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09
Gennaio 2013

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Esperienza e rappresentazione

ESPERIENZA (PARTE II)

Giulio Trapanese

 

Maggio 2011, Scuola Critica, Biblioteca Brau, Napoli.

 

La seguente costituisce la trascrizione rivisitata della quarta parte del seminario «Esperienza e rappresentazione», tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola Critica.

 

I termini della trasformazione antropologica: individuo, comunicazione, memoria, mondo

Direi, dunque, che alcuni concetti portanti della nostra esistenza, stiano cambiando profondamente il proprio significato e questo anche in virtù dello sviluppo dell’intelligenza artificiale degli ultimi anni. I concetti di individuo, infatti, di comunicazione, memoria e mondo credo potranno essere affrontati con ordine e discussi singolarmente.

Il concetto di individuo. Direi che l’attuale società borghese potrebbe essere rappresentata anche semplicemente come l’espressione dell’evoluzione della società sul contraddittorio presupposto costituito dall’individualismo. Con individualismo mi riferisco, in modo specifico, al principio, sviluppatosi con la modernità in Occidente. La struttura sociale stessa della società borghese in cui noi oggi siamo, infatti, si presenta imperniata attorno al mito illusorio della felicità e del successo (concetti venuti a coincidere per lo più nell’american way of life degli ultimi due secoli) entrambi intesi in un senso sostanzialmente individuale. D’altra parte il computer, di cui abbiamo appena parlato[1], mi sembra non stia facendo altro che rafforzare la struttura individualista della società. In questo modo l’Io come gabbia del sé, odierna fantasmagoria borghese, si candida ad essere la dimensione portante dell’antropologia contemporanea. Si tratta di una struttura, la quale, andatasi sempre più rafforzando, per via anche dell’infrastruttura informatica del mondo, ci sta rendendo individui sempre più cinici convinti come siamo che la vita sia una questione individuale e non sociale. Facebook oggi si pone come l’apogeo della dimensione spettacolare della nostra vita incarnando il principio di un’individualità tendenzialmente svuotata di significato. Un principio che, sebbene provenga da lontano, si va esprimendo oggi in tutta la sua portata nichilista e distruttiva. Se l’Io è solo, è proprio perché nella sua azione tende a ritornare sempre verso di sé, a riferire l’intera esperienza del mondo e i valori, o almeno ciò che un tempo costituiva i valori, alla propria ristretta cerchia di interessi e fragili legami.

Il concetto di comunicazione d’altra parte, tema centrale ai nostri giorni, è stato stravolto negli ultimi anni. Società della comunicazione, quale è definita la nostra, infatti, dovrebbe piuttosto essere concepita come società dell’informazione. La confusione fra i due concetti dimostra chiaramente quella presente intorno al significato odierno di socializzazione. La comunicazione virtuale rende oggi la socializzazione di alcuni contenuti un’attività rappresentativa piuttosto che la complessa espressione fondata sulla condivisione di un senso. Di per sé comunicare non equivale affatto ad informare. L’informazione infatti sta alla comunicazione come il graffito sta al ritratto, e un corpo vivo ad un corpo morto. Comunicare, infatti, non è un’azione, ma piuttosto una modalità dell’esistere. Come scrissero Watzlawick, Beavin e Jackson è impossibile non comunicare[2].Se la comunicazione è un tratto fondamentale dell’esistenza (non si esiste, infatti, se non comunicando la propria esistenza e il modo in cui si esiste) allora il fine stesso dell’esistenza può essere inteso come espressione di sé a gli altri. Un individuo che comunica è un individuo che attesta al mondo senso che attribuisce all’esistenza.

D’altro canto, invece, l’informazione è tutt’altra cosa. Anche un non vivo può informare e la prova di ciò ci viene data dagli schermi delle metropolitane di mezz’Europa in cui vengono diffusi telegiornali informativi condotti da figure umanoidi e voci robotiche. Se, come dicevamo, è impossibile non comunicare, allora anche la roboticità di questi neo presentatori esprime una verità che dovremmo tenere in considerazione e dalla quale dovremmo partire nei nostri ragionamenti: l’uomo è giunto ad accontentarsi veramente di poco, pur di sentirsi dentro un mondo, ed appartenente a qualcosa. Al di là di qualunque giudizio, infatti, non si può negare che non ci sia oggi alcuna seria, per quanto minoritaria, resistenza alla società dell’informazione. Anche il più critico di noi si bea di esistere in una società in cui è possibile venire a conoscenza di più cose che mai e soprattutto, di poterlo fare, in un tempo brevissimo. La base della nostra società è, dunque, quella costituita dall’identificazione di verità e fatto.

