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08
Ottobre 2012

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SU SCUOLA E CULTURA

Giuseppe Genovese

 

C’est que la culture n’est, ni simplement juxtaposée, ni simplement superposée à la vie.

En un sens, elle se substitue à la vie, en un autre elle l’utilise et la transforme, pour réaliser une synthès d’un ordre nouveau[1].

(Claude Lévi-Strauss, Les structures élémenataire de la parenté)

  

Tutte le volte che si parla di scuola, almeno ad un livello non tecnico, come vuole e non vuole essere questa trattazione, si finisce per fermarsi all’istanza storica, determinata dalle continue, imminenti e tragicomiche riforme (o presunte tali) che si sono succedute con ritmo spasmodico nel nostro paese negli ultimi quindici anni. È utile ricordare come nella storia dell’Italia repubblicana vi siano state tre grandi riforme del sistema scolastico, dovute ai ministri Berlinguer (1997), Moratti (2003), Gelmini (2008). Prima d’allora il sistema scolastico era fondato essenzialmente sui principi della vecchia riforma Gentile (1923, la più fascista di tutte le riforme, secondo Benito Mussolini), che, seppur modificata e adattata nel corso dei tempi ai tempi stessi, aveva un carattere tanto marcato e saldo da aver determinato la formazione degli italiani per circa settanta anni. Ad ogni modo il problema centrale dell’istruzione pubblica, ancora probabilmente irrisolto, rimane immutato, ovvero la conciliazione della formazione scolastica con il mondo del lavoro e l’inserimento nella società produttiva. È proprio qui, se si vuole, la principale motivazione di tanta mobilitazione negli ultimi anni, dopo decenni di immobilismo: il cambiamento nell’assetto socio-economico a livello globale, così accelerato dopo lo sfaldamento del blocco comunista, il nuovo ruolo dei paesi europei e dell’Italia tra questi in tale scenario, la de-nazionalizzazione della cultura imposta dalla globalizzazione; tutte concause atte ad abbandonare l’idea di fondo del vetusto impianto scolastico italiano (che comunque conserva ancora, con qualche fatica, l’impronta neoidealista di Giovanni Gentile), per cui la cultura, intesa peraltro come cultura classica, era un bene primario, a fondamento della società, che dovesse in qualche modo distinguere anche le classi sociali, identificandole con classi socio-culturali (da qui la critica di Gramsci, che preveggendo l’inasprimento perverso di tali distinzioni, sosteneva che «la riforma Gentile separa la scienza dalla tecnica, il lavoro intellettuale da quello manuale»). Pare evidente come difatti i cambiamenti introdotti mirino ad una sostanziale inversione di tendenza nella scuola italiana, riavvicinando la cultura trasmessa dallo stato ai giovani al mondo del lavoro; che poi oggi tutto ciò significhi impresa, e non più fabbrica o terra, che siano le stesse aziende a voler investire in programmi formativi a partire dagli Istituti Tecnici, piuttosto che aspettare i diplomati come avveniva trent’anni fa, poco interessa, sono i tempi, e si rischierebbe di divagare tremendamente (quanto infruttuosamente) volendo affrontare il problema da questa prospettiva. Il punto è che il ben noto argomento che vuole un asservimento della scuola all’economia capitalista e globalizzata è carente su due fronti: il primo è che non tiene in conto i concetti di carattere teorico che stanno dietro certe scelte fatte negli ultimi anni, motivandole soltanto con le esigenze dell’istanza storica; il secondo è che spesso si assume una visione idilliaca della scuola di una volta (senza ben precisare di quando), come se davvero l’istruzione italiana avesse attraversato un’età dell’oro e soltanto poi (di nuovo, quando?) fosse decaduta dal punto di vista economico, sociale e strutturale, per infine andare in pasto ai voraci appetiti del nuovo capitalismo. È chiaro che un’analisi più attenta vuole mettere l’accento sulle incompletezze del modello sinora adottato, come su quelle proprie di quello a cui si va, inesorabilmente, oramai incontro. Il ruolo subalterno del lavoro rispetto alla cultura, oppure la preponderanza pratica delle esigenze economiche che portano verso il primo rispetto alla seconda, sono i concetti su cui si fondano le scelte fatte o non fatte negli anni passati, ma non sono, da un punto di vista filosofico, i principi a partire dai quali costruire il sistema dell’istruzione statale: e questo è insieme il cuore ed il punto di partenza di tutto il ragionamento che qui si vuole sviluppare. La dicotomia da risolvere al fine di trovare un sentiero per costruire una sana istruzione di stato, è senza dubbio quella tra teoria e pratica, tra scienza e tecnica. Si può da un lato promuovere un sistema che crei insieme con il valore astratto della cultura i suoi adepti. Ovvero che getti le basi per una differenza sostanziale tra chi possiede la cultura e chi non la possiede, e, più in basso, tra chi la possiede di più e chi la possiede di meno. Questo modello è patologico, sostanzialmente perché tale divisione scontenta tutti i membri della società: la parte che resta incolta, assimilando però il valore della cultura finisce per provare la frustrazione della privazione, e della susseguente subalternità, inseguendo un ideale irrealizzato, con il peso della colpa della sua irrealizzazione, il ché sancisce una divisione sociale; del resto non è detto che la ricchezza si debba concentrare nelle mani di questa casta dirigente privilegiata (di fatto non è così), che dunque accumula frustrazione a sua volta, in quanto il presuntuoso pregiudizio di superiorità sarebbe contraddetto violentemente dalla subordinazione economica. Abbiamo dunque da un lato un gruppo sociale di detentori della cultura borghese, ma economicamente sempre meno rilevante, dall’altra quel gruppo formato da coloro che, abbandonata in parte o del tutto la radice della cultura popolare, si incipriano falsamente di una cultura borghese che non gl’appartiene, subita, mai posseduta; e costoro di fatto costituiscono sempre più preponderantemente il ceto dirigente (guardiamo come esempio a quel che vediamo in tv: giornalisti, esponenti della classe politica e dirigente del paese, non brillano spesso in cultura; eppure, in virtù di ciò, si offendono l'un l'altro dandosi, pur giustamente, dell'ignorante: la cultura assume valore totemico, sempre irrealizzato). Questo è il frutto maturato nei tempi, la cui paura muoveva le critiche previdenti di Gramsci, prima, e di Pasolini, poi. Del resto il modello di istruzione che gli si oppone al momento è effettivamente un asservimento della educazione dello stato alla formazione dell’azienda, laddove il valore della cultura è soppiantato da quello della produzione, e si perde se si vuole la struttura fine della separazione tra classi sociali culturale ed economica, in quanto la prima è relegata ai margini della società, conservata (male) più per una sorta di rispetto verso l’ideologia passata che per un reale convincimento teorico. Allo stato moderno interessa oggi formare individui che bene si inseriscano nelle dinamiche produttive dell’economia (ed è forse questo, paradossalmente, anche l’inizio del disfacimento della struttura statale, proprio a partire dalla scuola, dalla formazione dei giovani). Ora la domanda è se esiste una terza via, alternativa all’asservimento di un aspetto della vita rispetto all’altro, che invece li concili, creando una struttura sociale ed economica, prima ancora che culturale, tale da supportare ed incentivare la coesistenza di individui con diverse abilità, ma pari dignità. È chiaro che tale problema è in realtà equivalente al trovare una definizione stessa di cultura, o cultura di stato, come un insieme di valori davvero condivisi.

