al regime per tenere unita la società e prevenire il rischio di conflitti interni.

Dunque qual è il punto che ci interessa mettere in luce? Il punto è che noi non abbiamo più nelle società occidentali questo tipo di totalitarismi da almeno sessanta anni. Non abbiamo più queste forme di società che Debord, negli anni ottanta definiva attraverso la categoria dello spettacolare concentrato, vale a dire la forma dello spettacolo che si concentra in una sola persona, e in un centro ideologico definito. Uno spettacolo cristallizzato in una forma in cui la massa si identifica, in cui può credere, e che può arrivare a considerare come proprio valore. Questo tipo di società non esiste più. La novità storica è costituita piuttosto da uno spettacolare di natura diversa, lo spettacolare integrato, diffuso capillarmente nel tessuto sociale e capace di organizzarsi su più livelli. Questo sistema, una volta affermatosi, è in grado di entrare nel quotidiano in modo più incisivo, e, una volta penetrato in esso, è in grado di fare di questa dimensione quotidiana la sua principale leva di forza. L’immagine del sistema economico – finanziario attuale, infatti, si afferma proprio perché fa del quotidiano il proprio centro, l’origine della propria forza.

Dal momento che viviamo in Italia, in cui abbiamo Berlusconi [il seminario si è tenuto nel Maggio del 2011], potremmo avere l’impressione che il potere politico sia ben riconoscibile, così come poteva esserlo ai tempi di Mussolini. Potremmo così avere l’impressione che Berlusconi esprima la visibilità del potere per eccellenza, il potere spettacolarizzato per antonomasia. Ma questo è vero solo per un’analisi superficiale. Berlusconi, infatti, altro non esprime che il quotidiano spettacolarizzato, e lo spettacolare, a sua volta, andatosi diffondendosi su tutta la sfera della vita.

Vorrei dire, cercando di sintetizzare, che oggi il potere economico – finanziario non si basa più su di una società regolata da modelli simbolici e normativi, una società, cioè, in cui tali modelli costituiscono un ideale di riferimento per la personalità, rispetto a cui la soggettività organizza se stessa, pure non lasciandosene determinare completamente dall’esterno[9]. Nello spettacolare, di primo tipo, del fascismo, il modello simbolico che si impone è un modello senza dubbio introiettabile, ma che tuttavia rimane un modello, un ideale, non già realtà, per la personalità; non si giustappone, cioè, in modo veloce, e senza lasciar scampo, sulla personalità degli individui. All’epoca del capitalismo della prima metà del ventesimo secolo, tra il modello sociale dominante e la “pelle” dell’individuo rimaneva comunque uno spazio, uno spazio che rendeva ancora possibile la costruzione d’una particolare traiettoria esistenziale per l’individuo. La fine di questa dimensione, cioè, la fine di questa relazione fra personalità individuale e sistema simbolico dominante, è un fenomeno decisivo e può essere ricompreso all’interno del discorso del declino del simbolico nelle nostre società. Qual è infatti l’importanza del simbolico, e perché se ne deve lamentare tanto l’assenza oggi? Il punto è che il piano del simbolico garantisce che la costruzione dell’identità possa avvenire all’interno di un contesto e di una cultura, perché esso stesso si fonda su di una cultura; tuttavia proprio l’esistenza di quest’ultima permette che l’individuo possa non omologarsi completamente al modello che all’interno di un quadro culturale risulta dominante. Tale punto dovrà continuare ad essere approfondito, perché è un tema chiave. Lo affronteremo anche domani.