D’altra parte, come scriveva Baudrillard[3], ci dovremmo meravigliare di come, sulla base dei meccanismi di selezione naturale, l’uomo non abbia oggi già completamente perso la memoria. Baudrillard lo scriveva quasi venti anni fa e noi potremmo ribattere, invece, che non ci meravigliamo dal momento che è evidente che la memoria, al giorno d’oggi sta svanendo per davvero. La memoria della storia, memoria di sé e degli altri, ricordo della vita. Tutte queste diverse forme di memoria sono in via di estinzione. Se, infatti, il computer ricorda, noi al massimo siamo rimasti in grado di riconoscere cose ricordate (cioè fissate nella memoria) da altri. Il computer immagazzina, e noi recuperiamo ciò che ha archiviato. Come a dire che i padroni non s’occupano più di ciò che gli schiavi fanno al posto loro.

Direi, così, che la liberazione dalla memoria costituisce il paradosso storico più pericoloso che ci stiamo trovando a vivere. Se è vero che siamo oggi nella condizione di non ricordare tutta una serie di cose inutili, lo è anche che, con questa delocalizzazione della memoria, andremo incontro alla perdita della funzione mnemonica anche nel suo senso di costruzione e conservazione di un’identità. Non è un caso che quella che rimane per lo più oggi come identità è un’identità temporanea, necessaria per fini specifici, ma che non resiste a lungo. Avremo a che fare sempre di più con queste nuove forme di identità. Allo sguardo di chi è vissuto nei secoli scorsi queste nuove formazioni caratteriali apparirebbero tout court come personalità senza identità.

Tuttavia, l’elemento di maggiore rimozione riguarda la fatica di guadagnarsi un’identità: trovare un senso alle cose, per quanto esso possa essere fragile e non identico a se stesso per sempre. A differenza delle passate generazioni, quella contemporanea ha una difficoltà incredibile ad individuare chiaramente, nella cerchia delle proprie relazioni, chi siano gli amici, e chi i propri nemici, o come, nella vita, ci si possa difendere, ma senza necessariamente offendere. Oggi “lottare” per il senso comune si identifica con qualcosa di violento, mentre sapere come resistere ha costituito da sempre una prerogativa essenziale per lo sviluppo della soggettività. Riuscire a costruire l’idea di un mondo possibile a fronte del mondo reale che ci si trova di fronte è divenuto qualcosa di molto difficile per un giovane degli ultimi anni. Attestarsi fermamente attorno a dei valori, è divenuta un’esperienza molto più rara. Personalità di un passato non per forza lontano rimarrebbero allibite, da questo punto di vista, del modo in cui le nuove generazioni vivono la loro vita. Un uomo del passato proiettato nell’oggi crederebbe di trovarsi di fronte ad un soggetto molto diverso da sé, addirittura forse non un essere umano. Argutamente si rivolgerebbe forse alle macchine per avere spiegazioni di quanto sia accaduto, riconoscendo così i veri protagonisti della società. Se è vero, infatti, che assomigliamo ancora all’uomo del passato, la nostra mente sta divenendo, in un tempo molto rapido, qualcosa di diverso. Stiamo forse procedendo spediti lungo la catena evolutiva che da Neanderthal in poi ha impiegato milioni di anni a svilupparsi; ma, tuttavia, non sappiamo bene verso cosa stiamo procedendo.

