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08
Ottobre 2012

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Cosa sognano i ragazzi?

Un dialogo con alcuni giovani professori

A cura di Giulio Trapanese

 

Napoli, Luglio 2012.

Una conversazione con Mario Autieri, Pia Pucci e Giovanna Callegari, insegnanti, a diverso titolo, di ragazzi di scuole superiori di Napoli e provincia.

 

Giulio: Come redazione della rivista nutriamo il desiderio di approfondire il tema della condizione di vita dei giovani di questi ultimi anni. E per questo abbiamo creduto di poter contare sul vostro aiuto, dal momento che negli ultimi anni avete insegnato a scuola e siete stati a stretto contatto con almeno alcuni di questi. Quello che crediamo è che osservare i giovani significhi in un certo senso osservare il futuro che si sta venendo a creare. Le persone giovani della fascia di età scolastica assorbono in un modo incredibile i tratti del presente che stiamo vivendo. In verità questa riflessione è sulla scia di una più ampia che stiamo compiendo come rivista, e che riguarda, più in generale, la rivoluzione antropologica avutasi con l’insediarsi delle nuove tecnologie nella nostra vita, in particolare con quella della rete di internet. Noi siamo in qualche modo convinti che il cambiamento sia stato tanto rapido, quanto complicato da provare ad essere compreso. Se è vero, infatti, che ci sono tanti studi critici relativi a quello che sta avvenendo, e alla trasformazione di tanti aspetti della vita a causa dei nuovi mezzi di comunicazione fra gli uomini, è però vero che, essendo un processo in cui siamo dentro, ci risulta difficile determinare la portata del cambiamento in atto. Noi abbiamo una rubrica sulla rivista che si intitola Esperienza e rappresentazione, che è l’espressione di un piccolo gruppo di ricerca, che sta tematizzando la trasformazione dell’esperienza in conseguenza dell’accelerazione impressa alla vita negli ultimi anni, e del tratto di smaterializzazione delle relazioni umane in genere.

Per quanto non sappiamo bene cosa stia accadendo, ci teniamo, tuttavia, a segnalare la profondità del cambiamento. Dunque, alla luce di ciò, porre domande ai giovani, parlare con loro, e, al tempo stesso, confrontarsi con chi quotidianamente dialoga con loro, è per noi modo di ricercare attorno a questo tema. Porci delle domande, andare alla ricerca dei significati che si stanno andando formando oggi, significa operare una ricerca sul mondo, ricerca che è, d’altra parte, un passo necessario alla trasformazione di questo.

Ho creduto di intitolare questo nostro incontro “Cosa sognano i ragazzi?”…

Pia: Ah è cosa sognano? Non “Cosa sono i ragazzi?”

Giulio: Beh, quello che sognano è quello che sono. No, comunque quando vi ho scritto per convocarvi, ho intitolato l’incontro “Cosa sognano?”

Giovanna: Io addirittura avevo letto “Che cosa pensano?”

Giulio: Ah quindi nessuno aveva letto il titolo giusto fra voi?

Mario: No io avevo letto “Cosa sognano i ragazzi?”

Giulio: In ogni modo l’abbiamo intitolato “Cosa sognano i ragazzi?” per tagliarlo di più sull’aspetto dell’immaginazione e dell’immaginazione intesa come soggettivazione. L’ultima cosa che vi dico per introdurre riguarda un ulteriore elemento. La riduzione dell’esperienza del sogno, come indice dell’aspettativa e della speranza, mi sembra un tema chiave per l’oggi. Lo possiamo declinare in tanti modi diversi, perché possiamo coglierlo rispetto al momento contingente della crisi e della perdita di fiducia nel futuro, ma io ritengo abbia un significato antropologico ben più complesso. Oggi evidentemente la frattura dei livelli di appartenenza procura anche la riduzione della proiezione di sé nel futuro. E quindi l’appiattimento sull’esperienza quotidiana, presente, riflette questo assottigliamento.

Io quindi comincerei direttamente da quest’aspetto del sogno. Pur non insegnando a scuola, infatti, ho fatto diverse lezioni a dei ragazzi, così come in genere provo ad osservarli quando ne ho l’opportunità. Ad esempio, quindi, sul sogno, mi sembra ci sia un cambiamento qualitativo decisivo negli ultimi dieci-quindici anni...

Pia: A questo proposito ti chiederei quando credi che ci sia stato questo cambiamento? Hai un’idea temporale di questo cambiamento? Perché io credo che quello che riguarda gli adolescenti riguardi assolutamente anche quelli più grandi; per certi aspetti non ritrovo siano grandi le differenze. Come se all’improvviso fosse successo qualcosa che ha riguardato gli individui dai quindici anni ai cinquanta, per quanto, chiaramente, con delle specificità.

(torna su)

Giulio: Per quanto individuerei una fase di cambiamento lunga, risalente almeno ad un mezzo secolo, in cui farei rientrare pienamente la televisione, per la nostra discussione mi concentrerei soprattutto sugli ultimi quindici anni, che sono stati caratterizzati dal passaggio ulteriore di internet e delle nuove forme di condivisione costituite dai social network, dalle chat, dagli spazi virtuali, insomma dell’istantaneità introdottasi nella comunicazione a distanza fra le persone.

Pia: Certo, credo che questa istantaneità delle cose le abbia cambiate…

Giulio: Le ha cambiate magari solo accelerando un processo già in atto... Direi dunque di concentrarsi sugli ultimi dieci anni. Un ragazzo che oggi ha quindici anni, infatti, è completamente dentro questa nuova fase; ad esempio, il suo apprendimento della scrittura è stato già mediato dalle nuove forme di comunicazione informatica.

Pia: Ma il sogno? In che senso lo poni in relazione a queste trasformazioni?

Giulio: Questa associazione è tutta da dimostrare. Tuttavia io proverei a stabilire questo tipo di associazione. Aggiungo un ultimo elemento. Nel gruppo di ricerca Esperienza e rappresentazione, c’è chi, da laureato in psicologia, ha stabilito una connessione fra sogno in quanto elemento fisiologico (il sogno della fase rem, per intenderci) ed esperienza dello schermo. Si è posto il problema, cioè, di considerare come cambi il modo in cui sogniamo in relazione ad un’esperienza dello schermo e del videogioco, in particolare, nelle ore che precedono il nostro sonno notturno. Sembrerebbe, infatti, che il sogno, in questi casi, presenti una sovrapposizione confusa di immaginazione interna ed immagine esterna, mostrandoci una sovrapposizione fra l’esperienza percettiva esterna e quella relativa al sogno. In un certo senso, la prima tenderebbe a soppiantare la seconda. Sognare di essere parte del video gioco, ad esempio, e di continuare a giocare sognando, costituirebbe un’esperienza tipica per molti soggetti che in tal modo vivono una certa identificazione inconscia con quello che percepiscono nello schermi. Tutto questo è interessante perché rivela in modo chiaro una parte della nostra mente che non è sempre visibile, vale a dire la nostra parte inconsapevole o quella che io chiamerei di identificazione percettiva inconsapevole con il mondo.

Mi sembra questa una suggestione assai interessante.

Tuttavia, quando io, invece, vi chiedo del sogno, mi riferisco ad esso in quanto aspettativa, chiaramente non in quanto sogno fisiologico.

Pia: Io credo sicuramente ci potremmo trovare tutti sul fatto che l’aspettativa e il sogno sono ridotti oggi ormai, più o meno, ad un mutuo o all’aspettativa di un lavoro fisso,

Giulio: Cioè alla speranza di trovare una sistemazione?

Pia: Sì parliamo della paura di non sapere cosa accadrà, e quindi della necessità di inserirsi in qualche modo nella società, la qual cosa poi certamente determina tutta una serie di fatti e paure. E poi direi un gran bisogno di sicurezza

Giulio: E questo lo vedi come una condizione che interessa un po’ tutta le scuola in cui sei stata ed è quindi trasversale alla provenienza dei ragazzi?

