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07
Maggio 2012

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La città dell'uomo

SPAZIO ED ESPRESSIONE

Partecipazione urbanistica, esperienza chiusa o possibilità aperta?

Alessandro D’Aloia

 

Luogo e soggettività

Riprendiamo con questo numero della rivista il discorso della rubrica La città dell’uomo inaugurata con l’articolo False città apparso sul numero 05 di Settembre 2011. Si tratta non solo di fare il punto relativo ai problemi dello spazio nella società contemporanea ma anche di intersecare i discorsi possibili su questo tema, con altre problematiche affrontate lungo il percorso delle Città Future fin qui svolto. In particolare, prima di trattare dell’argomento specifico di questo articolo, risulta opportuno accennare brevemente al perché si ritiene il tema della città e più in generale dell’ambiente, o dello spazio esistenziale, qualcosa degno di riflessione. Nell’editoriale del numero precedente si poneva la questione della de-materializzazione dello spazio e della compressione del tempo, alla cui base ci sarebbe l’accelerazione dell’esperienza umana nell’epoca della comunicazione elettronica cui la contemporaneità sottopone gli eventi che la caratterizzano. Il ritmo infernale con il quale la coscienza individuale viene bombardata dall’esterno ha l’effetto di disancorare certezze, riferimenti, e obiettivi. L’edificio di dati acquisiti nel tempo è sottoposto ad una radicale ristrutturazione in cui nulla degli antichi capisaldi permane come base dell’avvenire. Una delle caratteristiche della condizione presente è data dalla sospensione, dalla incompiutezza dei processi e affievolimento di ogni intenzione iniziale. In sostanza ogni volontà espressa non dura il tempo necessario alla propria materializzazione ed in genere gli obiettivi iniziali diventano vecchi durante lo svolgersi dei percorsi che essi stessi richiedono, restando per lo più abbandonati nello stato di tentativi che non hanno neanche la possibilità di fallire. In un quadro di questo genere è inevitabile che la soggettività si ritrovi permanentemente disancorata da riferimenti che mutano in continuazione. Il senso dell’immateriale e dell’evanescenza domina il nostro ambiente sociale. Se c’è stato un tempo in cui il lavoro forniva quantomeno un orizzonte d’ancoraggio all’identità dell’individuo, oggi non si sa più chi si è anche perché, nella maggioranza dei casi, non si sa più che senso ha quello che si fa per vivere. Potremmo dire che l’identità individuale derivante dall’occupazione è divenuta un privilegio per una cerchia sempre più ristretta di “soggetti”, mentre per il resto neanche il lavoro può più parlare per loro. Allora cosa parla per te e di te, se non le tue scelte circa gli oggetti di cui ti circondi? Una pubblicità di una nota casa automobilistica dice che “noi siamo ciò che scegliamo” e per questo noi siamo la “nostra” merce, la nostra automobile, il nostro cellulare, il nostro vestito e persino le nostre applicazioni per l’i-phone. Senza merce niente soggetto, il che equivale a dire che il soggetto è diventato una produzione industriale.

La coscienza non cessa di cercare identificazione, e lo fa laddove pensa di poterla trovare. Se prima la costruiva su terreni comunque poco sicuri (ma edificabili) oggi la fonda sulle sabbie mobili.

Ma cosa resta al di là del lavoro prima e della merce poi, come base per un riconoscimento di se stessi? Esiste in tutto questo mutamento coatto ed iper-accelerato, qualcosa che invece permane alle burrasche quotidiane che spazzano la coscienza individuale? E c’è una modalità diversa dalla semplice scelta per potersi esprimere?

Giancarlo De Carlo, che rappresenta il riferimento teorico di questo articolo[1], diceva che:

 

Inconsciamente o consciamente si comincia a riconoscere che non si può fare ameno delle coordinate spaziali, perché sono le ultime difese.

L’ambiente è l’unica cosa in cui riusciamo ancora a riconoscerci, perché il resto sta diventando incorporeo, non ha più materia: solo lo spazio fisico ha materia, solo la città, la campagna, solo l’ambiente, solo le case hanno materia[2].