A questo proposito domani faremo un piccolo esperimento: attraverso il confronto con delle immagini, in particolare con la proiezione di video di Mussolini e di alcuni suoi discorsi. Possiamo anticipare che ci troveremo di fronte al fatto che tra comportamento e i suoi gesti, conformi alla sua funzione di Dux (che a noi adesso possono sembrare anche caricaturali, ma non lo sono) e il piano dell’espressione corporea non si dà una completa sovrapposizione. Al nostro sguardo, riosservando i suoi comizi, Mussolini sembrerà una sorta di attore. Le nostre orecchie e i nostri occhi non sono più abituate a percepire come naturale la distanza fra il simbolico e il reale, ed è per questa ragione che un tipo umano ideologico a noi sembra essenzialmente un personaggio finto, vale a dire, un attore. Il nostro Berlusconi, che pure vedremo in video, d’altra parte ci apparirà come una persona normale; questo senz’altro perché noi siamo suoi contemporanei, ma anche credo perché avvertiamo che potrebbe trattarsi di una persona incontrata per la strada. Il suo modo di fare, le sue battute, la sua leggerezza nel rapporto con il pubblico potranno effettivamente portarci a pensare che sia uno di noi, una persona come le altre, prestata per il momento alla politica.

Mussolini, evidentemente, invece, incarnava un’ altra modalità di affermazione del potere. Il potere del fascismo si esprimeva ancora su di un piano strettamente rappresentativo e su di una forma di rappresentazione che si manifestava separata dall’immediata concretezza della vita ed era sicuramente più estranea ad essa di quanto non lo sia diventata oggi. Il Berlusconi di oggi che parla in televisione, o le giovani persone che vedremo domani rispondere a delle interviste vivono ormai lo spettacolo già dal di dentro di sé e della loro percezione della vita; lo si osserverà facilmente dal modo in cui questi si esprimono. La telecamera per loro non è più uno strumento, ma una modalità d’esistenza. Nel momento in cui parlano esse si vedono già in quel mondo, perché si prefigurano già la possibile pubblicazione di ciò che diranno o che faranno una volta inquadrati. Lo spettacolo è stato nella loro, come per la nostra, formazione, infatti, un’esperienza quotidiana del tutto ordinaria e naturale; lo spettacolo, principalmente attraverso la televisione, è divenuto per loro esso stesso un bisogno naturalizzato. Il risultato è che tutto l’odierno quotidiano è profondamente intriso di spettacolarità[10].

Se dunque alla base di tutto ciò che stiamo dicendo c’è il prevalere del piano della rappresentazione mentale su quello dell’esperienza, dovremo pure chiederci se questo fenomeno non sia già presente nella nostra società da molto tempo, e quali siano stati i passaggi storici in cui questo è potuto avvenire. D’altra parte, esperienza e rappresentazione sono due termini generici ed ambigui, che possono essere interpretati in modi assolutamente differenti. L’unica possibilità di non incorrere in troppi fraintendimenti sarà condurre comunque un’analisi storica di quello che stiamo dicendo.

 (Torna su)

Rappresentazione e vita

Scegliamo allora una data approssimativa che possa essere significativa rispetto al nostro discorso. Prendiamo l’epoca intorno al 1850. Di questo periodo possiamo considerare il livello di sviluppo delle forze produttive, così come il tipo di vita che mediamente si conduceva: allora essa consisteva, nei fatti, soprattutto, nel lavorare, e nel mangiare, bere, vivere, fare l’amore, vale a dire in quelle poche cose essenziali, per le quali il tempo, che oggi intendiamo come tempo libero, era infinitamente poco (possiamo considerare infatti una media di lavoro di 10/12 ore).

Bisognerà allora dedurne che con l’aumento esponenziale delle forse produttive dell’ultimo secolo, e l’aumento di disponibilità del tempo libero, si è andata determinando la possibilità che la vita non sia solo vita, ma che sia, sempre più, anche la rappresentazione di se stessa. Il problema è costituito dal fatto che questo raddoppiamento della vita, non ha portato ad un suo potenziamento, ma, chiaramente, al suo restringimento. Nell’esperienza della vita non vale una logica lineare. Ecco vorrei che questo punto costituisse il fulcro del nostro discorso. Se osserviamo, infatti, il primo schema che vi ho proposto[11], possiamo constatare come attraverso lo sviluppo delle forze produttive la vita di oggi abbia la possibilità e il tempo non solo di soddisfare le esigenze che, in parte, prima già soddisfaceva, ma anche quella di auto - rappresentarsi. Oggi, ad esempio, si ha il tempo di fare e immediatamente anche di rappresentare ciò che si fa (si pensi al caso di facebook in cui si scrive ciò che si fa, ciò che si pensa in un certo momento). Riferendoci ancora alla metà del diciannovesimo secolo, si può dire che allora si aveva a malapena la possibilità di soddisfare le proprie esigenze, e non si avvertiva il bisogno di una continua espressione all’esterno del proprio sentire e del proprio essere. Oggi, d’altra parte, il piano della rappresentazione della vita, paragonato a quello della vita in sé ha assunto un peso incredibile, si è sovradimensionato. La vita animale dell’uomo è continuamente annullata (annullata, non superata) in una fissazione del suo essere in sterili immagini mentali, che non guidano la sua azione ma semplicemente la classificano, e non le danno senso, semplicemente, al massimo, un significato[12].