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Pia: Sì, assolutamente sì. Non credo certo che i ragazzi non sognino proprio più. Questo ovviamente no, però la prima cosa che viene in mente, almeno a me, è sicuramente questo appiattimento verso il discorso della sicurezza. Trovare un cantuccio nel mondo. D’altra parte anche la maggior parte delle battaglie che fanno i ragazzi, si pongono tutte su di un piano di rivendicazione di diritto.

Giulio: Nel senso del diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, etc.?

Pia: Sì, io sento molto questa cosa; sicuramente è una riduzione notevole della capacità di rischiare qualcosa della propria esistenza. Come se in qualche modo ci si trovasse già in una condizione di rischio. I ragazzi sono già a rischio, a rischio di non avere lavoro; dunque, se non ho alcuna sicurezza, non metto in conto di dare qualcosa in più per tentare di raggiungere qualcosa di completamente altro. Per questo si privilegia l’inserimento in canali che possano portarti in qualche posto già conosciuto. Questo è l’elemento trasversale. Solo forse qualcuno della nostra generazione si pone in modo un po’ critico, e magari fa della precarietà anche una possibilità e non solo una condanna esistenziale.

Mario: Io, in verità, come dato di esperienza diretta posso notare che nella fascia generazionale con cui vengo a contatto la cosa che balza agli occhi è un’enorme frattura tra il breve tempo in cui loro sono a contatto con loro come professore e il resto della loro vita. C‘è un grande scollamento fra quelli che loro pensano sia la vita e quello che sono obbligati a fare nel sistema in cui si trovano: la scuola. Scollamento fra sistema dei saperi istituzionali e quelle che credono sia le vere esperienze della vita. Già questa costituisce un’enorme frattura. All’interno di questa viene fuori il fatto che loro si sono trovati a crescere in un sistema che li ha posti da subito in un mondo di comunicazione generalizzata, e questa comunicazione ha influito sul modo in cui loro si pongono nella vita. Ad esempio, questa comunicazione generalizzata che li coinvolge fuori e dentro la scuola, questa comunicazione, è appiattita su di una quotidianità di massa molto ben definita. Nei modelli dei media tu hai a che fare con una serie di identità molto ben strutturate. Intendo dire che il loro bagaglio di esperienza è chiaramente filtrato da internet e dalla tv. Si trovano di fronte a tutta una serie di identità professionali o esistenziali ben strutturate. Quando parli con loro di quelle che sono le loro aspettative del futuro, i ragazzi si riferiscono alla figura scientifica, per come è stata filtrata dalla televisione. Ma il modello può essere anche il medico di una serie televisiva, così come l’imprenditore apparso in televisione. Questo comporta che avendo identità già ben strutturate, i ragazzi non riescono a capire come si arriva a costruire questa identità, non arrivano a capire come fare per arrivare a quel punto.

Giulio: Tu dici che i modelli si impongono direttamente sulla loro coscienza…

Mario: Esattamente, quello che a loro manca completamente è la percezione di cosa ci sia dietro questa identità. Noi che proveniamo da un altro tipo di esperienze e che proviamo a fare loro capire cosa può significare costruirsi un’identità e cioè la fatica del lavoro e della propria formazione personale per arrivare a costruirsela. Questo tipo di lavoro non viene percepito da loro. Allora proprio perché c’è questa frattura dei saperi, i ragazzi non s’immaginano che quello che sono obbligati a fare tutti i giorni sia funzionale esattamente a questo obiettivo. Credono piuttosto di avere dei modelli già pronti e questi non hanno nulla a che vedere con quello che loro fanno a scuola.

Pia: Fammi capire meglio, secondo te c’è un collegamento fra le due cose? Io non credo che però possiamo imputare loro questa colpa...

Mario: Anche io non credo che sia colpa loro, però c’è da impostare una riflessione su quello che il sistema dei saperi offre a questi ragazzi. Non imputo a loro una responsabilità particolare per il fatto che avvertono estraneo questo sistema dei saperi.

Giulio: Io credo che questo rifletta una realtà oggettiva.

Mario: Esattamente, secondo me riflette questo. Allora questo tipo di scollamento è da imputare non alla loro superficialità, ma al fatto che noi non siamo più in grado, come sistema, di formare il loro modo di rapportarsi alla realtà. Quindi non esistono più mediazioni. Ognuno sta abbarbicato sulla propria esperienza, per cui io continuo a lamentarmi del fatto che nessuno sa più tradurre dal greco, e non mi interrogo se deve ancora essere veicolato in questo modo il loro rapporto con questo tipo di tradizione istituzionale.

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Giulio: Mario, tu mi porti subito ad un tema che avrei voluto introdurre dopo, ma credo ne possiamo benissimo parlare adesso. Perché oggi insegnare a scuola significa svolgere della formazione in un luogo necessariamente marginale rispetto al sistema che realmente oggi forma i valori su scala di massa. Oggi come professore trascorri alcune ore in una classe, però poi dopo le forze che agiscono sulla coscienza di queste persone come modelli e, dunque, come formazione di senso, sono decisamente più grandi e potenti di quanto possa fare tu in classe.

Mario: Sì io penso che effettivamente le cose stiano così…

Giulio: Sì, diciamo allora che rispetto agli anni sessanta in cui il professore era, nel bene e nel male, il tramite tra te ed un sistema culturale, la differenza è qualitativamente significativa. All’epoca magari potevi anche rifiutare quel modello dottrinario, ma comunque quello incarnava una figura non ignorabile.

Mario: La mediazione funzionava ancora allora…

Giulio: Ho l’impressione che oggi il professore venga considerato dai ragazzi in modo simile ad un funzionario delle poste, cioè come un semplice lavoratore che offre un servizio, ad esempio, spiega, fa la sua lezione, mette i voti. Quando poi tu studente esci dall’aula, la vita vera ed anche la cultura del mondo è tutt’un’altra cosa. Perché tu, invece, Pia fai cenno con la testa che non sei d’accordo?

Pia: Quello su cui credo di non essere d’accordo è la marginalità di cui parli rispetto alla scuola oggi. Però forse avrei bisogno di capire meglio cosa intendi. Io vedo la scuola oggi, come mai, una fabbrica di consenso. Quello che è oggettivamente cambiato negli ultimi anni riguarda l’organizzazione del sistema scolastico, perché le ultime riforme vanno nella direzione della determinazione per numeri, crediti e debiti.

Giulio: Ti riferisci al criterio della misurabilità…

Pia: Sì, la misurabilità, l’efficienza, insomma interessa tutto, fuorché quello che effettivamente accade in classe. Fondamentalmente ciò che conta oggi in una scuola è quanti pof o pon hai fatto, o quante altre attività collaterali fai. Quello che fai in classe, a meno che non sia quantificabile, invece, non interessa a nessuno.

Giulio: Non interessa più il significato dell’esperienza dell’apprendimento e quella dello stare in una classe.

Pia: In questo quadro generale di efficienza, il sistema scuola non è marginale rispetto al resto, la scuola va esattamente nella direzione in cui sta andando la società. In questo senso direi che non è affatto marginale, la scuola fa quello che deve fare. Ha un ruolo ben preciso e, da questo punto di vista, lo compie nel migliore dei modi.

Giulio: Sì io però non intendevo marginale nel senso di essere in opposizione al tipo di sistema entro cui si trova, marginale in quanto non è il più centro di trasmissione della cultura...

Mario: Sì in effetti credo che le cose che dite non sono in contraddizione. State dicendo in pratica la stessa cosa, prendendola da punti diversi.

Giulio: Sì è vero, credo anche io che sia così…

Mario: Cioè, la scuola è marginale rispetto alla produzione di significati, cosa che ancora faceva la scuola del passato. Oggi la scuola si è appiattita su un ingranaggio che funziona esattamente come il sistema esterno alla scuola. Si collega con quello che dice Giulio perché non è più un luogo di produzione di significati, ma veicola dei significati che vengono strutturati al di fuori della scuola, e di cui la scuola è un tramite di diffusione.