 

Si delinea quindi uno scenario, di problematica speranza, in cui al di là della mercificazione dell’io, non resta che lo spazio, l’ambiente urbano o extra-urbano che ci circonda. Il problema è però che non si può acquistare (scegliere) un ambiente urbano o un territorio al supermercato come si fa per qualsiasi altro oggetto. Anche affrontando l’enorme impresa dell’acquisto o della costruzione della propria abitazione, ad esempio, non si incide che su uno spazio infinitesimo di ambiente che ci circonda. Per questo le nostre “coordinate spaziali” possiamo solo subirle o costruirle (certamente non sceglierle), intendendo per “costruzione” anche la modifica possibile su di esse, in meglio o in peggio, e nello stesso tempo questa “costruzione” è operazione che non può ritenersi in nessun modo “individuale”. La definizione delle coordinate spaziali della vita è nel migliore dei casi solo una possibilità di “partecipazione” ad un discorso corale. C’è sempre uno spazio di vita, ma soprattutto nel caso dello spazio urbano, esso non è mai un dato naturale, ma all’opposto il frutto dell’azione diretta dell’uomo sulla natura, quindi il frutto di opere successive nel tempo compiute lungo il percorso della civiltà da parte di un numero significativo di attori. Questa “stratificazione” successiva crea le condizioni ambientali presenti in cui alla fine tutto si svolge e nella sua persistenza temporale forma un contesto per la soggettivazione collettiva in grado di fornire un quadro di riferimento anche all’individuo. Aldo Rossi, altra personalità di spessore teorico in campo architettonico, parlava infatti nel suo testo L’architettura della città di “memoria collettiva”, analizzando le leggi della struttura materiale di tale memoria, individuata appunto nella città. Questa essendo costituita di “fatti urbani”, presenta nel percorso della propria evoluzione storica, da un lato parti nuove appartenenti al presente di ogni epoca successiva e dall’altro “permanenze” appartenenti invece al passato di ogni epoca, le quali in ragione di questa loro profondità temporale presentano la capacità, ad un tempo, di caratterizzare l’unicità di un certo contesto urbano e un particolare tipo di esperienza collettiva ad esse legata. I fatti urbani permangono e tanto più saldamente quanto più velocemente tutto il resto muta.

Il “tempo architettonico” si oppone per statuto alla velocità crescente delle mutazioni contestuali alla coscienza individuale. Un fatto di pietra, di cemento oppure di acciaio, perdura per lunghi periodi, a volte eccezionalmente lunghi (nel caso dei monumenti) ma comunque quasi sempre più longevi di chi presiede alle decisioni che stanno allo loro origine. L’architettura sopravvive sempre ai propri ideatori ed esecutori e costituisce una materializzazione dell’operato umano che comporta conseguenze di lungo periodo per più di una generazione. Nient’altro sembra possedere questo stesso potere.

È evidente che anche i fatti urbani sono soggetti ad un’accelerazione incredibile della propria dinamica sotto la pressione fortissima delle leggi di mercato e che il capitalismo ha determinato quantitativamente una porzione incredibilmente estesa di ambiente tanto da condizionare la vita di molte generazioni e di miliardi di persone, ma neanche esso sembra avere il potere di cancellare nel giro di qualche decennio quanto realizzato, nel bene e nel male, in due secoli di sviluppo vertiginoso e caotico. Ogni fatto urbano presente è, positivamente o negativamente, un condizionamento per le generazioni future.

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Linee melodiche soliste o sezioni armoniche corali?

Allora sembra chiaro che tutto quanto concerne la conformazione dello spazio fisico è questione di rilievo sociale, anche se invece sembra che possa essere trattato, come ogni altra cosa, in modo settoriale, affidato ad esperti della forma e dello sviluppo urbano e determinato da esigenze particolari e contingenti di chi investe risorse in esso.

Alla fine, secondo questo schema dominante, sembra normale che lo spazio fisico sia definito e determinato da una serie successiva di fatti urbani contingenti decisi da un numero di attori (magari anche numeroso) ma comunque infinitamente limitato rispetto a quanti saranno, in un modo o nell’altro, coinvolti dalla presenza nello spazio di tali fatti. Non è stato sempre così. È noto infatti che prima dell’avvento delle specializzazioni e della rigida divisione del lavoro capitalista, le costruzioni erano opera di chi le avrebbe abitate, o più in generale, utilizzate. Era questo il modo attraverso il quale le persone partecipavano alla definizione dello spazio collettivo e che permetteva oltre alla partecipazione, l’espressione individuale in un fatto urbano collettivo. Per questo motivo chi viveva lo spazio urbano non ne era alienato. Persino nella realizzazione di opere monumentali, in qualche modo dirette da grandi personalità e commissionate da grandi istituzioni, per lo più il potere temporale e quello spirituale, la popolazione aveva voce in capitolo.

