Esperienza e rappresentazione
ESPERIENZA (PARTE II)
Giulio Trapanese
		Maggio 2011, Scuola 
		Critica, Biblioteca Brau, Napoli.
		
		La seguente costituisce 
		la trascrizione rivisitata della quarta parte del seminario «Esperienza 
		e rappresentazione», tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola 
		Critica.
		
		I termini della trasformazione 
		antropologica: individuo, comunicazione, memoria, mondo
		Direi, 
		dunque, che alcuni concetti portanti della nostra esistenza, stiano 
		cambiando profondamente il proprio significato e questo anche in virtù 
		dello sviluppo dell’intelligenza artificiale degli ultimi anni. I 
		concetti di individuo, infatti, di comunicazione, memoria e mondo credo 
		potranno essere affrontati con ordine e discussi singolarmente.
		Il 
		concetto di individuo. Direi che l’attuale società borghese potrebbe 
		essere rappresentata anche semplicemente come l’espressione 
		dell’evoluzione della società sul contraddittorio presupposto costituito 
		dall’individualismo. Con individualismo mi riferisco, in modo specifico, 
		al principio, sviluppatosi con la modernità in Occidente. La struttura 
		sociale stessa della società borghese in cui noi oggi siamo, infatti, si 
		presenta imperniata attorno al mito illusorio della felicità e del 
		successo (concetti venuti a coincidere per lo più nell’american 
		way of life degli ultimi due secoli) entrambi intesi in un senso 
		sostanzialmente individuale. D’altra parte il computer, di cui abbiamo 
		appena parlato[1], 
		mi sembra non stia facendo altro che rafforzare la struttura 
		individualista della società. In questo modo l’Io come gabbia del sé, 
		odierna fantasmagoria borghese, si candida ad essere la dimensione 
		portante dell’antropologia contemporanea. Si tratta di una struttura, la 
		quale, andatasi sempre più rafforzando, per via anche 
		dell’infrastruttura informatica del mondo, ci sta rendendo individui 
		sempre più cinici convinti come siamo che la vita sia una questione 
		individuale e non sociale. 
		Facebook oggi si pone come l’apogeo della dimensione spettacolare 
		della nostra vita incarnando il principio di un’individualità 
		tendenzialmente svuotata di significato. Un principio che, sebbene 
		provenga da lontano, si va esprimendo oggi in tutta la sua portata 
		nichilista e distruttiva. Se l’Io è solo, è proprio perché nella sua 
		azione tende a ritornare sempre verso di sé, a riferire l’intera 
		esperienza del mondo e i valori, o almeno ciò che un tempo costituiva i 
		valori, alla propria ristretta cerchia di interessi e fragili legami.
		Il 
		concetto di comunicazione d’altra parte, tema centrale ai nostri giorni, 
		è stato stravolto negli ultimi anni. Società della comunicazione, quale 
		è definita la nostra, infatti, dovrebbe piuttosto essere concepita come 
		società dell’informazione. La confusione fra i due concetti dimostra 
		chiaramente quella presente intorno al significato odierno di 
		socializzazione. La comunicazione virtuale rende oggi la socializzazione 
		di alcuni contenuti un’attività rappresentativa piuttosto che la 
		complessa espressione fondata sulla condivisione di un senso. Di per sé 
		comunicare non equivale affatto ad informare. L’informazione infatti sta 
		alla comunicazione come il graffito sta al ritratto, e un corpo vivo ad 
		un corpo morto. Comunicare, infatti, non è un’azione, ma piuttosto una 
		modalità dell’esistere. Come scrissero Watzlawick, Beavin e Jackson è 
		impossibile non comunicare[2].Se 
		la comunicazione è un tratto fondamentale dell’esistenza (non si esiste, 
		infatti, se non comunicando la propria esistenza e il modo in cui si 
		esiste) allora il fine stesso dell’esistenza può essere inteso come 
		espressione di sé a gli altri. Un individuo che comunica è un individuo 
		che attesta al mondo senso che attribuisce all’esistenza.
		