Quanto al mondo, abbiamo detto, il mondo come riferimento oggettivo della nostra esperienza è qualcosa che è in via di estinzione. Con il concetto di “fine del mondo” possiamo indicare il processo in corso di soggettivizzazione estrema dell’esperienza che va a coincidere, al contempo, con il processo della sua rarefazione. L’altro è sempre meno altro e diviene sempre più una mera proiezione dell’Io. Il mondo, così si presenta ormai come un mondo personale, cioè non più comune anche ad altri ma come qualcosa che riguarda la soggettività particolare, e si riferisce, per lo più, ad un’esperienza non condivisibile. Il mondo per un individuo può sussistere oggi solo nella misura in cui venga controllato, neutralizzato, e reso così un’appendice dell’Io. Esso non è più dato nella sua naturalità, ma costruito, piuttosto, come una serie di schermi virtuali a protezione del mondo oggettivo. Mentre ci si crede più forti, la virtualità rappresenta la prova dell’incapacità ad affrontare l’oggettività del mondo e delle relazioni umane con tutta la durezza e l’imprevedibilità che queste comportano.

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Rappresentare è un difetto dell’essere

Riguardo al tema dell’esperienza, vorrei fare riferimento adesso al concetto di mappa. Non valuteremo mai abbastanza, infatti, l’importanza, nel processo della costruzione della nostra identità, del modo in cui siamo in grado di rappresentarci il mondo in cui viviamo[4]. Ai giorni d’oggi, attraverso l’esperienza di Google maps, ci si bea di osservare la conformazione di luoghi presenti nei continenti più distanti. Siamo, infatti, arrivati a determinare un punto di vista sulle cose, e a formulare mappe di qualunque luogo presente sul nostro pianeta (e non solo). Se nel passato si era costretti a procurarsi le mappe dei luoghi dove si era diretti, oggi abbiamo già sempre a disposizione, attraverso i satelliti, cartine che anticipano la nostra esperienza di quei luoghi. La terra è continuamente monitorata da satelliti collocati nello spazio. C’è un controllo totale ciò che avviene sul nostro pianeta per mezzo di questi satelliti. La nostra esperienza si nutre nel quotidiano dell’illusione di possedere tutto il mondo in una semplice schermata del web. La nostra conoscenza, come ormai abbiamo già detto più volte, è una conoscenza astratta dall’attività pratica in un mondo.

Il tema della mappa costituisce un esempio classico di come la rappresentazione non sia già la realtà, né tanto meno possa costituire un’esperienza esauriente di essa. Personalmente posso dirvi che dopo essere stato le prime volte a Parigi, la rappresentazione mentale della città con cui sono ritornato corrispondeva più o meno a quella della mappa (onnipresente) della metropolitana. Più che le sensazioni dei luoghi mi sono ritrovato a ricordare la loro posizione su quel foglio di carta in scala, senza di cui a Parigi si è destinati a perdere completamente l’orientamento. Aggiungo che quella mappa, come la maggior parte delle nostre rappresentazioni odierne, non è che la reificazione dell’esperienza della città, ed ha come effetto quello di sovrastare l’irriducibilità del sensibile.

In ogni analisi dei processi storici, credo sia necessario riconoscere i reali vincoli di appartenenza dei soggetti storici, altrimenti ogni discorso si fa estremamente astratto. Il punto riguardante il presente è dunque riconoscere come la vittoria della borghesia e del suo modo di vivere abbia costituito la base per la rottura dei vincoli tradizionali di appartenenza e dei modi tradizionali di individuazione. D’altro canto, se volessimo approfondire il tema dell’immigrazione nel mondo di oggi, che sarebbe senz’altro un tema da approfondire, potremmo arrivare a sostenere che, per quanto per lo più indotto dalla fame e dalla disperazione, questo fenomeno ci dimostra come una gran parte dei giovani, nei diversi continenti, sia oggi disposta ad accettare un sistema veloce e accelerato di produzione e di vita, avvertendo sempre meno il dilemma morale dell’abbandono del passato, e, al contempo, del luogo della propria origine.

L’immigrato oggi ha un alto valore simbolico: spesso, nei paesi occidentali più ricchi, egli riesce anche ad integrarsi nel sistema economico, tuttavia egli paga il prezzo di perdere la possibilità di conferire un senso politico al proprio agire nel mondo. Con un solo viaggio d’andata, infatti, egli perde la possibilità della politica nella società che lascia, dove avrebbe i legami e il senso di appartenenza per incidere nel mondo, e si colloca in un nuovo mondo, arrivando a costituirne un’ennesima “pedina biopolitica”, al servizio del meccanismo della valorizzazione capitalistica. Dunque la perdita delle forme di appartenenza costituisce un fenomeno fondamentale (direi un fenomeno “tipo”) per comprendere il depotenziamento degli attuali movimenti politici rispetto alla possibilità d’incidere sul mondo. La passivizzazione politica degli immigrati, infatti, è solo l’esempio più eclatante di questo fenomeno più generale. Londra, o Parigi, accolgono un’infinità di immigrati che costituiscono la reale base lavoratrice di quei posti, ma che non esprimono pienamente il proprio peso politico a fronte del loro peso economico, e questo al di là dei meccanismi che rendono oggettivamente difficile la loro partecipazione.