 (Torna su)

Onnipresenza della pubblicità

In sintesi, dunque, potremo dire che il dominio della rappresentazione costituisca l’effetto distorto del processo di liberazione di tempo, quale è andato di pari passo con lo sviluppo produttivo[13]. Oggi infatti la rappresentazione ha un potere nella nostra società su tutti i livelli. Pensiamo all’investimento del denaro del capitale: il sistema capitalistico odierno spende metà dei propri soldi per rappresentarsi in pubblicità e conquistare nuovi spazi di mercato, costruendo, in questo modo, veri e propri modelli di tipi umani. L’irrazionalità dell’odierno capitalismo potrebbe essere sintetizzata tutta nella seguente annotazione. Se si spende oggi una ricchezza quantificabile in x per la produzione di merci necessarie ai bisogni materiali, se ne spende, invece, un’altra, y, senz’altro maggiore per costruire, influenzare, e diffondere altri bisogni che sono assolutamente non necessari e che servono unicamente alla riproduzione del capitale e del suo profitto. La pubblicità, dunque, vero e proprio emblema della società della seconda metà del secolo XX, è l’elemento in cui è possibile riconoscere tutta la contraddittorietà del modello capitalistico odierno. Il sistema attuale ha un carattere antisociale, così come antisociale è la pubblicità che esso diffonde. La pubblicità è dunque il frutto di un lavoro che non ha più alcuna ricaduta positiva sull’uomo, il suo senso è solo quello di tenere insieme un sistema complesso, pervasivo e dunque anche fragile, che ha bisogno di una continua alimentazione, e che persegue l’obiettivo della sua sussistenza sulla testa delle vite della maggioranza degli individui.

I nostri bisogni, dunque, non possono essere interpretati come quelli propagandati dalla pubblicità la quale, infatti, ha l’unico scopo di determinare una certa tendenza di consumi (il più delle volte riuscendoci[14]). I bisogni che riguardano l’uomo sono, piuttosto, quelli di utilizzare degli oggetti per soddisfare e per prendersi cura della propria animalità e, quindi, della propria spiritualità. La pubblicità ha il proprio senso, dunque, soltanto dal punto di vista dello sviluppo capitalistico. Non riguarda affatto i bisogni degli individui. Non ha senso dal punto di vista di un bisogno reale, umano.

In questo quadro, dunque, possiamo arguire come il capitale, concentrato come è oggi in pochissime mani, sia in grado con qualche semplice mossa di determinare e trasformare il destino di interi popoli e nazioni. Dall’altra parte, invece, gli individui che, lavorando e consumando, sono la base reale del processo di accumulazione avvertono dalla loro una grande impotenza rispetto al loro agire nel mondo. Non si rendono conto di come sia possibile cambiare questa macchina così complessa che li sovrasta, che ne determina i movimenti e li obbliga a rinunciare ai loro desideri; la loro stessa vita è divenuta loro troppo complessa, perché completamente soggiogata a rapporti esteriori.