		D’altro canto, invece, l’informazione è tutt’altra cosa. Anche un non 
		vivo può informare e la prova di ciò ci viene data dagli schermi delle 
		metropolitane di mezz’Europa in cui vengono diffusi telegiornali 
		informativi condotti da figure umanoidi e voci robotiche. Se, come 
		dicevamo, è impossibile non comunicare, allora anche la roboticità di 
		questi neo presentatori esprime una verità che dovremmo tenere in 
		considerazione e dalla quale dovremmo partire nei nostri ragionamenti: 
		l’uomo è giunto ad accontentarsi veramente di poco, pur di sentirsi 
		dentro un mondo, ed appartenente a qualcosa. Al di là di qualunque 
		giudizio, infatti, non si può negare che non ci sia oggi alcuna seria, 
		per quanto minoritaria, resistenza alla società dell’informazione. Anche 
		il più critico di noi si bea di esistere in una società in cui è 
		possibile venire a conoscenza di più cose che mai e soprattutto, di 
		poterlo fare, in un tempo brevissimo. La base della nostra società è, 
		dunque, quella costituita dall’identificazione di verità e fatto.
		
		D’altra parte, come scriveva Baudrillard[3], 
		ci dovremmo meravigliare di come, sulla base dei meccanismi di selezione 
		naturale, l’uomo non abbia oggi già completamente perso la memoria. 
		Baudrillard lo scriveva quasi venti anni fa e noi potremmo ribattere, 
		invece, che non ci meravigliamo dal momento che è evidente che la 
		memoria, al giorno d’oggi sta svanendo per davvero. La memoria della 
		storia, memoria di sé e degli altri, ricordo della vita. Tutte queste 
		diverse forme di memoria sono in via di estinzione. Se, infatti, il 
		computer ricorda, noi al massimo siamo rimasti in grado di riconoscere 
		cose ricordate (cioè fissate nella memoria) da altri. Il computer 
		immagazzina, e noi recuperiamo ciò che ha archiviato. Come a dire che i 
		padroni non s’occupano più di ciò che gli schiavi fanno al posto loro.
		Direi, 
		così, che la liberazione dalla memoria costituisce il paradosso storico 
		più pericoloso che ci stiamo trovando a vivere. Se è vero che siamo oggi 
		nella condizione di non ricordare tutta una serie di cose inutili, lo è 
		anche che, con questa delocalizzazione della memoria, andremo incontro 
		alla perdita della funzione mnemonica anche nel suo senso di costruzione 
		e conservazione di un’identità. Non è un caso che quella che rimane per 
		lo più oggi come identità è un’identità temporanea, necessaria per fini 
		specifici, ma che non resiste a lungo. Avremo a che fare sempre di più 
		con queste nuove forme di identità. Allo sguardo di chi è vissuto nei 
		secoli scorsi queste nuove formazioni caratteriali apparirebbero
		tout court come personalità 
		senza identità.
		