«Si dice che Filippo Brunelleschi, mentre lanciava la cupola di santa Maria del Fiore, discutesse con la popolazione di Firenze che seguiva i lavori dalla piazza sottostante»[3]. Al di là comunque dei casi specifici sembra abbastanza evidente che seppure già nell’antichità o nel medioevo esistesse una cerchia ristretta (e quindi “professionale”) preposta alla progettazione e direzione della realizzazione di grandi opere, queste costituissero, nel tessuto urbano, l’eccezione rispetto alla regola dell’autocostruzione residenziale, che rappresenta comunque, in ogni tempo, la parte quantitativamente maggiore dello spazio urbano. Questo faceva sì che la città fosse il risultato di un processo costruttivo largamente condiviso e diretta espressione produttiva dei suoi abitanti.

È importante sottolineare che lo spazio è, in potenza, un fondamentale supporto di “espressività socializzata”.

All’opposto oggi, l’utenza degli spazi urbani è deprivata di ogni ruolo nella definizione della città, terreno per scorribande di speculatori che dettano i fini e caste di specialisti che lavorano al servizio dell’unica committenza quantitativamente determinante. Chi mette i soldi decide tutto e qualsiasi apporto professionale successivo è esterno al momento decisionale. L’estrema parcellizzazione delle fasi lavorative non permette a nessuno degli attori coinvolti nel processo realizzativo di conoscere l’insieme dell’opera alla quale si contribuisce, eccezion fatta per la fase progettuale che non può prescindere dalla conoscenza complessiva dell’evento architettonico, ma che ugualmente non è in grado di mettere in discussione i presupposti che stanno alla base del progetto. In più, dato che il progetto non riguarda mai la città, ma solo sue singole parti, ne consegue anche che proprio l’insieme urbano si configura come somma di parti sconnesse, che sfuggono completamente alla valutazione critica e collettiva. La città di oggi è come un puzzle infinito che non restituisce però nessuna immagine definita, neanche se i pezzi risultano tutti “incastrati”.

Si dirà che però c’è il piano regolatore generale e la disciplina che ne governa la logica, l’urbanistica,  che assicurano il controllo pubblico su quanto si realizza in città, ma pur ammettendo che questa visione rassicurante abbia qualche concreto fondamento, è difficile nelle condizioni in cui agisce oggi la pianificazione urbana, immaginare la sua libera ed autonoma agibilità. Bisognerebbe allora chiedersi che senso ha parlare di urbanistica in un mondo dominato dal mercato e dagli interessi privati e minoritari che vi stanno dietro. In questo contesto la disciplina del governo razionale del territorio si trasforma nel suo opposto, perdendo di vista i suoi fini e lasciando sul campo solo un sistema intricatissimo di “vincoli” e un supporto ideologico alla proliferazione di apparati burocratici di ogni tipo.

 

Nel caso dell’organizzazione dello spazio fisico, l’abolizione dei vincoli appare creativa perché i vincoli nella generalità dei casi sono ottusi e perciò vessatori, generano conflitti e richiedono energia, sono odiati da chi specula sul territorio ma anche da chi non specula e vuole semplicemente costruire quello che gli serve o cambiarlo per riadattarlo ai bisogni mutati[4].

 

Finisce che tutti odiano i vincoli, e che solo una ristretta cerchia di urbanisti ed amministratori li difendano con l’argomento, che essi rappresentano l’unico argine alla potenziale devastazione del territorio di cui il capitalismo è più che capace. Purtroppo è difficile dare torto a chi sostiene questa tesi, ma come non vedere che, in primo luogo, questa è una visione del tutto di retroguardia rispetto ai problemi del territorio e, in secondo luogo, che alla fine i vincoli esistono davvero solo per i comuni mortali? Come non valutare che l’amministrazione territoriale, in quanto separata rispetto alla comunità ed individuata in un corpo burocratico è per ciò stesso soggetta, nel migliore dei casi, al condizionamento esterno da parte di attori finanziari capaci di colossali pressioni economiche e politiche? Come non osservare che l’ottusità del sistema di controllo finisce per spingere sul medesimo versante di contrarietà ai vincoli sia gli speculatori che gli abitanti e ancora più spesso a fare dell’abuso edilizio l’unica possibilità concreta per il bisogno elementare dell’abitare? Non è proprio questo meccanismo a generare il brodo culturale in cui le destre pescano consensi appena spingono sul tasto di una demagogia ultraliberista?

Allora la questione è: si può continuare a parlare di utilità dell’urbanistica come disciplina senza rifondarne profondamente la missione sociale? Chi è il “cliente” dell’urbanistica?

 

Benché la società contemporanea sia più pluralistica di quanto non sia in passato, accade che la gente comune venga sempre più esclusa dalle grandi decisioni. Nel campo dell’organizzare e formare lo spazio fisico, dove un tempo ogni essere umano era protagonista, nessuno può decidere non solo come sarà la sua abitazione, ma neppure dove potrà abitare. Tutto è già stato prestabilito da chi controlla i suoli, indirizza l’espansione della città, apre autostrade, distrugge foreste, inquina […]. Il problema è nella sua sostanza politico ma riguarda anche l’architettura che a questo punto deve decidere se il suo cliente è l’anonimo potere economico o burocratico, oppure gli esseri umani che la esperiscono come un’essenziale componente della loro scena ambientale[5].