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Pia: Direi allora che lo scollamento che esiste, esiste non nel senso che la scuola produce qualcosa di diverso. D’altra parte, per diventare medico basta la funzionalità del sistema, serve essere veloce, efficiente e produttivo; vale a dire laurearti con 100 e andare avanti dritto per la tua strada senza perderti e senza perdere tempo. In questo senso la scuola ti insegna l’efficienza, il criterio del successo.

Giulio: D’altra parte è vero che nel metodo dell’insegnamento e in quello della didattica, ci sono elementi in grado potenzialmente di fare attrito con il regime impostosi all’esterno della scuola, i quali, tuttavia, per via della marginalità dell’esperienza della scuola sono poca cosa, e non riescono a costituire una resistenza effettiva. Oggi, ad esempio, se tu vai a chiedere di fare una ricerca in una classe, cosa che si faceva anche quaranta anni fa, oggi ciò significa spingere i ragazzi ad andare su internet e, dunque, situarsi all’interno di una rete, quella di internet, che di per sé incarna un certo determinato modello di intelligenza e di funzionamento mentale.

Mario: Il motivo per cui sono d’accordo con te quando dici che la scuola è marginale, è che la scuola si limita ormai a seguire a ruota i cambiamenti che accadono e le identità che ne conseguono. Essa veicola qualcosa che non le appartiene più direttamente. E questo è il motivo per cui la scuola non ti fa più capire come si arriva a costruire un’identità, che, in soldoni, vuol dire che quando tu chiedi di fare una ricerca, lo studente si trova praticamente abbandonato di fronte al mezzo, mentre, d’altra parte, nel suo spazio scolastico non acquisisce alcun tipo di competenza che gli permette di fruire in maniera critica di tutto il sistema comunicativo che ha di fronte. Così lo studente riesce ad impacchettare il prodotto, perché lui è a conoscenza di quale sia l’aspetto finale del lavoro, ma non ha più idea tuttavia, di quale siano i contenuti presenti all’interno di questo prodotto. La scuola viene meno su questo piano, proprio perché funziona troppo bene per il sistema. Non ti dà, infatti, ormai alcun tipo di strumento per capire cosa significa strutturare un’identità.

Giulio: Questo è vero.

Pia: Io tuttavia su questo non vedo una grande differenza rispetto al passato. Non penso che rispetto al passato la scuola sia molto diversa…

Giulio: Io credo, ed è quello che avrei voluto dirti già prima, che la differenza di oggi rispetto a ieri, riguarda il ruolo e la presa del simbolico, la quale oggi è di gran lunga inferiore rispetto al passato.

Pia: Beh, il simbolico in effetti non esiste più. Sicuramente c’è un cambiamento rispetto al passato nel senso che oggi abbiamo raggiunto livelli estremi. Oggi la scuola ha perso completamente un suo senso storico.

Giulio: In che senso dici così? Avevo infatti intenzioni di farvi una domanda su questo…

Pia: Credo che ci siano sempre, a scuola, come ovunque, delle possibilità. Anzi, la scuola oggi lascia a noi insegnati effettivamente spazi di libertà grandissima. Tuttavia quello che voglio dire è che un sistema, come quello della scuola, che si pone esplicitamente come obiettivo quello dell’efficienza, e se lo pone assumendo lo studente come cliente da assecondare, è un sistema che ormai ha perso il suo senso originario. Detto questo, vorrei anche aggiungere che il problema della scuola non riguarda forse i ragazzi, ma, piuttosto, la qualità degli insegnanti. Non è una cosa secondaria. C’è nella scuola un concentrato di tutte le sfaccettature possibili della disperazione. La disperazione di chi lavora in queste strutture scolastiche senza avere la preparazione, o la volontà necessarie. I ragazzi, pur volendo, non potrebbero cambiare molto. Per questo, secondo me, è difficile fare un discorso sui ragazzi della scuola non considerando l’altro piano del discorso, quello che riguarda la preparazione e la motivazione dei professori. Che cosa è diventata, infatti, la scuola oggi? La scuola è un luogo di frustrazione generalizzata, abitata da persone che non potevano probabilmente fare altro, e che dunque si sono “accontentate” di questo tipo di lavoro. Non possiamo dimenticarcelo, soprattutto se parliamo di una scuola come quella italiana. Perché questa si è fondata sulle mogli dei professionisti che non potevano dedicarsi nel lavoro che a questo. Se incontro ancora la speranza nelle scuole che frequento, la incontro proprio nei professori di vecchia generazione, quelli che stanno alle soglie della pensione. Per la maggior parte dei professori, infatti, i ragazzi stessi sono trasparenti. La scuola è un luogo per loro di deresponsabilizzazione totale. Perché alla fine tu a chi devi dare conto?

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Giulio: Ma d’altra parte a chi potresti mai dare conto?

Pia: Sì, aspetta, non sto dicendo questo, infatti. Per me non dovresti dare conto a nessuno, perché è chiaro che sarebbe gravissimo il contrario, cioè il sistema di controllo sui docenti. Però sta di fatto che non dai conto a nessuno del modo in cui agisci, anche tu professore ti trovi in uno stato di eterna adolescenza. Questo, tuttavia, non inficia il fatto che puoi riuscire anche a fare delle cose meravigliose, per cui la scuola comunque è per me un posto meraviglioso. Certe volte ti chiedi se possa esistere un lavoro più bello. Forse soprattutto per i precari, no; quelli di ruolo mi sembrano già tutti più inquadrati e stanchi.

Giulio: Ma quanto si riesce a vedere, al di là dell’alunno che si ha davanti, il ragazzo, cioè il giovane adolescente che vive una condizione complessa, impegnato a crescere? Loro stessi riescono ad aprirsi a farsi vedere da voi in classe?

Mario: Si sì ci riescono. Secondo me riescono molto in questo. Io credo di avere un confronto molto esplicito con i ragazzi, che riesco a costruire anche per via del mio carattere. Collegandomi a quello che dice Pia, io aggiungerei che io vivo la mia condizione di precario, proprio in questo senso, cioè nel senso di interpretare controcorrente la condizione di insegnante. Non sentendomi, infatti, parte di questo sistema, trovandomene al limite, mi permetto di fare del lavoro qualcosa di poco funzionale all’idea dominante di scuola. Questa condizione mi consente ...

Giulio: ...di stare fuori dalla classica contrapposizione fra insegnante e studenti.

Mario: Sì, è come se pretendessi di avere un occhio dentro ed uno fuori, perché in fondo non mi sento parte integrante del “sistema scuola”. Forse anche per questa ragione i ragazzi arrivano a confidarmi di sentire un profondo senso di estraneità rispetto ai miei colleghi all’interno della scuola, e nei confronti di quello che loro sanno che è il loro dovere imposto dalle famiglie, dalle leggi, dalla routine della quotidianità. Lo scollamento, di cui dicevo prima, è una cosa che io vivo proprio attraverso la manifestazione dei loro sentimenti…

Giulio: Ascolta, ma tu, al di là dell’età che hai, quanto riesci a sentirti vicino alla loro condizione generazionale? Alla loro età, quanto eravate come loro? Io ad esempio, dai ragazzi, a cui ho fatto lezione, mi sento molto lontano, per quanto non abbia più di dieci anni di differenza.

Mario: Io, ad esempio, mi sento molto lontano, perché io ho fruito di un sistema completamente diverso.

Giulio: Cioè, in che senso?

Mario: Io ho vissuto una scuola che mi ha insegnato esattamente quello che dicevo prima, cioè come si costruisce un ‘identità, e la fatica che c’è dietro la ricerca di una identità. Io ho vissuto un modello di scuola estremamente positivo.