		Tuttavia, l’elemento di maggiore rimozione riguarda la fatica di 
		guadagnarsi un’identità: trovare un senso alle cose, per quanto esso 
		possa essere fragile e non identico a se stesso per sempre. A differenza 
		delle passate generazioni, quella contemporanea ha una difficoltà 
		incredibile ad individuare chiaramente, nella cerchia delle proprie 
		relazioni, chi siano gli amici, e chi i propri nemici, o come, nella 
		vita, ci si possa difendere, ma senza necessariamente offendere. Oggi 
		“lottare” per il senso comune si identifica con qualcosa di violento, 
		mentre sapere come resistere ha costituito da sempre una prerogativa 
		essenziale per lo sviluppo della soggettività. Riuscire a costruire 
		l’idea di un mondo possibile a fronte del mondo reale che ci si trova di 
		fronte è divenuto qualcosa di molto difficile per un giovane degli 
		ultimi anni. Attestarsi fermamente attorno a dei valori, è divenuta 
		un’esperienza molto più rara. Personalità di un passato non per forza 
		lontano rimarrebbero allibite, da questo punto di vista, del modo in cui 
		le nuove generazioni vivono la loro vita. Un uomo del passato proiettato 
		nell’oggi crederebbe di trovarsi di fronte ad un soggetto molto diverso 
		da sé, addirittura forse non un essere umano. Argutamente si 
		rivolgerebbe forse alle macchine per avere spiegazioni di quanto sia 
		accaduto, riconoscendo così i veri protagonisti della società. Se è 
		vero, infatti, che assomigliamo ancora all’uomo del passato, la nostra 
		mente sta divenendo, in un tempo molto rapido, qualcosa di diverso. 
		Stiamo forse procedendo spediti lungo la catena evolutiva che da 
		Neanderthal in poi ha impiegato milioni di anni a svilupparsi; ma, 
		tuttavia, non sappiamo bene verso cosa stiamo procedendo.
		Quanto 
		al mondo, abbiamo detto, il mondo come riferimento oggettivo della 
		nostra esperienza è qualcosa che è in via di estinzione. Con il concetto 
		di “fine del mondo” possiamo indicare il processo in corso di 
		soggettivizzazione estrema dell’esperienza che va a coincidere, al 
		contempo, con il processo della sua rarefazione. L’altro è sempre meno 
		altro e diviene sempre più una mera proiezione dell’Io. Il mondo, così 
		si presenta ormai come un mondo personale, cioè non più comune anche ad 
		altri ma come qualcosa che riguarda la soggettività particolare, e si 
		riferisce, per lo più, ad un’esperienza non condivisibile. Il mondo per 
		un individuo può sussistere oggi solo nella misura in cui venga 
		controllato, neutralizzato, e reso così un’appendice dell’Io. Esso non è 
		più dato nella sua naturalità, ma costruito, piuttosto, come una serie 
		di schermi virtuali a protezione del mondo oggettivo. Mentre ci si crede 
		più forti, la virtualità rappresenta la prova dell’incapacità ad 
		affrontare l’oggettività del mondo e delle relazioni umane con tutta la 
		durezza e l’imprevedibilità che queste comportano.
		
		Rappresentare è un difetto dell’essere
		
		Riguardo al tema dell’esperienza, vorrei fare riferimento adesso al 
		concetto di mappa. Non valuteremo mai abbastanza, infatti, l’importanza, 
		nel processo della costruzione della nostra identità, del modo in cui 
		siamo in grado di rappresentarci il mondo in cui viviamo[4]. 
		Ai giorni d’oggi, attraverso l’esperienza di
		Google maps, ci si bea di osservare la conformazione di luoghi 
		presenti nei continenti più distanti. Siamo, infatti, arrivati a 
		determinare un punto di vista sulle cose, e a formulare mappe di 
		qualunque luogo presente sul nostro pianeta (e non solo). Se nel passato 
		si era costretti a procurarsi le mappe dei luoghi dove si era diretti, 
		oggi abbiamo già sempre a disposizione, attraverso i satelliti, cartine 
		che anticipano la nostra esperienza di quei luoghi. La terra è 
		continuamente monitorata da satelliti collocati nello spazio. C’è un 
		controllo totale ciò che avviene sul nostro pianeta per mezzo di questi 
		satelliti. La nostra esperienza si nutre nel quotidiano dell’illusione 
		di possedere tutto il mondo in una semplice schermata del
		web. La nostra conoscenza, come ormai abbiamo già detto più volte, è 
		una conoscenza astratta dall’attività pratica in un mondo.
		Il 
		tema della mappa costituisce un esempio classico di come la 
		rappresentazione non sia già la realtà, né tanto meno possa costituire 
		un’esperienza esauriente di essa. Personalmente posso dirvi che dopo 
		essere stato le prime volte a Parigi, la rappresentazione mentale della 
		città con cui sono ritornato corrispondeva più o meno a quella della 
		mappa (onnipresente) della metropolitana. Più che le sensazioni dei 
		luoghi mi sono ritrovato a ricordare la loro posizione su quel foglio di 
		carta in scala, senza di cui a Parigi si è destinati a perdere 
		completamente l’orientamento. Aggiungo che quella mappa, come la maggior 
		parte delle nostre rappresentazioni odierne, non è che la reificazione 
		dell’esperienza della città, ed ha come effetto quello di sovrastare 
		l’irriducibilità del sensibile.
		In 
		ogni analisi dei processi storici, credo sia necessario riconoscere i 
		reali vincoli di appartenenza dei soggetti storici, altrimenti ogni 
		discorso si fa estremamente astratto. Il punto riguardante il presente è 
		dunque riconoscere come la vittoria della borghesia e del suo modo di 
		vivere abbia costituito la base per la rottura dei vincoli tradizionali 
		di appartenenza e dei modi tradizionali di individuazione. D’altro 
		canto, se volessimo approfondire il tema dell’immigrazione nel mondo di 
		oggi, che sarebbe senz’altro un tema da approfondire, potremmo arrivare 
		a sostenere che, per quanto per lo più indotto dalla fame e dalla 
		disperazione, questo fenomeno ci dimostra come una gran parte dei 
		giovani, nei diversi continenti, sia oggi disposta ad accettare un 
		sistema veloce e accelerato di produzione e di vita, avvertendo sempre 
		meno il dilemma morale dell’abbandono del passato, e, al contempo, del 
		luogo della propria origine.
		