Il quadro così delineato ci aiuta, allora, a dare risposta a quella domanda, che pochi forse si vanno facendo con autentico spirito critico: la domanda sulle ragioni per cui le cose negli ultimi decenni non sono cambiate e ancora continuano, in effetti, a non cambiare. Le ragioni, insomma, dell’immobilismo degli ultimi decenni. In Italia, per rimanere alla nostra nazione, negli ultimi dieci anni abbiamo partecipato alle manifestazioni di piazza più grandi della nostra storia repubblicana; così come sono stati tanti i movimenti, di diversa natura, che hanno fatto la loro comparsa (movimenti antisistema, ambientalisti, referendari, antipartitici, studenteschi). Tuttavia, nulla di tutto questo sembra essere riuscito ad incidere sull’andamento reale delle cose, perché è come avesse riguardato esclusivamente la superficie, mentre nel profondo i processi continuavano a fare il loro corso. In conseguenza di ciò in una generazione di giovani attivi in politica è maturato dentro un senso di grande frustrazione.

Il punto saliente da sottolineare è che quest’impotenza è anche, in ultima analisi, l’effetto della sproporzione che si è generata fra il potere del capitale concentrato e quello detenuto dal mondo del lavoro. Correlata a questa sproporzione c’è la difficoltà di riconoscere dove oggi si trovi l’autentico potere, dal momento che esso è meno localizzabile in luoghi fisici ben determinati. Prendiamo il caso della Fiat: la lotta di resistenza dei lavoratori a Pomigliano nel 2010, ad esempio, è stata una lotta importante, ma la direzione della Fiat è riuscita, nonostante tutto, a spostare velocemente i propri investimenti. Tutto questo io credo sia stato possibile perché ogni industria si situa immediatamente all’interno di un orizzonte globale ed opera con una forza che non è più paragonabile a quella dei suoi lavoratori, i quali attraverso lo sciopero e l’occupazione, si battono pure ma trovano di fronte a sé un titano più grande di loro. E il titano non possiamo certo identificarlo in Marchionne… magari fosse lui! Si tratta piuttosto dell’organizzazione astratta del lavoro su scala internazionale insieme alla natura fluttuante[15] della ricchezza dei capitali concentrati di oggi.

 (Torna su)

Universalità della merce e particolarità dell’esperienza

Dunque, riepilogando la questione: da un lato noi abbiamo la massima universalità della merce (vale a dire la stessa merce che viene diffusa in tutto il mondo) e, dall’altro, una massima particolarità dell’esperienze degli individui e delle comunità. Dico la massima particolarità, perché il forte senso d’impotenza che si avverte è un grande ostacolo a riconoscere che la propria azione si colloca comunque sempre in una cornice universale. Oggi, infatti, si coltiva comunemente l’illusione di poter conoscere tante cose sia attraverso le comunicazioni dei media, che con la possibilità di viaggiare; tuttavia, dall’altro lato, si può affermare con sicurezza che l’esperienza degli individui oggi è un’esperienza assolutamente impoverita e incredibilmente sminuzzata[16]. Si fa fatica anche solo a sentirsi appartenenti alla propria regione geografica! La ragione è che la vita si è andata trasformando, fino a divenire prevalentemente una trasmissione unidirezionale di modelli e di informazioni da parte di una serie ristretta ed omogenea di centri che hanno una localizzazione globale. Per cui, nel nostro tempo, si può anche essere a conoscenza di tutto quello che succede nel mondo, ma non avere poi nessuna opinione su perché le cose stiano andando in un certo modo o su come potrebbero andare altrimenti. L’esempio classico è costituito, infatti, dai nuovi adolescenti che vengono a conoscenza continuamente di quello che accade del mondo, quanto ai fatti, ma poi non hanno alcuna capacità di formulare giudizi e aspettative su cosa fare della loro vita. Sanno tutto del mondo nel momento in cui sono collegati ad un computer nella loro stanza, ma poi sono immobili e incapaci di fronte alle difficoltà della vita, dal momento che non hanno mai davvero conosciuto il mondo in carne ed ossa. E questo è uno dei punti chiave dello sviluppo della questione, perché è in questo modo che si sta formando la coscienza delle nuove generazioni.