 

In sostanza o l’urbanistica, intesa come disciplina utile a prendere decisioni circa il governo del territorio, diventa strumento di “espressione” diretta della collettività nel suo insieme, oppure essa, in quanto mero dispositivo di controllo sociale, non riveste nessun interesse per la gente comune, divenendo fortemente “impopolare”.

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Sistema aperto o chiuso?

Basti pensare alla formazione di un qualsiasi piano regolatore cittadino, nel migliore dei casi la città (cioè i giornali) ne dibatte per conoscenza, ma chi agisce davvero sulle scelte? In che modo i cittadini possono intervenire sostanzialmente nel processo decisionale? Quale strumento di espressione è loro riservato nella formazione del piano? Il destino della propria città, entra nelle preoccupazioni delle persone?

In tutto questo incredibile modo di gestire i fatti urbani, quello che viene a mancare è il senso stesso delle scelte. Secondo lo schema dominante, infatti, la finanza decide “il cosa” e il pubblico decide, o si figura, di decidere “il come”, mentre si perde completamente di vista “il perché”. Se questo vale per la città, vale anche in generale per il territorio, per le infrastrutture e così via. Ed è esattamente questo schema ad essere entrato in cortocircuito nella questione delle grandi opere come il ponte sullo stretto, oppure la vicenda, molto più avanti nella realizzazione, delle Tav Torino-Lione, in cui al di là dell’opera in sé, ciò che è finalmente in discussione è il senso stesso dell’operazione e perciò anche il modo con cui si prendono le decisioni che riguardano il destino del territorio in generale. È questo il nodo politico della vicenda, ed è proprio questa perenne “deviazione dal perché” che finisce per collocare sistematicamente a valle dei processi urbani e territoriali il capitale al posto dell’uomo come referente. In sostanza nulla si muove più al fine di migliorare l’esistenza urbana delle persone, ma tutto si fa o meno in funzione di un ritorno economico da parte di chi ha il potere di governare le scelte e questo non solo nel caso della Tav. Si tratta di un sovvertimento completo dei fini stessi delle discipline di conformazione spaziale. La città non è più uno spazio di vita, ma un generatore colossale di profitti privati, di cui il pubblico (gli enti territoriali) è semplice mezzo di realizzazione, che si accontenta di costituirsi come mero “apparato di cattura” di quota parte del valore derivante dai processi di costruzione ed urbanizzazione (oneri concessori e tasse su redditi derivati). Questo è possibile a causa dell’espulsione totale dell’utente finale dal momento decisionale. È ancora De Carlo, in relazione all’evento architettonico, in generale, a sintetizzare il meccanismo nel modo seguente:

 

l’architettura, che in teoria è un “sistema aperto”, diventa di fatto un “sistema chiuso” quando uno dei suoi “sottoinsiemi” è mutilato o adulterato da abusi di potere.

[…] Infine si può osservare che quando accade che il “sottosistema delle decisioni” venga mutilato o sopraffatto, analoghe mutilazioni e sopraffazioni si manifestano in tutti gli altri “sottosistemi” di cui il “sistema” dell’architettura è costituito. […] l’imposizione dei valori portati dal committente, condizionano decisamente un evento architettonico: nell’impianto organizzativo, nella configurazione morfologica, nelle scelte tecnologiche, nella manipolazione dei materiali, nei rapporti con l’ambiente naturale, nella predisposizione ai comportamenti dell’utente, perfino nelle decisioni circa la sua impostazione strutturale e il suo equipaggiamento impiantistico.

[…] L’utente, espulso dal “sottosistema” delle decisioni, non ha più ruolo nella definizione del carattere dell’architettura. Ma anche l’architetto, dopo l’espulsione dell’utente, finisce col trovarsi chiuso in una trappola dal collo biforcuto, dove non gli resta altra scelta che accettare o rifiutare[6].