		L’immigrato oggi ha un alto valore simbolico: spesso, nei paesi 
		occidentali più ricchi, egli riesce anche ad integrarsi nel sistema 
		economico, tuttavia egli paga il prezzo di perdere la possibilità di 
		conferire un senso politico al proprio agire nel mondo. Con un solo 
		viaggio d’andata, infatti, egli perde la possibilità della politica 
		nella società che lascia, dove avrebbe i legami e il senso di 
		appartenenza per incidere nel mondo, e si colloca in un nuovo mondo, 
		arrivando a costituirne un’ennesima “pedina biopolitica”, al servizio 
		del meccanismo della valorizzazione capitalistica. Dunque la perdita 
		delle forme di appartenenza costituisce un fenomeno fondamentale (direi 
		un fenomeno “tipo”) per comprendere il depotenziamento degli attuali 
		movimenti politici rispetto alla possibilità d’incidere sul mondo. La 
		passivizzazione politica degli immigrati, infatti, è solo l’esempio più 
		eclatante di questo fenomeno più generale. Londra, o Parigi, accolgono 
		un’infinità di immigrati che costituiscono la reale base lavoratrice di 
		quei posti, ma che non esprimono pienamente il proprio peso politico a 
		fronte del loro peso economico, e questo al di là dei meccanismi che 
		rendono oggettivamente difficile la loro partecipazione.
		Per 
		avviarci a concludere, delinerei ora qualche breve prospettiva. A questo 
		riguardo la domanda che mi pongo riguarda la possibilità residua che 
		l’esperienza continui a sussistere, al di là dell’invadenza della 
		rappresentazione. A questa domanda, in un primo tempo, risponderei, che 
		è solo nell’esperienza non cosciente che l’esperienza può trovare oggi 
		una possibilità di espressione. Dal momento, infatti, che ci troviamo 
		nella condizione in cui la nostra coscienza, con le sue 
		rappresentazioni, è segregata lontano dal sentire corporeo, il nostro 
		corpo, proprio in virtù di questa distanza, potrebbe riuscire a 
		mantenere un valore di esperienza. Dunque, se prestiamo più attenzione 
		al problema, e proviamo a formulare in termini diversi la domanda, direi 
		che questa potrebbe essere: in che senso una vita lontana dalla 
		coscienza lascerebbe sopravvivere, nonostante tutto, una certa parte 
		dell’esperienza?
		La 
		separazione di vita e rappresentazione costituisce un riflesso 
		dell’imponente condizionamento della tecnologia virtuale nella 
		produzione. L’imponenza del sistema, infatti, travalicando ampiamente 
		l’intelligenza dei singoli, che ne costituiscono i singoli ingranaggi, 
		diffonde un enorme sentimento di impotenza tra gli individui che vivono 
		nello scenario attuale: paura di catastrofi ambientali, le crisi 
		economiche, l’angoscia per il futuro, sono tutti i sintomi di un’età di 
		passaggio nella quale si è persa la fiducia in un ordine che regoli le 
		cose. Il sistema presenta un meccanismo talmente pianificato, ed ha 
		assunto, d’altra parte, una dimensione talmente globale che alla 
		grandissima parte degli individui appare ormai impossibile agire in 
		qualche modo per cambiare la propria condizione[5].
		