Ci sarebbero altre cose, ma il tempo è tiranno, per cui devo venire subito al seguente punto: la televisione e la passivizzazione dell’esperienza. Con un controllo forte dell’esperienza, e la riduzione della capacità di poter agire nel mondo (l’agency) è andato diminuendo di pari passo il vigore della ricerca di un senso alla propria vita. Cosa voglio dire? Intendo che con la tecnica, e, nel particolare, con le comunicazioni di massa, si è ridotto decisamente lo spessore della sensibilità degli individui. Il problema è non c’è un’alternativa ad essa per la loro individuazione: è solo la loro sensibilità che può renderli diversi l’uno dall’altro. La formazione della mia identità, infatti, dipende in buona misura dal grado di sviluppo della mia sensibilità e non dal livello di un’astratta conoscenza o intellezione delle cose. Dal punto di vista della conoscenza dei fatti posso sapere che al momento c’è una guerra in Iraq, oppure che ci sono dei rapporti di tipo causa – effetto fra gli eventi, potrei sostenere, ad esempio, che la guerra in Afghanistan ha avuto come causa l’attacco terroristico alle Twin Towers. Questo tipo di rappresentazioni intellettuali, così come, in verità, tutto il sapere di tipo specialistico e nozionistico oggi è divenuto modello dominante di conoscenza, e si va diffondendo assai velocemente e in modo incontrastato.

D’altra parte, bisogna registrare come oggi anche persone che vivono fisicamente le une molto distanti dalle altre, finiscono coll’avere un’identica rappresentazione e interpretazione degli eventi del mondo. La comunicazione di massa nella sua forma attuale ha determinato così di fatto una certa omologazione nel livello di conoscenza dei fatti del mondo. Dunque, ci ritroviamo oggi con una sorta di omologazione intellettuale fra gli individui. D’altra parte, come dicevamo, abbiamo un’incredibile riduzione della loro capacità sensibile, la quale riduce la loro effettiva presenza nell’esperienza che fanno. Crediamo, infatti, che tutto il tempo, che trascorriamo davanti ad uno schermo[17] non trasformi la nostra esperienza delle cose? A quali esperienze ci sottrae, e quali aggiunge, invece, alla nostra percezione ordinaria? Quali implicazioni ha in genere rispetto alla nostra sensibilità? Queste valutazioni sorgono in definitiva dal fatto che noi oggi siamo bombardati da una mole infinita di rappresentazioni e, dunque, la rappresentazione intellettuale finisce con l’avere un ruolo preminente nella vita. Nel modo in cui si va formando il senso della nostra esistenza, essa sovrasta senz’altro l’apporto della nostra più individuale sensibilità.

Possiamo guardare allora il secondo schema che vi ho proposto: ci troviamo di fronte ad una distinzione essenziale fra la rappresentazione che è estranea all’esperienza e quella, invece, figlia di un’esperienza di vita. La prima delle due costituisce la rappresentazione alla base delle forme di potere e di condizionamento del presente. Essa è una rappresentazione conservativa, perché, provenendo dall’esterno e non essendo passata per un’elaborazione interna, tende a fissarsi in una forma rigida, e a irrigidire, a sua volta, lo sviluppo della personalità. D’altra parte, la rappresentazione che nasce dall’esperienza, invece, e che mantiene un contatto costante con essa, è una rappresentazione che si presta alla trasformazione, fino al punto di poter anche essere sostituita da un’altra. La rappresentazione che sorge dalla vita ha dunque un carattere meno assoluto e più facilmente ascrivibile dallo stesso soggetto a quelle che sono le vicende particolari della sua vita. La rappresentazione del dominio, invece, si presenta con un carattere atemporale e fisso, e che ha una natura diversa dalle rappresentazioni più spontanee.