Giulio: In che senso positivo?

Mario: Positivo nel senso che mi ha permesso di sviluppare un rapporto molto critico con la realtà. Io ho vissuto con gente che era consapevole della criticità del proprio ruolo educativo, e che, anche se mi ha insegnato una criticità ben determinata (ad esempio il mio vecchio professore marxista), io sono stato in grado di fare di quel tipo di identità quello che ne volevo, avendomi fornito un certo numero di strumenti di interpretazione del mondo.

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Giulio: Invece, rispetto all’identità che riesci ad esercitare su di loro come professore, credi ci sia ancora un’autorità che sei in grado di esercitare?

Mario: No, su questo devo ammettere che io stesso faccia fatica ad esercitarla. Ammetto che da questo punto di vista le cose ti sfuggono da molte parti, perché d’altra parte hai a che fare con qualcosa che è molto più grande di te. Cioè, tu non pensi di poter cambiare molto il modo in cui un ragazzo sta venendo su. Questo l’avverto con chiarezza, e questo è legato ad un profondo senso di impotenza. Non riesci più veramente ad avere un ruolo attivo nella loro formazione.

Giulio: E questo lo legheresti anche al discorso di prima, relativa a quanta parte ha la scuola oggi nella formazione di un ragazzo di oggi rispetto a quanta ne ha invece tutto il resto?

Mario: Sì credo di sì.

Giovanna: Io volevo intervenire su una cosa, per quanto io viva un’esperienza un po’ diversa, non avendo mai insegnato a scuola, ma avendo seguito degli alunni solo privatamente. E infatti io ho una prospettiva molto diversa, rispetto a quella che stavate raccontando. Io mi trovo ad andare nelle famiglie di questa persone, e così facendo mi accorgo che c’è stato un cambiamento profondo nella scuola. Ma parallelamente osservo anche un enorme cambiamento relativo alla famiglia. Io che vado a fare lezione a casa dei ragazzi, paradossalmente mi sento invece molto vicina a loro, perché avverto che ci sono delle dinamiche che non sono poi così cambiate, rispetto a tutto quello che questi vivono nel periodo dell’adolescenza: l’amore, l’amicizia, e tutto il resto delle cose che vivevamo anche noi. Quello che, invece, sento come differenza è la separazione molto netta tra la questione del sogno e quella del contesto formativo. Quando si parla di sogno l’elemento fondamentale che resta tuttora è la differenza sociale che sussiste fra le diverse famiglie. Sì è vero che c’è una corsa da parte di chi vuole realizzare un sogno, ma è pur vero che per me quello non si può chiamare più sogno. Il sogno ha piuttosto il senso di attrezzarsi per riuscire in quello che i ragazzi vorrebbero fare da grandi, secondo un modello magari veicolato dai media. Ad esempio vogliono diventare medico? Non considerano proprio l’importanza della formazione che stanno ricevendo a scuola. Vanno su internet, si industriano nel vedere le università migliori dove potranno andare, o addirittura si vanno a vedere i video su You Tube. Io, ad esempio, vado a fare lezione da una ragazza che vuole diventare medico e lei ha già cominciato ancor prima di finire la scuola, almeno due anni prima, a prepararsi per i test d’ingresso a medicina, partecipando, inoltre, agli incontri organizzati dall’università di medicina un anno prima per la visione dei test. Oppure si connette su internet e si vede i video su You Tube delle operazioni in diretta. Altro esempio, invece, un’altra ragazzina vuole diventare nutrizionista, e non gliene frega proprio di quello che a scuola le stanno passando. Si va ad informare su tutt’altri canali. Se vogliono realizzare un sogno, le persone a cui faccio lezione io, si attrezzano in modo completamente diverso per realizzare quello che, tuttavia, non è più un sogno. Non è un sogno perché non è un qualcosa che tenteranno di fare comunque. Se ci provano è su basi molto solide, su basi che però loro ritengono non sia la scuola a dargli. Un altro discorso parallelo invece riguarda tutti quelli che ambiscono a realizzare qualcosa che va completamene controcorrente dell’immaginario dei propri genitori. Molti dei genitori di questi ragazzi credono ancora che si possa diventare avvocati, medici, professori.

Giulio: ...Che si possa, insomma, trovare un lavoro stabile.

Giovanna: ...e quindi spingono il ragazzo o la ragazza a fare questa o quell’altra cosa. I ragazzi, invece, vorrebbero realizzare dei sogni molto più semplici, vorrebbero fare delle cose che, in realtà, sono semplicemente poter fare qualcosa per disegnare, o scrivere o avere un posto per stare tranquilli e farsi una famiglia. C’è quindi anche un dislivello fortissimo fra i sogni della famiglia e quello che i ragazzi vorrebbero fare e che considerano possibile per via, anche, dei nuovi mezzi di comunicazione. Loro, ad esempio, sanno che potrebbero diventare anche disegnatori in qualche studio di architetto o di moda, la qual cosa, però, contrasta con l’immaginario sociale che ancora dice: ”No tu devi puntare al master in questa cosa, proseguire il tuo percorso di iper-specializzazione”. Questo riguardo alla questione del sogno e alla differenza fra le due prospettive ben presenti nella condizione sociale della famiglia. Oltre a questi, non vorrei dimenticare quei ragazzi che il problema del sogno non se lo pongono proprio, perché si sentono completamente tutelati dalla famiglia di provenienza, la quale gli garantisce di andare alla scuola dove conseguiranno un diploma più importante degli altri, o l’eredità dell’attività di famiglia per il futuro. Per cui, anche se sbandano durante la loro crescita, poi possono sempre recuperare e tornare all’ovile della famiglia. Insomma rispetto al tema del sogno, credo ci sia davvero una molteplicità di prospettive da considerare.

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Quanto invece ai contenuti della formazione, da tutto quello che e vedo e da quello che i ragazzi mi raccontano, il discorso è diverso. Essendo la loro insegnante privata, i ragazzi entrano con me in una relazione molto confidenziale. Mi raccontano molto dei loro professori. Dal loro punto di vista quello che passano i professori, è quasi pari a zero; c’è una frammentazione totale di quello che apprendono e i ragazzi sono molto critici nei confronti del sistema. Si sentono come il dipendente messo a lavorare nel posto dove non c’è la fotocopiatrice, non ci sono le sedie. Per loro cosa rappresenta questo? Non solo il disagio legato alla condizione materiale (non avere i banchi ad esempio, o cose simili), ma quello relativo al fatto che i professori con cui loro cominciano un percorso, l’anno prossimo non saranno quasi sicuramente più quelli. La maggior parte dei professori di scuola dei miei alunni, infatti, l’anno dopo non avrà gli stessi professori. Allora loro si pongono la domanda: che linea devo seguire a scuola? In questo modo la scuola diventa semplicemente un luogo di relazione. Cioè, se sei un ragazzo, esci da casa, vai a scuola ed incontri gli amici. Avendo fatto esperienza nelle scuole di Ponticelli e Barra, dove ho svolto progetti formativi extra scolastici, credevo che il senso della scuola potesse essere almeno quello di non far stare i ragazzi per la strada e dare loro un contesto per la socializzazione. Invece i ragazzi che fanno? Vanno a scuola per avere una relazione tra di loro, poi il contenuto lo assumono e lo creano fuori dalla scuola e molto spesso attraverso i nuovi mezzi di virtualità. Quante volte mi sono trovata a casa di questi ragazzi che non conoscevano l’assegno, e si dovevano connettere al gruppo di amici su facebook dove c’erano tutti i loro scambi di informazioni, giochi, scherzi, insomma il contenuto della loro relazione? I ragazzi sono ancora interessati ad essere in un gruppo, a riuscire ad avere qualche relazione, ma il gruppo scuola gli serve sostanzialmente per avere una relazione durante le interminabili ore di scuole, o in quei momenti eccezionali che si creano quando un professore ogni tanto non c’è, o si creano dei buchi o hanno supplenza. Per questo loro si mettono in relazione in classe. Ma il contenuto poi se lo passano, se sono interessati a passarselo, (molte volte finisce coll’essere solo relativo al compito, all’interrogazione e a cose specifiche di scuola) con un tipo diverso di comunicazione, la comunicazione, cioè, tramite internet. In questo modo avviene la loro comunicazione. Non c’è un sogno coltivato in relazione alla formazione, il loro sogno è coltivato fuori e spesso in opposizione alla famiglia. Chiaramente anche in opposizione al sistema, per cui in quei pochi casi dove ci sono dei sistemi scolastici più solidi, non so se, invece, lì riescono ancora a formare dei sogni. Sogni del tipo “Voglio diventare un professore di lettere, un biologo, uno studioso”.