		D’altra parte, un altro grande tema è che, nella maggior parte delle 
		nazioni, e, sicuramente in quelle occidentali, per le giovani 
		generazioni si va consumando a gran ritmo la consapevolezza di 
		appartenere ad un filo della tradizione e, di far parte, in questo modo 
		di una storia che le precede. Credo questo, in verità, sia a renderli 
		così fragili e insicuri; per loro, e per noi, è la perdita d’ogni 
		tradizione ad essere il presupposto, al contempo, per l’esaurimento 
		della capacità di sperare.
		A 
		questo proposito, come già anticipato, il mio intervento di domani sarà 
		dedicato alla proiezione di alcune immagini video. Tra queste, ad 
		esempio, vi è l’intervista ad un ragazzo di oggi e ad un giovane di 
		quaranta anni fa. Vedremo così come la velocità del discorso del giovane 
		di oggi sia maggiore, e come, apparentemente, lo sia anche la sua 
		sicurezza nell’esprimersi. L’espressione dei suoi pensieri e dei suoi 
		sentimenti, d’altra parte, è demandata quasi unicamente alle parole, dal 
		momento che i suoi gesti si trovano ad essere separate da questi. La sua 
		vita non rappresentata e non cosciente, si trova in completa disarmonia 
		con le parole. Il corpo incarna una verità diversa, dove l’espressione è 
		sostanzialmente il prodotto dell’intellettualizzazione. Quanto emerge da 
		queste immagini è che il corpo, come soggetto che sente, non può fare a 
		meno di esprimere il disagio della propria mutilazione. Nella fase di 
		trasformazione antropologica, quale è quella che viviamo, il corpo 
		risulta l’elemento più colpito. Rispetto alle immagini in video, 
		infatti, in quella di quaranta anni fa la persona si esprime in modo più 
		limitato, ed è in grado di utilizzare meno parole, non riuscendo a 
		trovare neppure i termini adeguati. Le sue rappresentazioni sono più 
		confuse e sono piuttosto i movimenti del corpo, posti in relazione ad un 
		certo contesto e ad un certo mondo, che racchiudono la sua esperienza, e 
		gli danno la possibilità di esprimerla. Attraverso il corpo, infatti, 
		egli non esprime concetti teorici, astratti; vale a dire non dà opinioni 
		sulle cose, sui fatti del mondo. egli piuttosto comunica: «Io sono così, 
		dunque la penso così». Non «Io così penso, e quindi sono così». L’essere 
		occupa un posto prioritario rispetto al pensiero e alla 
		rappresentazione. Il carattere di una persona si presenta come il 
		criterio attraverso cui egli giudica i fatti del mondo e le persone. In 
		ogni sua parola, egli rivendica la sua identità. Eravamo in un periodo 
		storico, in cui la sensibilità comune non veniva ancora violata dal 
		dominio di informazioni e rappresentazioni astratte nella misura in cui 
		lo è oggi.
		Da 
		questo punto di vista, quindi, la vita al di là della coscienza 
		costituirebbe il punto nevralgico dell’esperienza in via di estinzione. 
		Anche l’esempio di cui abbiamo discusso in precedenza, relativo a 
		Mussolini e Berlusconi, ci fa osservare come identiche parole possano 
		assumere oggi significati molto diversi. Proprio perché viviamo in un 
		regime determinato dalla parola, ogni individuo viene giudicato da quel 
		dice nel momento presente, più che non dai suoi riferimenti di valore. 
		Se guardiamo il corpo di Mussolini e, dall’altro lato, di Berlusconi 
		possiamo segnare la parabola della trasformazione della società italiana 
		negli ultimi sessant’anni. Alla base del fascismo c’è un idea di potere 
		che incarna ancora l’universalità astratta che si impone sulla 
		particolarità della vita dei singoli individui. I movimenti del corpo, 
		ad esempio, come i gesti caratteristici, o il tono di voce adottati 
		tipicamente da Mussoilni dimostrano la presa del simbolico sull’elemento 
		della vita. La figura di Berlusconi, d’altra parte, ci mostra 
		esattamente il contrario. Avendo lo spettacolo come rappresentazione 
		vinto sulla vita di tutti, Berlusconi non si presenta che come un uomo 
		fra tanti, certo una personalità di successo, ma in ogni caso un 
		individuo, non un simbolo.
		