 (Torna su)

L’invadenza della rappresentazione nella società odierna

Detto questo, vorrei aggiungere altre due ultime annotazioni sulla rappresentazione, prima di concludere. La prima si riferisce alla capacità dell’odierno sistema di determinare e influenzare le rappresentazioni degli individui. Vorrei infatti mettere in luce come questa capacità faccia il paio con la possibilità di controllare e determinare il futuro della società in toto. Oggi il dominio sulle rappresentazioni è capace di controllare il futuro stesso per via della creazione di aspettative e di paure. Su questo permettetemi un veloce passaggio sulla finanza. La finanza c’entra a questo proposito perché le aspettative e le paure non sono unicamente aspetti della convulsa psicologia di massa dei nostri anni, ma sono anche criteri di regolazione del sistema finanziario, il quale opera attraverso meccanismi di acquisto, d’investimento, e di vendita di azioni. Oggi il sistema finanziario, in particolare attraverso la previsione delle agenzie di rating, riesce ad influenzare, quando non proprio a determinare, il destino economico e, dunque, sociale di intere nazioni e interi popoli. Questo avviene attraverso la capacità di diffondere una rappresentazione di come stia per presentarsi la realtà.

Il più evidente esempio odierno di questo meccanismo riguarda la Grecia. Se fossi per assurdo, ad esempio, un proprietario di una agenzia di rating, con l’autorità di sostenere che la Grecia attualmente non sia in grado di ripagare i propri debitori, potrei determinare così uno sprofondamento ancor più certo dello stato economico della Grecia, e riuscirei in questo semplicemente sulla base di una rappresentazione dello stato delle cose. Dunque, compirei sulla base di una rappresentazione, non di un fenomeno già presente. Il futuro in quanto tale, infatti, non può rientrare nel piano della realtà, ma al massimo in quello della possibilità. La possibilità di fare prospettive intorno al futuro, possibilità su cui, d’altra parte, si fonda l’intera logica dell’investimento economico e, in particolare, quello di natura capitalistica, si manifesta nel sistema della finanza come necessità di controllo del momento presente. Siamo così di fronte ad un circolo per il quale il controllo del presente diventa il controllo del futuro, e il controllo del futuro, a sua volta, ridiventa, immediatamente, la base del controllo del presente. Dunque in questo meccanismo riconosciamo il modo in cui la previsione storica è in grado di fungere anche da vera e propria azione storica. Possiamo sostenere che previsione e azione, allora, entro il quadro che stiamo descrivendo, giungono quasi a coincidere.

D’altra parte questo elemento particolare della rappresentazione dell’aspettativa del futuro nella finanza ha a che fare con il concetto più generale di rappresentazione mediatica nel momento in cui la si intende come verità universale. A differenza del passato, oggi, infatti, l’assenza della mediazione della pluralità dei punti di vista (di cui dicevamo prima rispetto agli esempi del Cristianesimo e della Rivoluzione russa) rende la rappresentazione che si diffonde sui media particolarmente pervasiva e totalizzante. Possiamo aggiungere quindi che il controllo politico che si esercita oggi è principalmente un controllo politico sulla verità. Sono i media ad ergersi garanti di una verità universale. Tornando al nostro esempio, abbiamo visto come si sia imposta la rappresentazione: «la Grecia non riuscirà a pagare il suo debito». Oppure quella, riferita ad un altro evento di recente attualità: «Bin Laden è colui che ha architettato l’attentato alle Twin Tower. Abbiamo compiuto una guerra per prenderlo, una volta preso, l’abbiamo immediatamente ucciso, e gettato il suo corpo in mare», che è la versione ufficiale dei fatti riguardo la morte di Bin Laden. Riguardo a quest’ultimo evento, tuttavia, l’unica immagine che ci è stata concessa (un’immagine ovviamente video) è quella di un Bin Laden ripreso nel mentre guarda se stesso in televisione[18].

A questo riguardo la differenza con il modo in cui si sarebbe instaurata una qualsivoglia verità in un’epoca passata è molto grande. Un evento storico, ad esempio, di 500 anni fa, sarebbe stato sottoposto ad un complesso filtro di mediazioni, di interpretazioni, e trasformazioni; questi passaggi avrebbero reso la diffusione stessa della verità, la sua ricezione, un vero processo storico, e quindi un processo frutto di una azione umana collocata nel tempo. Oggi come oggi, invece, la ricezione è un processo molto più semplificato, nella misura in cui ci troviamo di fronte ad una sorta di monopolio unico dell’informazione, e, al contempo, di fronte ad un modello di diffusione istantanea della stessa informazione. Io credo che quando gli storici futuri[19] studieranno mai il nostro presente, si troveranno di fronte ad una nuova difficoltà: si confronteranno, infatti, con il fenomeno, che stiamo vivendo, dell’omologazione della serie dei punti di vista individuali su una verità oggettiva e di carattere universale[20].