 

Dunque l’espulsione dell’utente dai processi urbani, finisce con il mettere l’intera disciplina in una situazione difficile, dove anche ammesso che gli esperti di fatti spaziali siano animati e guidati da forti motivazioni etiche è dubbio, e allo stesso tempo iniquo, che essi “da soli” possano in qualche modo garantire esiti positivi delle operazioni immobiliari in cui sono coinvolti. In queste condizioni si finisce, nel migliore dei casi, a “rappresentare” un interesse collettivo, ma senza alcuna verifica condivisa delle ricadute delle proprie scelte “tecniche”. È evidente che il sapere tecnico non può che farsi portatore delle istanze che dominano immancabilmente i processi urbani ed è così che si realizzano infiniti esempi

 

di come una minoranza possa sfruttare il territorio a svantaggio della maggioranza e anche di come l’urbanistica possa esercitare un ruolo di copertura dello sfruttamento facendo apparire progressivi interventi che dovranno rivelarsi densi di conseguenze nella sostanza negative[7].

 

La partecipazione si configura quindi come l’unica possibilità ad un tempo della disciplina urbanistica ed architettonica e dell’utenza finale degli eventi urbani, di uscire da questo “collo di bottiglia” rappresentato dall’attuale configurazione chiusa del sistema di definizione dello spazio.

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Partecipazione o cooptazione?

Ma cosa si intende quando si parla di “partecipazione urbanistica”? Si tratta di uno fra tanti sistemi di costruzione artificiale del consenso attorno a scelte calate dall’alto, e in tal caso sarebbe meglio non perderci proprio del tempo, oppure di uno strumento di efficacia concreta per la discussione sullo sviluppo e sul futuro della città e del territorio?

De Carlo, che oltre ad aver sperimentato concretamente l’esperienza della partecipazione, ha anche valutato criticamente quanto praticato, pone una precisa condizione affinché ci si possa aspettare qualche cosa di positivo dalla partecipazione.

 

Il “sistema” dell’architettura è oggi modellato dalla prevaricazione del committente; di chi ha il potere – nell’organizzazione capitalistica o nella burocrazia di Stato – e perciò controlla le risorse, i finanziamenti, la produzione, l’educazione, l’informazione, ecc. Se l’architetto non accetta questa situazione e gli si rivolta contro, allora di fatto si estrania e provoca un conflitto […].

È irrilevante che l’architetto vinca o perda nel conflitto che suscita quando rivendica le prerogative della sua “individualità” perché si perviene ad un reale successo soltanto quando l’intero “sistema” architettonico e tutti i “sottoinsiemi” che lo compongono raggiungono uno stato di totale compiutezza, coerente con gli scopi fondamentali del processo architettonico. Uno stato di totale compiutezza […] implica la radicale ristrutturazione del “sottosistema delle decisioni”, quindi la riconferma dei diritti dell’utente, quindi la coincidenza tra utente e committente: nel senso che l’utente diventa lui stesso committente. Questa sembra la condizione necessaria più importante per portare l’architettura ad essere un “sistema aperto”[8].

 

Ma che significa “coincidenza fra committenza ed utenza” in termini pratici? Nient’altro che un differente contesto sociale e culturale per il sistema dell’architettura, in cui siano i bisogni della popolazione e non del mercato a dettare le linee di intervento, eventualità che equivale a riposizionare l’uomo al centro del sistema produttivo mediante il potere non solo di decidere cosa si realizza, ma di elaborare proprie proposte e perciò una propria visione attiva circa l’utilizzo del territorio.

 

Non si può escludere, e anzi si può assumere come limite veniente, che in futuro il processo della progettazione dell’ambiente fisico possa essere interamente governato dalla collettività: che lo svolgersi delle fasi, dalla elaborazione delle decisioni alla creazione delle configurazioni formali, possa compiersi attraverso una sequenza di scelte, verifiche e invenzioni, capace di autoregolarsi all’interno di un confronto polifonico continuo. A quel punto l’ambigua e insidiosa funzione degli specialisti (dell’architetto) verrebbe esautorata. Ma si tratta di un punto assai lontano il cui tempo di raggiungimento dipende non solo dalla velocità della trasformazione libertaria della società ma anche da quanto rapidamente l’esercizio della libertà potrà distruggere le barriere di alienazione erette dell’esercizio del potere[9].

 