		Conclusioni del seminario
		Per 
		concludere, davvero, indicherei anzitutto due elementi che, in 
		particolare, sono sul punto di estinguersi nella nostra epoca 
		tecnologica. Elementi che, tra l’altro, almeno in apparenza, si 
		presentano come opposti: la scrittura a mano e l’analfabetismo. 
		Entrambi, infatti, sono stati messi in crisi dall’avvento fulmineo della 
		scrittura informatica, che, trasformando il modo della scrittura, sta 
		comportando la trasformazione di alcuni tratti della sensibilità. Il 
		fenomeno dell’analfabetismo, d’altra parte, che pure nessuno 
		rimpiangerà, è in via di scomparsa; ma non per via di un’acculturazione 
		di massa, piuttosto perché la pubblicità, alla base del mondo odierno, 
		ci espone continuamente a marchi e loghi che vanno riconosciuti. Così 
		nessuno ormai si può permettere di non saper leggere. La comunicazione 
		odierna ha, infatti, una parte sempre più scritta[6]; 
		l’analfabeta del passato può oggi impratichirsi esprimendo per iscritto 
		sul proprio profilo facebook i 
		suoi presunti stati d’animo. D’altra parte la vera maestra, e almeno da 
		cinquanta anni, non è più quella delle scuole elementari. Si impara a 
		leggere e a parlare attraverso i dialoghi della televisione (oggi in 
		particolare quelli dei talk show); 
		d’altra parte, come scriveva Pasolini, è la televisione ad aver creato 
		in Italia una nuova lingua, sorta sulle ceneri della varietà dei 
		dialetti presenti nelle più diverse regioni italiane.
		Vi 
		proporrei ora due piccoli esempi, anche questi in apparente opposizione 
		l’uno all’altro. Si tratta dei 
		managers di multinazionali, in continuo movimento per lavoro tra 
		continenti o nazioni diverse, e, dall’altro lato dei migranti, anch’essi 
		impegnati in un viaggio, ma di un tipo sicuramente diverso. Entrambe 
		queste figure incarnano, da prospettive ben diverse, la natura della 
		globalizzazione che viviamo, in virtù della quale gli individui sono 
		portati a viaggiare, a spostarsi, e a separarsi da un luogo fisso. A 
		divenire nei fatti nomadi, a perdere un rapporto sostanziale con la 
		propria terra. Se l’immigrazione, allora, per millenni, è stata 
		un’immigrazione collettiva di comunità, da una parte del mondo ad 
		un’altra, la figura del big 
		manager di oggi, d’altra parte, incarna, invece, tipo di uno 
		spostamento individuale continuo, che si nutre e che alimenta 
		l’illusione d’una quasi onnipresenza sull’intera sfera planetaria. Il 
		risultato ultimo è stato quello di produrre un soggetto oramai sradicato 
		per definizione da un contesto territoriale.
		Vi 
		inviterei, d’altro canto, a riflettere ad una persona che vive circa 
		otto ore della sua giornata in un aereo, nello spostarsi da un 
		continente all’altro, e a quale relazione possa oramai avere con il 
		mondo. Potrà osservarlo dall’alto, in tutti i sensi, senza poter più 
		appartenere ad un territorio in particolare. Credo sinceramente che 
		tutto questo influisca molto sul cinismo e sul disprezzo per gli altri 
		da parte di queste persone. Una personalità come quella di Marchionne, 
		ad esempio, esprime un violento disprezzo per tutto quanto non rientri 
		nel suo modello unico.
		Vorrei 
		comunque spendere le ultime parole sul tema dell’informatica. 
		L’informatica è giunta ad essere la quintessenza dell’attuale società 
		capitalistica esprimendone, al tempo stesso, le potenzialità di società 
		del controllo[7]. 
		Nella società in cui viviamo non è più richiesto agli individui di tener 
		fede ad un vincolo di tipo morale, ma è lo sviluppo tecnico e produttivo 
		a determinare le condizioni dell’azione dei singoli individui. In questo 
		tipo di società il potere strutturante della produzione e 
		dell’organizzazione sociale è in grado di regolare la vita in modo 
		meticoloso. Pensiamo all’organizzazione della vita e del tempo libero al 
		giorno d’oggi. Qual è il modello delle più recenti costruzioni dei 
		centri commerciali? Il modello del centro commerciale è quello di 
		organizzare la giornata dei clienti dal mattino alla sera, includendo i 
		momenti dello shopping, del cinema, e del divertimento.
		