Infine vorrei solo accennare a come il tema della rappresentazione possa essere importante anche rispetto alla comprensione della natura della politica oggi e in particolare alla sua declinazione come spettacolo[21]. Oggi, infatti, la politica è sempre più percepita dalla comunità come un’istanza separata, qualcosa che è al di là della portata dei cittadini. Inoltre essa è divenuta, come non mai, una professione; dico come non mai non perché la politica non sia mai stata nella storia una professione; ma perché mi sentirei di dire che è sulla base dell’attuale sviluppo delle forze di produzione, che è fondata la possibilità di estendere la professionalità (a vita) degli incarichi politici. Il numero di chi può permettersi di non lavorare, infatti, e fare politica è oggi in proporzione molto più alto del passato: c’è tanta gente che può non sacrificare il proprio tempo per il lavoro, e dedicarsi alla politica, e questo costituisce un dato relativamente nuovo dell’ultimo secolo.

Va notato, infine, che la politica nella società dello spettacolo è essa stessa l’apoteosi dello spettacolarizzazione in atto. Nella nostra società, dunque, anche la liberazione di un certo tempo dal lavoro, ha favorito il fenomeno della professionalizzazione della politica, favorendo, di conseguenza, la fissazione dell’istanza politica come un livello separato dalla società. La politica si è, quindi, fissata e, così facendo, in realtà, ha sottratto senso a se stessa, rendendo, al contempo, impolitico il mondo della società.

 

APRILE 2012

schema-1

 

schema-2

(Torna su)


[1] Tra l’altro possiamo dire en passant che i primi trent’anni di Cristo sono abbastanza misteriosi, sono degli anni di cui qualcuno parla, e qualcuno no, mentre si è scritto solamente degli ultimi tre anni della sua vita.

[2] Tale spettacolarizzazione contemporanea non riguarda solo lo show vero e proprio, ma il modo in cui le rappresentazioni generali si diffondano in forma mediata conferendo a chi detiene il potere del sistema la possibilità del controllo.

[3] Ovviamente non va dimenticata la variabile dell’intensità di un’esperienza.

[4] Vedi schema 2 riportato a margine.

[5] Questo discorso non presuppone alcuna divisione manichea, ma fonda una distinzione necessaria a comprendere il modo in cui si formano le rappresentazioni degli individui singoli nel contesto della società.

[6] Theodor Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Mondadori, Milano 2005.

[7] Con periferie intendiamo diversi livelli di spazialità: periferie sono quelle delle contemporanee metropoli, ma periferie sono, al tempo stesso, intere nazioni escluse dal campo delle vere decisioni globali. Periferie possono dunque essere intesi quartieri, province,  intere nazioni, se non, a volte, addirittura interi continenti.

[8] Il riferimento è alle sue ultime lezioni tenute nel 2011 a Paris VIII e a uno dei suoi ultimi testi Altissima povertà (2011).

[9]  Determinano un ideale per la personalità, ma, appunto, non determinano direttamente la personalità dall’esterno, come si dirà poco più avanti a proposito della nostra società senza simboli.

[10] Potremmo tradurre questo processo, in modo un po’ tranchant, con lo sconfinamento totale del valore di scambio negli ambiti più privati della vita.

[11] Anche questo riportato a margine dell’articolo.