Ma se la partecipazione urbanistica fosse realizzabile solo, a cose fatte, cioè percorribile solo in una società già trasformata, faremmo l’errore di considerarla come mero strumento settoriale, utile al più a consentire la partecipazione della popolazione alle decisioni di tipo urbanistico il giorno in cui la democrazia avrà trovato per suo conto un diverso modo di essere praticata, senza considerarla invece come potenziale strumento attivo di “transizione”, capace cioè, come pratica operativa, di innescare a sua volta la transizione necessaria verso un futuro in cui l’uomo possa considerarsi produttivo nei confronti del proprio destino in generale. Infatti la sensazione è che il tema della partecipazione al destino urbano sia una questione di estrema attualità (come dimostra la vicenda della Tav), anche se non sembrerebbe, proprio in un momento in cui la crisi finanziaria (innescata proprio a partire dal bisogno di abitare delle classi subalterne americane) determina un avvitamento su se stessa della consueta attività umana sul territorio, crisi che si potrebbe sintetizzare mediante l’evidenza di un sistema costruttivo, concentrato soprattutto in grossi eventi architettonici e infrastrutturali, che mentre edifica milioni di metri cubi destinati a restare vuoti, o grosse opere senza utilità evidenti, non è più in grado di offrire spazio abitabile alla società. A ben vedere questo significa nient’altro che l’espulsione dell’uomo dalla città e non metaforicamente. Oggi quasi nessuno può permettersi neanche più di indebitarsi a vita per avere un tetto, eppure i tetti esistenti basterebbero ad accogliere tutti, pur continuando a non farlo. I centri si svuotano e le periferie si allargano nel degrado crescente. Intanto “la colata” continua, ma non si capisce davvero per chi. Si pone per questo un doppio problema da risolvere, un primo di mera ragioneria (quanto tetti, quante persone), un secondo di qualità dello spazio (che tipo di spazio immaginare per una società non annichilita sulla claustrofobia della cella/prigione e del ciclo lavoro-riposo), ma nessuno dei due risolvibile decisamente senza mettere in discussione lo schema dominante di conformazione e assegnazione dello spazio ai componenti della società. È del tutto evidente che nessuna aderenza fra esigenze di vita individuali e collettive possa trovare compimento senza diretta partecipazione della società nel suo complesso al problema dello spazio. E dato che si tratta di una questione basilare per l’esistenza, si può percepire come probabilmente la rimodulazione del processo edificatorio sociale contenga in sé i caratteri salienti di un diverso sistema decisionale relativo all’intero funzionamento della società stessa. In altre parole il problema aperto dell’abitare (inteso in senso lato) è probabilmente uno dei terreni a partire dal quale sarà possibile intravedere modi diversi di dare obiettivi concreti all’attività dell’uomo in generale, nella consapevolezza che nessun obiettivo che non sia anche largamente condiviso possiede oggi la forza per essere accettato. Di passata non sarà inutile osservare che la città non ha solo bisogno di crescere, anzi, mentre ha molto bisogno di essere migliorata, aggiustata, adeguata, curata e questo è un lavoro molto più vasto della costruzione di un nuovo quartiere, una nuova opera o una nuova strada. Insomma mentre il lavoro si smaterializza sembra proprio che ci sia, all’opposto, molto da fare materialmente e molto vicino a noi. Altro che ricerca o creazione di nuovi mercati.

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Esperienze di partecipazione urbanistica

Ma come può essere immaginato praticamente un processo di coinvolgimento pubblico dei diretti interessati nella discussione sui destini della propria città? Sarà utile a questo punto riportare la descrizione che De Carlo fa di una delle prime esperienze di pianificazione partecipata alla quale, da pioniere, egli prese parte. Si tratta dell’occasione della redazione del piano per il nuovo centro di Rimini nella prima metà degli anni ’70.

 

Si è cominciato con una serie di incontri aperti a tutti i cittadini nell’Arengo comunale. I temi affrontati si riferivano all’analisi critica delle varie componenti che costituivano il sistema territoriale riminese. […] Per ogni soggetto di analisi l’ottica era sempre costante: quale uso veniva fatto dei vari sottosistemi territoriali da parte delle varie categorie di utenti; quali categorie di utenti avevano ricavato e continuavano a ricavare vantaggi dalle successive trasformazioni di ciascun sottosistema e del sistema complessivo, e quali invece ne avevano ricavato esclusione e sfruttamento. […] Il successo degli incontri era enorme. La sala del consiglio comunale così spesso disertata (e non solo a Rimini, di certo) dai cittadini assuefatti a arzigogolate elucubrazioni della politica internazionale, era straboccante di operai, intellettuali, impiegati, professionisti, studenti e perfino contadini, appassionatamente interessati a un discorso nuovo sul reale significato della loro città e del loro territorio. […] Il problema del futuro della città e del ruolo che il nuovo centro avrebbe dovuto svolgervi ha assunto una concretezza che non avevo mai prima sperimentato: il discorso urbanistico è diventato quello che sempre dovrebbe essere e cioè un aspetto particolare e specifico di un discorso politico più generale dal quale non può scollarsi senza diventare regressivo e accademico, senza perdere la carica di immaginazione che gli è indispensabile.[10]

 

Nessuna delle esperienze riportate da De Carlo è terminata nei modi attesi, per il semplice motivo, che la portata della partecipazione urbanistica, quando fatta seriamente, è tale da trascendere sempre il carattere specifico del proprio ambito e tirare in ballo problemi ben più ampi, direttamente legati al funzionamento stesso della società data.