Per avviarci a concludere, delinerei ora qualche breve prospettiva. A questo riguardo la domanda che mi pongo riguarda la possibilità residua che l’esperienza continui a sussistere, al di là dell’invadenza della rappresentazione. A questa domanda, in un primo tempo, risponderei, che è solo nell’esperienza non cosciente che l’esperienza può trovare oggi una possibilità di espressione. Dal momento, infatti, che ci troviamo nella condizione in cui la nostra coscienza, con le sue rappresentazioni, è segregata lontano dal sentire corporeo, il nostro corpo, proprio in virtù di questa distanza, potrebbe riuscire a mantenere un valore di esperienza. Dunque, se prestiamo più attenzione al problema, e proviamo a formulare in termini diversi la domanda, direi che questa potrebbe essere: in che senso una vita lontana dalla coscienza lascerebbe sopravvivere, nonostante tutto, una certa parte dell’esperienza?

La separazione di vita e rappresentazione costituisce un riflesso dell’imponente condizionamento della tecnologia virtuale nella produzione. L’imponenza del sistema, infatti, travalicando ampiamente l’intelligenza dei singoli, che ne costituiscono i singoli ingranaggi, diffonde un enorme sentimento di impotenza tra gli individui che vivono nello scenario attuale: paura di catastrofi ambientali, le crisi economiche, l’angoscia per il futuro, sono tutti i sintomi di un’età di passaggio nella quale si è persa la fiducia in un ordine che regoli le cose. Il sistema presenta un meccanismo talmente pianificato, ed ha assunto, d’altra parte, una dimensione talmente globale che alla grandissima parte degli individui appare ormai impossibile agire in qualche modo per cambiare la propria condizione[5].

D’altra parte, un altro grande tema è che, nella maggior parte delle nazioni, e, sicuramente in quelle occidentali, per le giovani generazioni si va consumando a gran ritmo la consapevolezza di appartenere ad un filo della tradizione e, di far parte, in questo modo di una storia che le precede. Credo questo, in verità, sia a renderli così fragili e insicuri; per loro, e per noi, è la perdita d’ogni tradizione ad essere il presupposto, al contempo, per l’esaurimento della capacità di sperare.

A questo proposito, come già anticipato, il mio intervento di domani sarà dedicato alla proiezione di alcune immagini video. Tra queste, ad esempio, vi è l’intervista ad un ragazzo di oggi e ad un giovane di quaranta anni fa. Vedremo così come la velocità del discorso del giovane di oggi sia maggiore, e come, apparentemente, lo sia anche la sua sicurezza nell’esprimersi. L’espressione dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, d’altra parte, è demandata quasi unicamente alle parole, dal momento che i suoi gesti si trovano ad essere separate da questi. La sua vita non rappresentata e non cosciente, si trova in completa disarmonia con le parole. Il corpo incarna una verità diversa, dove l’espressione è sostanzialmente il prodotto dell’intellettualizzazione. Quanto emerge da queste immagini è che il corpo, come soggetto che sente, non può fare a meno di esprimere il disagio della propria mutilazione. Nella fase di trasformazione antropologica, quale è quella che viviamo, il corpo risulta l’elemento più colpito. Rispetto alle immagini in video, infatti, in quella di quaranta anni fa la persona si esprime in modo più limitato, ed è in grado di utilizzare meno parole, non riuscendo a trovare neppure i termini adeguati. Le sue rappresentazioni sono più confuse e sono piuttosto i movimenti del corpo, posti in relazione ad un certo contesto e ad un certo mondo, che racchiudono la sua esperienza, e gli danno la possibilità di esprimerla. Attraverso il corpo, infatti, egli non esprime concetti teorici, astratti; vale a dire non dà opinioni sulle cose, sui fatti del mondo. egli piuttosto comunica: «Io sono così, dunque la penso così». Non «Io così penso, e quindi sono così». L’essere occupa un posto prioritario rispetto al pensiero e alla rappresentazione. Il carattere di una persona si presenta come il criterio attraverso cui egli giudica i fatti del mondo e le persone. In ogni sua parola, egli rivendica la sua identità. Eravamo in un periodo storico, in cui la sensibilità comune non veniva ancora violata dal dominio di informazioni e rappresentazioni astratte nella misura in cui lo è oggi.