Giulio: C’è una cosa a cui pensavo anche prima, ascoltando Mario. Molti ragazzi dicono di voler diventare qualcuno o entrare in quella particolare professione. Ma direi che il sogno non ha mai a che fare con un’idea, perché ha sempre a che fare con l’idea di diventare qualcosa, cioè di fare qualcosa, ma il sogno in un senso più ampio ha a che fare anche soltanto con un’idea o con un’immaginazione…

Pia: …e poi loro hanno l’idea che il sogno è qualcosa che si deve realizzare, e già questo…

Giulio: Infatti, e già questo cambia molto la natura del sogno. Non voglio neanche tradurre sogno per forza in un senso ideologico, ma sogno anche solo come aspettativa. Un’aspettativa non di assumere una certa posizione nel mondo, ma aspettativa di sentire, di ritrovare un certo senso nelle cose.

Mario: Io direi che oggi manca il provare ad essere all’altezza di qualcosa…

Giulio: Non solo questo, manca proprio il sogno di una vita, nel senso l’idea di una vita. Non diventare questo o quello, ma riuscire ad esprimere qualcosa nella propria vita, indipendentemente poi da cosa si faccia. Il sogno di un scrittore non è mai quello di scrivere, come se la scrittura fosse l’unica forma in cui si riconosce, ma quello di riuscire ad esprimersi, ed essere se stesso, per via della scrittura o meno. Questa tratto di professionalizzazione e divisione del lavoro già nella dimensione del sogno è la vera follia

Pia: Io in questo senso dicevo prima che a diciassette anni se una ragazza mi dice “io sogno di diventare nutrizionista”, già mi viene il dubbio che si tratti di un sogno. Se un alunna mi viene a dire questo, già io provo a capire come mettere in discussione questa cosa.

Giulio: Ma voi riuscite a parlare di questo con loro in classe?

Mario: Sì, si riesce…

Pia: Sì, ci puoi riuscire.

Giulio: E i ragazzi come lo vivono questo?

Pia: Spesso mi è capitato che da questi discorsi venissero fuori altre cose; in questo senso dico che non si può credere ad un annientamento completo del sogno. In un certo senso i ragazzi sognano ancora, nonostante ti dicano che al massimo desiderano diventare medici, avvocati, e cose di questo tipo. Ma a chi lo vai a raccontare? È raro che un ragazzo realmente senta questa cosa. Lo dice ma non è detto che lo senta. A volte se scavi un po’ escono fuori altre cose. A volte c’è, ad esempio, l’idea che la realizzazione è riservata all’hobby, o al tempo libero. E lì vedi anche l’incapacità di contrapporsi che oggi caratterizza i ragazzi. Io su questo sono molto dura. La mia conflittualità con loro è soprattutto su questo. Sulla loro incapacità di contrapporsi, e in particolare alle loro famiglie. In questo, tra l’altro, vedo una grande diversità rispetto al passato. Le dinamiche e le relazioni sono sicuramente cambiate. D’altra parte cosa è la scuola? La scuola non è che un luogo di relazioni. Solo che prima si incontravano a scuola persone migliori rispetto ad oggi… ecco, forse è solo questo! Oggi forse il problema è che non incontri vere diversità nelle scuole dove ti trovi ad andare. Probabilmente in questo senso c’erano opportunità maggiori prima rispetto ad adesso. Ma soltanto perché il caso ti metteva di fronte a persone più differenti, variegate, quindi interessanti; adesso, invece, ti confronti solo con l’identico.

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Giulio: A questo proposito, vi domanderei se voi sentite di aver a che fare con delle classi o se, invece, con singoli individui che raramente si sentono uniti nella loro condizione di gruppo?

Mario: Da questo punto di vista devo ammettere che non noto una grandissima differenza rispetto alla mia condizione di studente.

Giulio: Cioè cosa avverti?

Mario: Rispetto a questo punto io ho a che fare sia con gruppi che hanno una loro identità di gruppo, sia con accorpamenti più innaturali. Ma non noto un grande stacco rispetto alla mia esperienza di allora.

Giulio: Tu non noti l’affermarsi di una certa prospettiva individualista, ad esempio?

Mario: No, sinceramente no. Su questo non accentuerei le differenze, almeno sulla base della mia l’esperienza.

Giulio: Con o senza facebook quindi?

Mario: Sì, con o senza facebook. Ciò che emerge è quello che diceva lei prima, e cioè che, rispetto alla mia esperienza di sedicenne o diciassettenne, vi è sicuramente una riduzione del carattere molteplice dei rapporti sociali, cioè c’è un maggiore senso di omologazione. La comunicazione generalizzata ti porta al fatto che circolino sempre gli stessi elementi. Non c’è più quello che approfondisce e scambia con gli altri le proprie esperienze d’approfondimento. Ormai, proprio perché tu hai a che fare con una comunicazione che avviene attraverso il mezzo, o stai di fronte al mezzo o approfondisci. Se sei sempre di fronte al mezzo, circolano sempre le stesse notizie. Allora quello che noto è un appiattimento di questo tipo, tanto è che nelle classi in cui io trovo l’elemento strano, la ragazza, ad esempio, che oltre alla scuola suona anche al conservatorio, questo è spesso il soggetto isolato. Invece io mi ricordo che ai nostri tempi era molto ben visto il ragazzo che metteva su il gruppo, quello a cui piaceva dipingere. Adesso, invece, queste esperienze sono marginali e così vengono avvertite. Il resto è appiattito su un livello molto più commerciale e facilmente riconoscibile. Questi sono ancora settori di nicchia, i quali vengono considerati qualcosa di completamente diverso. Il ragazzo, ad esempio che sta a casa a provare cinque ore pianoforte viene visto come un marziano. Come si fa a fare uno sforzo - addirittura di cinque ore! - che sottrai alle relazioni con gli altri, a internet e tutto il resto? E questo che loro considerano quanto di più anormale possa esserci.

Giulio: D’altra parte io direi che entrare in una classe oggi il primo giorno e avere la possibilità di inserire fin dal primo giorno tutti i propri compagni di classe su facebook, costituisce un’esperienza diversa della classe, rispetto a quella che si poteva fare ancora dieci anni fa. Apparentemente ti lega di più, però ti manca la mediazione di conoscere prima alcuni, poi altri, seguire un percorso anche nella tua conoscenza degli altri. Fai tutto talmente subito, che finisci con il non fare nulla...

Pia: Secondo me, invece, rispetto all’esclusione, oggi ce ne è meno che prima.

Giulio: Forse anche perché ci sono meno contrapposizioni nette?

Pia: Mah, quello che dicevo prima è che è decisiva, per capire l’assenza di conflittualità con i genitori, l’assenza di conflittualità con gli insegnanti. Questi non litigano con nessuno, non si prendono una questione con nessuno. Lo fanno sempre fino ad un certo punto, lo fanno solo se schermati, se poi alla fine possono pararsi.