		Dunque, cosa è l’informatica oggi, se non questa continua costruzione di 
		percorsi predefiniti, e di connessioni capaci di regolare i flussi di 
		informazioni, e tracciare connessioni definite? I gangli della rete 
		divengono in numero sempre maggiore, ma è proprio l’aumentare del loro 
		numero a circoscrivere un campo assolutamente più ristretto. Il sistema 
		presenta, dunque, un’organizzazione per il quale il campo di 
		possibilità, facendosi più complesso, in realtà si restringe, 
		comprimendo lo spazio per la scelta non preordinata, e non inquadrabile 
		nelle maglie delle connessioni del sistema. D’altra parte la gestione 
		effettiva dei server risiede 
		attualmente nelle mani di pochissimi individui.
		Lo 
		stadio attuale dello sviluppo dell’informatica ci indica la natura 
		attuale dell’intero sistema in cui viviamo e di cui ci siamo impegnati a 
		discutere in questo seminario. Il fondamento, per quanto sia ciò che 
		proprio in quanto tale più facilmente viene dimenticato, è ciò che, 
		invece, ci condiziona continuamente. L’immaterialità, l’ubiquitarietà e 
		la struttura a rete[8], 
		caratteri specifici dell’informatica, costituiscono anche quelli della 
		nostra società. Essi si relazionano reciprocamente fino a confondersi. 
		Se quanto all’esperienza relativa all’utilizzo dei mezzi di 
		comunicazione sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un arricchimento 
		nella quantità e nella qualità delle nostre informazioni, in verità, ciò 
		che si nasconde in questa esperienza è che il valore reale di questa 
		nostra esperienza è ridotto a zero. La nostra esperienza si sta 
		modificando radicalmente nel senso dell’intellettualizzazione per via 
		dell’ingente ricezione passiva di flussi di informazioni, e di immagini; 
		la nostra conoscenza del mondo tende, infatti, sempre più, ormai, a 
		coincidere con un passivo stare a guardare il mondo.
		Ho 
		concluso davvero e, ringraziandovi per l’attenzione, diamo ora spazio al 
		dibattito.
		
		DICEMBRE 2012
				
				
				[1]
				Esperienza (parte I), 
				in Città Future, 2012, 
				n°8.
				
				
				
				[2] 
				P. Watzlawick, J. H. Beavin, Don D. Jackson,
				Pragmatica della 
				comunicazione umana. 
				Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, 
				Astrolabio, Roma 1971.
				
				
				[3] 
				J. Baudrillard, Il delitto 
				perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, 
				Milano 1996.
				
				
				
				[4] 
				Riguardo la presunta onnipotenza di dominare con la visione 
				l’intero territorio della terra, non può non venire in mente il 
				Kant della Dialettica 
				trascendentale (in 
				Kant, Critica della ragion pura, Dottrina degli elementi II, ii, Dialettica 
				trascendentale, Libro II, Cap II) quando si impegnò a 
				dimostrare che non si può avere un’esperienza del mondo nella 
				sua totalità, ma solo di singole parti di esso. Riguardo il tema 
				della rappresentazione soggettiva dello spazio si veda anche 
				Merleau–Ponty, 
				Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.
				
				
				
				[5] 
				Il tema dell’ampiezza di dimensione e della burocratizzazione 
				come limiti intrinseci delle società contemporanee non è forse 
				mai stato sviluppato come avrebbe meritato. Uno dei pochi 
				critici di questo fenomeno è senz’altro M. Weber, che a più 
				riprese ne ha sottolineato l’importanza ai fini dell’analisi 
				politica e sociale.
				
				
				
				[6] 
				Questo non vuol dire come dice Ferraris negli ultimi anni che 
				oggi la scrittura abbia vinto. La scrittura in astratto magari 
				sì, ma la scrittura come esperienza no, anzi quell’esperienza 
				della scrittura si sta estinguendo.
				
				
				[7] 
				Su questo si veda anche P. Virilio, ed in particolare
				La bomba informatica, 
				Cortina, 
				 Milano 2000.
				
				
				[8] 
				Si veda M. Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009.