 

L’ultima condizione[11] – della partecipazione degli utenti – forse non era stata interamente capita. Anzi all’inizio può essere stata intesa come una delle tante astuzie dell’architetto per cooptare i vari destinatari del suo progetto portandoli a decidere su aspetti di dettaglio per far passare inosservate le decisioni di fondo prese da chi finanzia e amministra. Ma presto tutti dovevano accorgersi – tra stupore e malumore – che si sarebbe fatto sul serio, e la partecipazione a un evento architettonico ha forza contagiosa, che la spinge a diffondersi anche nelle sfere ineffabili della gestione del potere economico e politico.[12]

 

Ma al di là del rapporto fra politica e disciplina la riflessione teorica, direttamente mutuata dall’esperienza, di De Carlo sulla partecipazione urbanistica dà spunti di interesse anche su aspetti collaterali del fare umano. Nell’esperienza di Terni infatti il processo partecipativo, fino a quando si è realizzato con successo, ha dato risultati positivi anche sul piano formale e della migliore aderenza fra bisogni e spazio conformato, al punto che la varietà di soluzioni di alloggio messe in campo, sarebbe stata inimmaginabile senza il confronto fra “esperti” e utenti finali, a dimostrazione che è il processo creativo stesso ad attingere dalle maggiori risorse di immaginazione che una modalità di collaborazione collettiva è in grado di offrire rispetto ad un approccio più “autoriale”[13]. E piuttosto che mettere la firma all’opera è importante che sia il risultato a guadagnarne. Questo tipo di impostazione è lontana anni luce, ad esempio, dallo spazio-marketing affermato oggi, quando anche interventi consistenti vengono affidati esclusivamente a “tecnici” che vengono sempre da troppo lontano per poter avere un qualche interesse all’impatto concreto delle loro opere sul funzionamento della città che le accoglierà e i quali spesso mettono la loro firma su operazioni del tutto improntate alla logica della pura spettacolarizzazione dell’architettura, per non dire altro.

Ma un'altra riflessione riguarda anche la relazione stretta che esiste sempre tra forma costruita e “regime giuridico” dello spazio conformato, al punto che gran parte della qualità degli spazi e delle relazioni sociali che essi permettono o negano sono determinate dalle premesse generali da cui gli “eventi architettonici” sorgono.

 

Purtroppo questo coinvolgimento è andato attenuandosi man mano che l’operazione si avviava al termine – soprattutto quando gli utenti sono stati esclusi del controllo dell’economia del cantiere nel nome di una loro presunta incompetenza tecnica – e ha avuto il colpo di grazia quando è stato deciso che gli alloggi sarebbero stati ceduti in proprietà, anziché in affitto. Era stata messa a punto una procedura assai complessa per determinare un modo di affitto che garantisse l’affittuario sia in termini di diritto all’uso dell’alloggio che in termini economici, lasciando all’azienda la proprietà, e quindi anche i costi di manutenzione. La procedura era stata discussa e aveva convinto sia la direzione che i consigli di fabbrica; senonché inopinatamente la Cisl alzava la bandiera della proprietà e la Cgil, temendosi scavalcata, gliela strappava di mano facendosene l’alfiere. Così ogni altra ipotesi venne accantonata e gli utenti diventarono proprietari prima ancora che gli alloggi fossero finiti. Da allora si cominciò a parlare di elevare recinzioni, di sezionare i percorsi pedonali per trasformarli in balconi, di eventuali diritti di sopraelevazione. Ma la cosa più grave è che da allora si aprì un baratro tra il gruppo di operai che avrebbe posseduto l’alloggio e quello ben più numeroso di coloro che avrebbero dovuto aspettare a lungo: venne a cessare così la spinta di solidarietà che aveva portato al successo l’operazione.[14]

 

Qui De Carlo spiega in altri termini ciò che abbiamo già indicato come differenza fra “spazio striato” e “spazio liscio”[15], rendendo palese anche come questa diversa qualità dello spazio, pur nell’ambito dello stesso oggetto architettonico, sia in strettissima relazione, da un lato con la questione della proprietà, dall’altro con lo “spirito” che anima tutta una visione del rapportarsi agli altri nell’esperienza della vita urbana, rappresentando una connotazione essenzialmente in grado di invertire completamente il segno dell’operazione architettonica e delle relazioni umane che essa è in grado o meno di instaurare.