Da questo punto di vista, quindi, la vita al di là della coscienza costituirebbe il punto nevralgico dell’esperienza in via di estinzione. Anche l’esempio di cui abbiamo discusso in precedenza, relativo a Mussolini e Berlusconi, ci fa osservare come identiche parole possano assumere oggi significati molto diversi. Proprio perché viviamo in un regime determinato dalla parola, ogni individuo viene giudicato da quel dice nel momento presente, più che non dai suoi riferimenti di valore. Se guardiamo il corpo di Mussolini e, dall’altro lato, di Berlusconi possiamo segnare la parabola della trasformazione della società italiana negli ultimi sessant’anni. Alla base del fascismo c’è un idea di potere che incarna ancora l’universalità astratta che si impone sulla particolarità della vita dei singoli individui. I movimenti del corpo, ad esempio, come i gesti caratteristici, o il tono di voce adottati tipicamente da Mussoilni dimostrano la presa del simbolico sull’elemento della vita. La figura di Berlusconi, d’altra parte, ci mostra esattamente il contrario. Avendo lo spettacolo come rappresentazione vinto sulla vita di tutti, Berlusconi non si presenta che come un uomo fra tanti, certo una personalità di successo, ma in ogni caso un individuo, non un simbolo.

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Conclusioni del seminario

Per concludere, davvero, indicherei anzitutto due elementi che, in particolare, sono sul punto di estinguersi nella nostra epoca tecnologica. Elementi che, tra l’altro, almeno in apparenza, si presentano come opposti: la scrittura a mano e l’analfabetismo. Entrambi, infatti, sono stati messi in crisi dall’avvento fulmineo della scrittura informatica, che, trasformando il modo della scrittura, sta comportando la trasformazione di alcuni tratti della sensibilità. Il fenomeno dell’analfabetismo, d’altra parte, che pure nessuno rimpiangerà, è in via di scomparsa; ma non per via di un’acculturazione di massa, piuttosto perché la pubblicità, alla base del mondo odierno, ci espone continuamente a marchi e loghi che vanno riconosciuti. Così nessuno ormai si può permettere di non saper leggere. La comunicazione odierna ha, infatti, una parte sempre più scritta[6]; l’analfabeta del passato può oggi impratichirsi esprimendo per iscritto sul proprio profilo facebook i suoi presunti stati d’animo. D’altra parte la vera maestra, e almeno da cinquanta anni, non è più quella delle scuole elementari. Si impara a leggere e a parlare attraverso i dialoghi della televisione (oggi in particolare quelli dei talk show); d’altra parte, come scriveva Pasolini, è la televisione ad aver creato in Italia una nuova lingua, sorta sulle ceneri della varietà dei dialetti presenti nelle più diverse regioni italiane.

Vi proporrei ora due piccoli esempi, anche questi in apparente opposizione l’uno all’altro. Si tratta dei managers di multinazionali, in continuo movimento per lavoro tra continenti o nazioni diverse, e, dall’altro lato dei migranti, anch’essi impegnati in un viaggio, ma di un tipo sicuramente diverso. Entrambe queste figure incarnano, da prospettive ben diverse, la natura della globalizzazione che viviamo, in virtù della quale gli individui sono portati a viaggiare, a spostarsi, e a separarsi da un luogo fisso. A divenire nei fatti nomadi, a perdere un rapporto sostanziale con la propria terra. Se l’immigrazione, allora, per millenni, è stata un’immigrazione collettiva di comunità, da una parte del mondo ad un’altra, la figura del big manager di oggi, d’altra parte, incarna, invece, tipo di uno spostamento individuale continuo, che si nutre e che alimenta l’illusione d’una quasi onnipresenza sull’intera sfera planetaria. Il risultato ultimo è stato quello di produrre un soggetto oramai sradicato per definizione da un contesto territoriale.