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Si capisce che poi la cultura deve essere trasmessa in modo ponderato durante l'intero ciclo di istruzione, che deve essere pensato in modo tale da adattarsi alle esigenze delle diverse classi sociali, ovvero di chi è destinato alla prosecuzione degli studi in modo sempre più approfondito e specialistico, e di chi invece entrerà subito nel mondo del lavoro (e che invece siamo abituati, da nord a sud, a etichettare come incolto). Basta del resto guardare i programmi ministeriali della scuola dell'obbligo od anche del liceo e degli istituti tecnici, per accorgersi di come ciò non sia realizzato neanche per il sistema culturale vigente, e criticato. Avviene infatti che l'istruzione delle scuole elementari e medie, anche se trasmessa nel modo ideale, non supplisce in nessun modo a quelle che sono le esigenze minime dei nostri standard culturali. Ovvero la scuola dell'obbligo forma individui che siamo portati a considerare non solo culturalmente inferiori, ma quasi privi di cultura, ed irrimediabilmente tendiamo a relegare ai margini della società (o almeno vorremmo). Dopodiché i licei fanno il resto: in particolare il liceo scientifico è pensato in modo da non approfondire il tratto culturale umanistico al fine di trasmettere un educazione scientifica velleitaria e inesistente. Basti pensare che comunque il totale delle ore di materie scientifiche nel corso del quinquennio è inferiore a quello delle umanistiche; è previsto poco l'uso del laboratorio (al di là della eventuale fatiscenza delle strutture), i programmi di matematica, fisica e biologia sono mal strutturati, approssimativi (sono pensati, ancora in ottica “Gentiliana”, come se si potesse insegnare la fisica come si insegna la storia). In definitiva il liceo scientifico non trasmette la cultura scientifica, che per l'impostazione vigente non è considerata cultura, ma non trasmette neanche quella umanistica, chiaramente. Migliore è la situazione degli istituti tecnici e professionali, i quali sembrano essere in linea di principio più formativi, eppure sono soggetti (alunni e professori) alla classificazione di rango inferiore, come scuole facili, per coloro che non hanno voglia di studiare. Vale il principio che tradurre dal greco un classico è un arte più fine per l'uomo che misurare l'acidità di un terreno, capire come funziona un telefono, o un computer, risolvere un problema di matematica, et cetera. Questo principio è pericoloso e va combattuto in quanto tale.