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Per un’utilità sociale delle discipline di conformazione spaziale

Prima di concludere però, sembra opportuno rimarcare, come la pratica della partecipazione possa rappresentare oggi, pressoché l’unica possibilità rimasta a disposizione delle discipline di conformazione dello spazio, per tentare di recuperare un loro ruolo sociale che altrimenti non sussiste che in via del tutto marginale. Le masse di nuovi “esperti” che l’università sforna ogni anno, impreparate rispetto alle enormi difficoltà di un contesto culturale completamente supino al mercato e alla burocrazia, oltre che votato ad una totale incultura riguardo ai concetti di qualità e di aderenza delle scelte ai bisogni concreti delle persone, non avranno altro modo di operare se non auto-costruendo preventivamente le condizioni per riconquistare il terreno di un interesse attivo verso la città concreta, fatta di case, di luoghi pubblici, di quartieri, di centri storici e di periferie, ma soprattutto di persone che ci vivono. Nessun mercato e nessuna istituzione starà lì ad offrire la possibilità di espressione individuale alla capacità di ogni nuovo esperto pronto e voglioso di operare. Allora questo spazio va conquistato e riconquistato ogni volta e siccome nulla risulta conquistabile individualmente, ogni nuova “figura professionale” sfornata dall’accademia dovrà rieducarsi al confronto nell’obbiettivo di conquistarsi un’agibilità rispondente alla propria formazione. Nessun progetto, per quanto geniale, ottiene solo per questo il posto che merita e la conseguente possibilità di realizzazione, al contrario, ogni progetto, per essere tradotto in evento materiale, deve saper diventare uno strumento di pressione politica e ciò è impossibile senza costruzione condivisa dello stesso. Allora un territorio, una città, un quartiere bisognoso di intervento deve essere capace di esprimere da sé le proprie necessità e le proprie proposte progettuali. Gli esperti, se vogliono avere un ruolo, devono mettersi al servizio di questo tipo di istanze, elaborare griglie di proposte mai già definite (individuare problemi piuttosto che fornire soluzioni), sottoporle ai diretti interessati, da pari a pari, per la loro definizione, il che significa, allo stesso tempo, costruire il supporto sociale a tali proposte, mediante il quale fare pressione politica sulle amministrazioni territoriali. Ogni progetto è una lotta, una costruzione collettiva e un obiettivo politico oltre che l’occasione di migliorare l’esistente. Se non si intraprende questo tipo di modalità operativa, le opposizioni ai disegni del potere sul territorio, non potranno che restare in una dimensione di pura negazione e di semplice resistenza, ancora incapaci di elevarsi sul piano dell’espressione attiva di una propria visione autonoma, anche questa tutta da costruire, del territorio e della città.

 

APRILE 2012

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[1] Autore di numerosi scritti, parte dei quali raccolti nel testo a cura di Livio Sichirollo, Giancarlo De Carlo. Gli spiriti dell’architettura. Editori riuniti, 1992, il quale costituisce la fonte del presente articolo. Come architetto ha realizzato molte opere e piani regolatori, fra i quali quelli per Urbino, nell’ambito del quale ha progettato e realizzato la nota cittadella universitaria.

[2] De Carlo, cit., pag. 201.

[3] De Carlo, cit., pag. 240.

[4] De Carlo, cit., pag. 15.

[5] De Carlo, cit., pag. XVI.

[6] De Carlo, cit., pag. 242.

[7] De Carlo, cit., pag. 269.

[8] De Carlo, cit., pag. 244.

[9] De Carlo, cit., pag. 232.

[10] De Carlo, cit., pag. 274.

[11] Posta dall’architetto per l’accettazione dell’incarico.

[12] De Carlo, cit., pag. 313.

[13] «Nella prima fase di attuazione, […], la definizione delle abitazioni ha fatto parte del processo di partecipazione. Sulla base di una prima classificazione dei bisogni, messa a punto con tutti gli utenti potenziali, si è pervenuti alla definizione di cinque diverse cellule, ciascuna composta di tre nuclei diversi ai tre diversi piani; per cui si sono ottenute complessivamente quindici soluzioni alternative. Successivamente, con gli utenti reali (che si era riusciti a far designare quando le costruzioni erano ancora al rustico) è stata messa a punto una seconda classificazione di bisogni che ha portato ad introdurre ancora tre varianti all’interno di ciascun nucleo. Si è perciò arrivati a poter disporre di quarantacinque soluzioni alternative per i duecentocinquanta alloggi che si stavano costruendo. […]. La partecipazione degli utenti è stata costante lungo tutto il percorso che ha portato alle decisioni sulla struttura e sulla forma dell’evento che si stava progettando». De Carlo, cit., pagg. 315, 316.

[14] De Carlo, cit., pagg. 317, 318.

[15] Cfr. False Città sul numero 05.