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Giulio: Non c’è più quindi l’assunzione del rischio... ma a proposito, invece, del rapporto con i genitori di questi ragazzi... Io per un certo periodo ho creduto che l’istituzione della famiglia, per varie ragioni si stesse disgregando, e che si andassero allentando un certo tipo di imposizioni e repressioni. D’altra parte, nell’ultimo periodo mi vado convincendo che questa disgregazione c’è, dal punto di vista della famiglia come contenitore, ma che anzi, paradossalmente, proprio questa crisi produce un maggiore appiattimento dei figli sul punto di vista dei genitori. I ragazzi si aggrappano ai pezzi in frantumi del contenitore che si è rotto. Così però si elimina lo scarto, la differenza ideologica fra sé e i propri genitori…

Pia: La crescita, d’altra parte, c’è solo se c’è lo scarto. Secondo me se nella famiglia non c’è una conflittualità interna, vuol dire che la famiglia non ha senso. La famiglia ha potuto avere storicamente un senso perché aveva la conflittualità dentro. La nuova generazione, rispetto alla condizione dei propri genitori, presenta una grandissima differenza quanto ai mezzi che ha a disposizione e c’è da questo punto di vista una mutazione anche, se vogliamo, antropologica, però poi dal punto di vista del simbolico e culturale, lo scarto si è ridotto.

Giovanna: Il punto è che i genitori hanno una paura incredibile…

Giulio: In che senso?

Giovanna: Nel senso che i genitori hanno paura che tutto quello che possono fare possa ledere, dal punto di vista psicologico, i figli. Fanno gestire le lezioni private ai loro figli, se i figli hanno bisogno di qualcosa, subito li accontentano, e se questi hanno qualche problema immediatamente li mandano dallo psicologo. Insomma i figli di oggi sono endemicamente viziati. I genitori hanno paura. Io ho incontrato molto famiglie abbastanza classiche, dove comune denominatore era la preoccupazione. Quando ad esempio tu ti lamenti con il genitore di come il figlio si comporta, spesso il genitore ha paura di dirlo al figlio. Molto spesso, anche per cose che non riguardano strettamente la scuola, chiedono a te di capire cosa abbia il ragazzo, quale sia il problema. Prima se non c’era il padre come figura autoritaria, almeno la madre suppliva. Oggi, invece, o sono preoccupati ai massimi livelli perché temono che il ragazzo si possa perdere in qualche modo, o magari andare in depressione o avere una delle 350 malattie che si possono avere, dai problemi alimentari alle questioni legate al bullismo o alle violenze. I genitori sono profondamente impauriti e quindi condizionati da ciò che può succedere ai figli. Hanno un atteggiamento nei confronti dei figli che è di paura, non riescono ad imporre un percorso o un certo modo di fare. Ad esempio non riescono quasi mai a dire ai loro figli: “Devi essere in un certo modo, a scuola devi andarci tutti i giorni, devi farti interrogare”. D’altro canto anche i professori a scuola ci mettono il loro. E quindi i ragazzi vivono una condizione di psicologizzazione da entrambi i lati, sia da parte della famiglia, che da parte della scuola. I ragazzi avvertono questo e dov’è che giocano? Giocano sul minore impegno possibile nel lavoro a scuola. Ma è proprio perché c’è intorno un livello esasperato di paura, rispetto al fatto di dire anche un solo no da parte dei genitori.

Giulio: C’è un problema nel vivere il conflitto anche da parte dei genitori…

Giovanna: Esattamente perché oggi comunemente, ad esempio, se dico che se non vai bene a scuola non esci, io genitore non riesco quasi mai a mantenere questa norma. Perché non ce la faccio a non farti uscire. Oppure la punizione classica degli ultimi anni. “Non usi facebook per una settimana”. Ma alla fine la norma dura due o tre giorni, perché alla fine la ragazza o il ragazzo va in confusione e fa la parte di quello un po’ depresso, e il genitore non ce la fa. I professori a scuola non insegnano più delle cose, ma raccontano la loro vita personale; d’altra parte, in famiglia, i genitori non riescono mai a tenere il punto.

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Giulio: Sembra quasi che i ragazzi non abbiano più paura di alcuna autorità…

Giovanna: Loro fanno leva sul fatto, addirittura, che ci sono equilibri nella scuola per cui non possono esserci troppi bocciati in una certa scuola o in una certa classe, altrimenti i professori perderebbero il lavoro. Loro sono molto attenti a questo tipo di dinamiche, e ne approfittano, sia in senso negativo che positivo. Sono in generale molto astuti, anche nel modo in cui si formano le loro relazioni, anche nella loro classe. Tuttavia le loro relazioni sono molto frammentate, e facebook ne è la prova. I ragazzi oggi hanno ormai un altro modo di avere relazioni.

Giulio: Ma il loro senso di appartenenza qual è? In cosa risiede? È ancora presente? Secondo me questo è un tema chiave, e per questa ragione quest’estate faremo un breve documentario ponendo al centro proprio questo tema, il tema dell’appartenenza. Tenendo insieme infatti una serie di cose che ci stiamo dicendo adesso, forse un comune denominatore è proprio che la persone singola oggi si sente slegata idealmente, materialmente, dai contesti pubblici e contesti simbolici. Secondo me questo è un tema chiave.

Mario: C’è un senso di appartenenza che secondo me è molto meno rigido…

Giulio: ma si tratta comunque di appartenenza?

Mario: Sì è comunque appartenenza, anche se un’appartenenza più di superficie, un’appartenenza che si disfa continuamente. Un appartenenza molto più precaria...

Giulio: Liquida…

Mario: Sì non volevo dire questa cosa perché non volevo riprendere Bauman. Questo tipo nuovo di appartenenza in superficie può avere un effetto vantaggioso. È difficile, ormai, infatti, che io mi trovi effettivamente da solo. Dall’altro lato, però, l’aspetto drammatico è che questi ragazzi, poiché non sono scemi, e quindi un momento di crisi vera capita anche nella loro vita, prima o poi se ne rendono conto. In questa circostanza diviene chiaro anche per loro il carattere effimero della costruzione della loro appartenenza fino a quel momento. Certo se poi ti vai a domandare se questi ragazzi hanno la forza di costruirsi qualcosa di diverso da quello che si ritrovano, la risposta nella stragrande maggioranza dei casi è negativa.

Giulio: che valori ti dà questo tipo di appartenenza?

Mario: È una condivisione immediata della socialità.

Giulio: Sì ma che valori ti dà quest’appartenenza più disorganica, liquida?

Mario: Secondo me ti dà una riconoscibilità molto più semplice, alla fine è quel tipo di socialità spicciola, quotidiana che ti serve per andare avanti.

Giulio: Ma questa socialità forma dei valori?

Mario: No, perciò dico che anche loro capiscono da soli, senza che glielo devi insegnare tu, la qualità di quello che vivono. La ragazza che vive un momento particolare della sua vita, perché ha subito un tradimento nell’amicizia, o sta vivendo una situazione di crisi familiare si rende conto di aver costruito una rete molto effimera. Non è che glielo devi spiegare tu, emerge dalla discussione stessa con i ragazzi. Quanta forza abbia poi di costruire qualcosa di completamente diverso, è un altro discorso. Non ce l’ha, perché non è attrezzato ed è molto più spaventato, perché, nella maggior parte dei casi, non ha proprio elementi a cui aggrapparsi.

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Giulio: Ma tu invidi qualcosa a loro, rispetto a quello che tu, nella tua esperienza formativa, hai vissuto?

Mario: No.

Giulio: E voi?

Pia: Sì, la possibilità di viaggiare con molti meno soldi! A parte questo non molto altro...