Dunque i passi principali al fine di una riforma strutturale del sistema di formazione sono un riequilibrio del valore morale della cultura del lavoro, della scienza, della tecnica, rispetto alla cultura tradizionale, per fornire poi una trasmissione uniforme e completa al fine di educare il cittadino, già ai livelli minimi previsti dal programma di istruzione. Ovvero il livello di base, la scuola dell'obbligo, deve avere la funzione primaria di formare la coscienza culturale dell’individuo, dandogli le conoscenze chiave che da un lato lo inseriscano a pieno nella società che vive, dall'altro gli permettano di poter approfondire gli aspetti che egli stesso riterrà importanti da autodidatta, rendendolo libero di intraprendere un percorso culturale proprio, a partire dalla cultura condivisa della comunità. Allo stesso modo, agli studi superiori, che siano umanistici, tecnici o scientifici, lo stato affida la formazione della coscienza critica di chi sceglie, attraverso il proprio operato nella società, non solo di vivere come parte della cultura condivisa, ma agire di attivamente e direttamente in prima persona al fine primario di cambiarla, svilupparla, arricchirla.

Tutto ciò resta ancora indefinito: riorganizzare i cicli di istruzione, alzare l'età dell'obbligo, cambiare i programmi, incentivare le strutture, valorizzare il ruolo dell’insegnante, sono tutti problemi concreti, irrisolti, ma, dal punto di vista che si adotta qui, secondari. Il primo passo è di natura più ideologica: trovare un'identità culturale unitaria, condivisa, reale, una sintesi tra le diverse anime di cui è composta la nostra comunità, che poi possa esser trasmessa in un modo nuovo, che potremmo poi discutere in un secondo momento.

La valorizzazione del lavoro da un punto di vista culturale è di fatto equivalente ad una valorizzazione sociale e civile della cultura in sé, una rivoluzione nel nostro modo di pensare, radicale, non marginale, il principio di un cambiamento reale, dal basso, della società.

 

LUGLIO 2012

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[1] «La cultura non è semplicemente giustapposta o sovrapporta alla vita. In un senso, essa si sostituisce alla vita, ma, in un altro, essa l'utilizza e la trasforma, per realizzare una sintesi di livello diverso».Trad. della Redazione