[12] Certo bisognerebbe approfondire questo tema e porsi la domanda di cosa possa essere oggi la razionalità, che forme possa assumere. Se l’uomo è un animale dotato di razionalità, e tradizionalmente la sua razionalità è stata un modo di affrontare in modo diverso rispetto agli altri animali la propria animalità, nel momento in cui l’uomo nega con l’onnipotenza della tecnica e dell’informatica la sua finitezza e il suo corpo, la razionalità non può più strutturalmente essere quella di prima, essa stessa deve cambiare il proprio senso, o scomparire. L’uomo che distrugge la propria naturalità (cioè la misconosce) al tempo stesso distrugge la sua cultura; questa, infatti, altro non era che confronto e attribuzione di senso alla sua naturale condizione di essere finito. Un uomo senza natura non può più essere un uomo culturale, nel senso che abbiamo attribuito alla parola cultura negli ultimi millenni.

[13] Vorrei precisare che non si tratta spesso di un effettivo aumento di disponibilità di tempo, quello per cui si sviluppa il piano della rappresentazione. Piuttosto di una distorsione nel percepire la vita che produce l’illusione che si abbia un tempo infinito. Questa illusione si lega al fenomeno della rimozione della morte nelle nostre società occidentali.

[14] Quella della pubblicità è una nuova affermata tecnica. Si studia all’università, ma soprattutto, purtroppo, la si impara nell’odierna vita quotidiana dove il nostro linguaggio, la nostra postura, le nostre espressioni sono calibrate fin dall’infanzia su quelle dei modelli della pubblicità ancor più che su quelli televisivi in quanto tali. La televisione, a sua volta, infatti, è figlia della pubblicità, e la pubblicità è sua genitrice e come quei genitori che credono di sopravvivere nei loro figli, essa ne diventa anche la sua anima. Se oggi qualcosa non ha pubblicità non può esistere; in questo si esprime la potenza sociale del capitalismo contemporaneo. Lo spettatore non deve pagare il suo programma, è infatti la pubblicità il committente dello spettacolo e ciò che garantisce il rapporto fra il programma e spettatore. La pubblicità paga il tutto ed è l’arcano che determina il senso dell’intero spettacolo.

[15] Per natura fluttuante s’intende il carattere di flusso come cifra della nuova spazialità del capitale di ultima generazione (si veda Manuel Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009).

[16] Se la Lega Nord come partito ha fatto del nordismo la sua ideologia a partire dagli anni novanta, la gente comune, d’altra parte,  ha cominciato da alcuni anni a riconoscersi nel suo viale privato e nella sua strada, sentendosi estranea al di fuori di essa. Il Sud è stato contrapposto al Nord, l’Italia alla non Italia, gli indigeni agli immigrati. Il concetto d’Italia, in questo modo, ne è uscito completamente smaterializzato, e si presenta come un concetto troppo astratto nella percezione dell’individuo medio. Il problema di cosa sia oggi l’Italia nella percezione di un italiano medio rimane un problema aperto. Egli si identifica, infatti, con la religione, con la provincia, con il Nord, il Sud. […] Io non riesco più ad identificarmi con qualcosa che mi contiene ad un livello più ampio.

[17] Si tratta questi di studi che in Italia non si fanno, ma che ad esempio in Francia fanno già da un po’, si veda il sito di Bernard Stiegler, arsindustrialis.fr.

[18] Immagine la quale, reale o meno, rappresenta una descrizione perfetta del narcisismo mediatico della nostra società.

[19] Esisterà mai la storia in futuro?

[20] Risulta comunque fondamentale il discorso, sul modo in cui il sistema di oggi riesca effettivamente a mantenersi e, dunque, a svilupparsi.  A questo proposito l’esempio più indicativo credo possa essere, senz’altro, ancora quello della pubblicità. Il dominio della rappresentazione, la spettacolarizzazione della vita, il sistema della pubblicità costituiscono infatti un’incredibile matrice nella formazione di senso per le nuove generazioni,  la quale ancora non è stata approfondita a sufficienza dalla critica teorica. Bisogna studiare i nuovi giovani, il modo in cui la tecnica li sta educando alla vita, se si vuol capire cosa sarà la società del futuro.

[21] A questo proposito vi rinvio ad un interessante articolo di Alessandro D’Aloia, Politica e rappresentazione, comparso su Città Future n°2.