Giovanna: Io vorrei aggiungere una cosa rispetto a questo nuovo tipo di socializzazione e di consumo. Una delle cause di questo è che io non riesco a credere che tutto il tempo che questi vivono su internet e su facebook (e torno su questo perché loro oggi si collegano tantissimo, ci sono sul telefonino, o da casa) non influenzi il modo in cui sono. Il punto chiave è che tu puoi creare tranquillamente delle relazioni basate sull’interesse. Ma non dico solo interesse personale. Ad esempio, se mi piace suonare il sax, allora posso facilmente trovare un gruppo su facebook di gente che s’interessa anch’essa al sax, persone che magari non s’incontreranno mai dal vivo, ma che sulla rete si scambiano informazioni. D’altra parte però, se mi piace il cinema, posso al tempo stesso iscrivermi ad un altro gruppo, quello che ha il cinema come tema. Allora che succede, qual è la differenza rispetto alla mia esperienza di ragazza? Tu prima cercavi l’amica, o il gruppetto con cui ti vivevi tutta una serie di cose diverse, con cui alla fine ti piaceva stare pure senza fare qualcosa in particolare. Oggi, invece, tutto è molto, molto più…

Giulio: ...focalizzato ad uno scopo specifico…

Giovanna: Il gruppo di classe ad esempio, è il gruppo di classe. È quello con cui posso avere una certa relazione, legata ad un certo momento e ad una certa cosa. Poi ci sta il gruppo dell’interesse specifico, e il gruppo delle cugine, e il gruppo della piscina. Quindi alla fine tu vivi una frammentazione, che chiaramente non ti mette più a contatto con il diverso. In questo modo io posso scegliere di non stare mai con il diverso, perché ogni volta posso scegliere qualcuno che mi corrisponda in qualche cosa e averci a che fare solo rispetto a quella cosa specifica.

Giulio: Certo, è vero. Cercare qualcuno che mi sia simile e stare con questo soltanto rispetto a quella cosa particolare.

Giovanna: Sì, dopo di che, cosa succede alla fine?...

Pia: D’altra parte questa è una situazione assolutamente generalizzata, è una dinamica che è piombata addosso a tutti, indipendentemente dall’età.

Giulio: E pensa però alla capacità di un quindicenne di affrontare questo cambiamento culturale…

Mario: Io direi soprattutto che ha preso il ragazzo e il genitore del ragazzo insieme.

Pia: Certo, i genitori poi sono i peggiori. E d’altra parte a questo punto bisognerebbe dire che la vera responsabilità è quella della scuola di trenta anni fa. Perché voglio dire, se poi girando intorno vediamo che un certo tipo di modello di psicologizzazione è quello dell’insegnante così come è quello del genitore allora il problema è capire cosa è successo trenta anni fa nella scuola e nella società.

Mario: Quello che dice Pia è vero.

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Giulio: Io credo che il modello europeo o il modello occidentale di questa settorializzazione degli interessi della vita è fortissimo. Tu ormai gestisci la tua giornata in modo da andare in alcuni luoghi solo con alcune persone e solo per un certo tempo; dopo di che quelle persone poi non le vedi più fuori da quei luoghi. La tua vita è organizzata non più in base agli spazi della tua giornata. Faccio l’esempio del condominio, che è familiare a tutti. Nel condominio ci sta chi è simile a me e con cui riesco a parlare, e chi vive tutt’un’altra esperienza di vita, con cui non saprei cosa dirmi. Però vivono tutti il tuo stesso luogo. E prima nei condomini si organizzavano le serate. I condomini per dire le case, come le strade, i quartieri, riuscivano, nel bene e nel male, a mettere in comunicazione anche persone differenti. Oggi se fai un gruppo su internet per interessi e ti vedi solo con loro, confermi sempre e solo una certa parte di te. Più che svilupparti ti dai continue confermi di quello che credi di essere. Quello che si perde inevitabilmente è una conoscenza più variegata della realtà sociale in cui vivi.

Giovanna: E questo ha a che fare sicuramente con la riduzione di quella capacità di vivere la conflittualità, di cui dicevamo prima.

Giulio: Infatti…

Giovanna: Ad esempio, avendo ormai tutti un telefonino, anche quando sono in classe loro non sempre ci sono. Se ad esempio nasce un problema con il compagno di banco, loro sul telefonino mandano il messaggio all’amico o all’amica che si trova altrove. Allora, non riesci ovviamente a vivere in modo individuale, ed hai bisogno della relazione. Soltanto che ormai la cerchi laddove è più facile; il fuggire da una situazione conflittuale può essere fatto rifugiandoti nei messaggi del telefonino. Oppure, hai litigato con i tuoi genitori, ma poi vai su internet e ti trovi la via di fuga. Dove la risolvi la tua conflittualità? Non hai ormai il problema di rimanere solo, cioè al momento il problema non lo avverti più. Lo avverti magari in alcuni momenti significativi della tua vita, in cui poi ti rendi conto di certe cose.

Giulio: La solitudine non è più un’esperienza percepita…

Giovanna: Sì, ma perché vedi, la domanda che tu facevi sul senso di appartenenza, secondo me è interessante tanto quanto: qual è invece il tuo senso di fuga? Cosa significa oggi fuggire? Per me ad esempio, quando andavo a scuola, fuggire poteva significare anche fare un filone.

Giulio: Certo…

Giovanna: C’era un senso di fuga, un senso di evasione, anche magari dalla noia della giornata scolastica. Del tipo sono dovuto stare tante ore a scuola, ma poi magari me ne vado a suonare con il mio gruppo il pomeriggio perché è un momento di fuga. Qual è il tuo senso di fuga adesso? Se è così normale, tanto che non è più chiamata fuga, allora qual è la fuga, dov’è l’immaginazione del fuori?

Giulio: L’istituzionalizzazione della fuga…

Pia: e del tempo libero!

Giovanna: Tu puoi fuggire ormai tranquillamente anche dalle interrogazioni, perché ormai i professori hanno le interrogazioni programmate (cosa che può essere anche bellissima), d’altra parte, ogni professore ti concede due giustifiche al mese o al quadrimestre.

Pia: Poi hai l’appoggio della scuola ad entrare dopo o uscire prima, e se neanche quello hai, il genitore ti viene a prendere. Quindi… non c’è problema!

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Giulio: Io avrei soltanto un‘ultima cosa da domandarvi. Forse è una domanda un po’ estranea a quello che stavamo dicendo fino a questo punto... Ma quanto credete che un giovane di oggi di sedici anni si interessi al passato? Intendo il passato come una dimensione generale, il passato della sua scuola, o quello della sua città, o il passato in generale. Io personalmente, ad esempio, credo che il problema del sogno riguardi anche il problema della memoria. La memoria oggi non è più una necessità. Il computer ricorda al posto tuo. Io ricordo - a proposito di memoria! - questa intuizione di Pasolini quando scriveva dell’inutilità di far studiare ormai la storia, quando ormai nessuno si pone di fronte a sé e al mondo da una prospettiva storica. Storica, nel senso che le cose oggi sono così, ieri erano diverse, e domani ancora andranno diversamente. Ad esempio, se è vero come diceva un noto storico, che nessuno è soddisfatto di come si studia la storia, è ancora più vero oggi che nessuno riesce ormai più a studiare storia. Perché nessuno riesce più a capire che senso reale possa avere.

Pia: E infatti è la cosa più difficile da insegnare…

Giulio: La cosa più difficile è insegnare la propria materia dal punto di vista della storia.

Pia: La prospettiva storica è stata completamente annullata, insieme alla prospettiva dell’irreversibilità. Il fatto cioè che ci siano delle conseguenze per le tue azioni, che ciò che fai ha comunque sempre una ricaduta. Fai delle cose e le cose hanno una ricaduta su di te.

Giulio: Cioè anche che le cose si possano perdere…

Pia: Sì che le cose si possono perdere, che ci siano delle conseguenze rispetto a delle tue azioni. Come se tutto fosse cancellabile, ripetibile, e non ci fosse nessun evento oggettivo che sta là rispetto alla loro esperienza. A tutto si può porre rimedio, così sembra loro il più delle volte.

Giulio: Come se sempre si potesse tornare indietro.

Pia: Come se sempre…

Giulio: …insomma una grande rimozione della morte...

Pia: Sicuramente, sì, sicuramente. Qualunque cosa accada sembra ci sia sempre una possibilità del rimedio, dalla cosa più semplice a quella più significativa. Non c’è mai definitività nella loro percezione.

Giulio: D’altra parte se tu ti formi da quindici anni con l’idea che scrivi una frase e dopo ci inserisci un emoticon per confermare o smentire quello che hai appena scritto, vuol dire che la frase stessa ha ormai perso qualunque serietà. Devi subito aggiungerle qualcosa d’altro, una pseudo espressione emotiva relativa a quello che hai scritto o detto, cosa che in realtà esprime la tua scissione.

Pia: Lo avverti, ad esempio, moltissimo nelle relazioni. Il senso di rimedi abilità a tutto, come se non ci fosse più alcuna forma di perdita definitiva...

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Giulio: D’altra parte cosa è la virtualità, se non questo? E l’esperienza dell’irrimediabilità non è un’esperienza che si impara fondamentalmente dal proprio corpo? Il nostro corpo è qualcosa che non si ricostruisce, il corpo invecchia. Perdere il contatto con la relazione corporea, se il tuo corpo non è più una parte così importante nella relazione che hai con l’altro (dove corpo vuol dire essenzialmente comunicazione corporea) la tua parte finita viene tralasciata rispetto all’illusione di stare vivendo in un’eterea astrazione di parole. Oggi, d’altra parte, la maggior parte delle persone si forma nelle relazioni sociali un’idea dell’altro completamente astratta dal contatto corporeo. Non ci sono più né amori né relazioni che non nascano, fra chi oggi ha quindici anni, anche e soprattutto attraverso internet.

Pia: Ma anche quando nascono al di fuori, la virtualità è presente comunque... credo si tratti di fenomeni anche più intimi e profondi.

Giulio: Infatti però è vero che internet lo riflette molto bene; è vero, internet non è soltanto il produttore di questo fenomeno, lo riflette anche. Ovviamente, però, riflettendolo, lo incentiva. Per cui oggi la relazione ha un'altra natura, nasce e si sviluppa su altre basi. Parlavamo di queste cose nel gruppo di cui vi dicevo prima, su Esperienza e rappresentazione. Dicevamo l’altra volta, due persone sedute ad un tavolo oggi rispetto a due persone sedute allo stesso tavolo alcuni decenni fa, hanno una forma di comunicazione del tutto diversa. Nel passato, la comunicazione avveniva, nel bene o nel male, in un modo più globale. Le parole non erano gli elementi essenziali della comunicazione. Si usavano meno parole, anche perché lo stesso vocabolario era molto più limitato rispetto a quello medio di oggi. Però il corpo risuonava di più, la comunicazione era senz’altro una comunicazione più diretta, immediata. Oggi tutto viene mentalizzato di più, è portato più in alto, verso l’intelletto e l’espressione verbale; la comunicazione di oggi ha un carattere molto più rappresentativo di prima. Cioè io, se devo dirti una cosa, te la scrivo per mail, o per messaggio. Mentre prima se ti dicevo una cosa, l’espressione e il modo in cui te la dicevo condizionavano tutto il senso della comunicazione. Il contenuto della comunicazione lo si vedeva al di là di ciò che si esprimeva nelle parole. La comunicazione quindi avveniva al di là del cosciente, al di là della rappresentazione. Oggi secondo me la virtualità seziona molto questa parte della comunicazione e la fa diventare la comunicazione. Per cui anche noi qui che non stiamo utilizzando adesso internet, abbiamo, tuttavia, un modo di comunicare intrecciato a questa forma rappresentativa del comunicare, che dà in effetti più valore all’astratto del dire che alla semplice presenza espressiva umana. Oggi secondo me un ragazzo di quindici anni ha difficoltà a stare fermo qui in silenzio, se gli poni delle domande o se ti deve dire delle cose. Il ragazzo dice delle cose comunque, senza porsi neanche il problema di cosa dice o non dice. Ha tante carte da potersi giocare. Quando si dice che i ragazzi oggi maturano meno e più tardi, si deve intendere che crescono meno proprio dal punto di vista dell’esperienza. Dal punto di vista, infatti, della conoscenza dei fatti, essi hanno internet, da un certo punto di vista, hanno tutto il mondo a disposizione. In effetti molti ragazzi sanno un sacco di cose, cose pure che in teoria non li riguardano affatto, perché s’informano. Le sanno perché ne hanno letto comodamente seduti sulla loro poltrona. Credendo che averle lette o averle viste su google maps o you tube sia la stessa cosa che averle vissute da vicino. Secondo me questo è un aspetto molto forte di frattura, di cambiamento rispetto al passato. La differenza costituita da tutti gli ultimi eccessi della comunicazione/informazione in tempo reale.

Giovanna: Infatti forse rispetto al problema della storia, il problema principale è che non si riesce proprio più a veicolare un senso critico. Quando devi fare storia in un certo modo, tu devi assumere l’idea che è un qualcosa che è distante da te, che è un altro tempo, e che, a sua volta, ha avuto, anche delle evoluzioni.

Giulio: Sì è un altro da te…

Giovanna: Bisogna però assolutamente assumere una distanza. Chiaramente però se tu non hai questo tipo di percezione, allora tu non sviluppi un senso critico neppure rispetto a quello che ti succede nella contemporaneità. In realtà loro – se assumiamo il punto della storia anche in base alle relazioni che loro hanno – non hanno più la misura della distanza d’età delle persone che si trovano di fronte. Ad esempio se io faccio loro lezione ed ho trentaquattro anni, e loro non ne hanno più di quindici sedici, non è che avvertono quella distanza che potrebbe porsi anche con il professore; e lo dico indipendentemente poi da quale sia la differenza d’età. Lo dico rispetto al rapporto con una persona diversa, distante da te. L’idea è che siamo tutti comunque in una relazione che si mischia, un puzzle, ma che però si sovrappone pure. Allora come facciamo a dire che quell’immagine che io sto vedendo anche su internet sia vera? Cioè se mi dicono che si tratta di riprese interne al corpo di una persona, io credo che quello effettivamente lo sia. Io non mi pongo più criticamente riflettendo sul fatto che potrebbe anche non essere vero. E non è un mero fatto storico questo. Però deriva da quell’esigenza di dover valutare e scegliere ogni volta se una cosa è vera o non è vera, se mi riguarda o non mi riguarda. Ormai non si percepisce più questa possibilità, questo scarto.

Giulio: Senza distanza non c’è critica…

Giovanna: Non c’è tempo d’altra parte, se la comunicazione è in tempo reale, è tutto così veloce, e tutto sembra poter esserci quando vuoi, come puoi sviluppare l’idea del possibile? Tutto è così reale sempre. Ti posso chiamare in qualsiasi momento. Ad esempio, oggi è molto difficile affrontare una discussione, mica qualcuno spegne il telefonino? Questo vale anche per loro ovviamente. Tu contemporaneamente sei connesso, e se mi chiamano o mi mandano un messaggio, certo che rispondo. Quindi non poni, anche rispetto a questo, una qualche distanza. La distanza con ciò che non è qui e non è presente.

Giulio: Cioè non dai quel valore pieno all’esperienza che stai facendo in un momento particolare. C’è sempre una porta aperta verso un altro indefinito, cioè la possibilità della fuga è permanente.

Giovanna: Sì che era quello che dicevo rispetto al fatto specifico dell’esperienza della classe. I ragazzi, ad esempio, mi inviano sempre messaggi mentre fanno lezione. Se loro sono in difficoltà su una cosa, loro il messaggio me lo inviano, per chiedermi di aiutarli. Tutte le cose ormai avvengono in contemporanea.

Giulio: Direi che possiamo fermarci qui, perché questo aprirebbe tutto un altro discorso…

LUGLIO 2012

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