Vi inviterei, d’altro canto, a riflettere ad una persona che vive circa otto ore della sua giornata in un aereo, nello spostarsi da un continente all’altro, e a quale relazione possa oramai avere con il mondo. Potrà osservarlo dall’alto, in tutti i sensi, senza poter più appartenere ad un territorio in particolare. Credo sinceramente che tutto questo influisca molto sul cinismo e sul disprezzo per gli altri da parte di queste persone. Una personalità come quella di Marchionne, ad esempio, esprime un violento disprezzo per tutto quanto non rientri nel suo modello unico.

Vorrei comunque spendere le ultime parole sul tema dell’informatica. L’informatica è giunta ad essere la quintessenza dell’attuale società capitalistica esprimendone, al tempo stesso, le potenzialità di società del controllo[7]. Nella società in cui viviamo non è più richiesto agli individui di tener fede ad un vincolo di tipo morale, ma è lo sviluppo tecnico e produttivo a determinare le condizioni dell’azione dei singoli individui. In questo tipo di società il potere strutturante della produzione e dell’organizzazione sociale è in grado di regolare la vita in modo meticoloso. Pensiamo all’organizzazione della vita e del tempo libero al giorno d’oggi. Qual è il modello delle più recenti costruzioni dei centri commerciali? Il modello del centro commerciale è quello di organizzare la giornata dei clienti dal mattino alla sera, includendo i momenti dello shopping, del cinema, e del divertimento.

Dunque, cosa è l’informatica oggi, se non questa continua costruzione di percorsi predefiniti, e di connessioni capaci di regolare i flussi di informazioni, e tracciare connessioni definite? I gangli della rete divengono in numero sempre maggiore, ma è proprio l’aumentare del loro numero a circoscrivere un campo assolutamente più ristretto. Il sistema presenta, dunque, un’organizzazione per il quale il campo di possibilità, facendosi più complesso, in realtà si restringe, comprimendo lo spazio per la scelta non preordinata, e non inquadrabile nelle maglie delle connessioni del sistema. D’altra parte la gestione effettiva dei server risiede attualmente nelle mani di pochissimi individui.

Lo stadio attuale dello sviluppo dell’informatica ci indica la natura attuale dell’intero sistema in cui viviamo e di cui ci siamo impegnati a discutere in questo seminario. Il fondamento, per quanto sia ciò che proprio in quanto tale più facilmente viene dimenticato, è ciò che, invece, ci condiziona continuamente. L’immaterialità, l’ubiquitarietà e la struttura a rete[8], caratteri specifici dell’informatica, costituiscono anche quelli della nostra società. Essi si relazionano reciprocamente fino a confondersi. Se quanto all’esperienza relativa all’utilizzo dei mezzi di comunicazione sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un arricchimento nella quantità e nella qualità delle nostre informazioni, in verità, ciò che si nasconde in questa esperienza è che il valore reale di questa nostra esperienza è ridotto a zero. La nostra esperienza si sta modificando radicalmente nel senso dell’intellettualizzazione per via dell’ingente ricezione passiva di flussi di informazioni, e di immagini; la nostra conoscenza del mondo tende, infatti, sempre più, ormai, a coincidere con un passivo stare a guardare il mondo.

Ho concluso davvero e, ringraziandovi per l’attenzione, diamo ora spazio al dibattito.

 

DICEMBRE 2012

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[1] Esperienza (parte I), in Città Future, 2012, n°8.

[2] P. Watzlawick, J. H. Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971.

[3] J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano 1996.

[4] Riguardo la presunta onnipotenza di dominare con la visione l’intero territorio della terra, non può non venire in mente il Kant della Dialettica trascendentale (in Kant, Critica della ragion pura, Dottrina degli elementi II, ii, Dialettica trascendentale, Libro II, Cap II) quando si impegnò a dimostrare che non si può avere un’esperienza del mondo nella sua totalità, ma solo di singole parti di esso. Riguardo il tema della rappresentazione soggettiva dello spazio si veda anche Merleau–Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.

[5] Il tema dell’ampiezza di dimensione e della burocratizzazione come limiti intrinseci delle società contemporanee non è forse mai stato sviluppato come avrebbe meritato. Uno dei pochi critici di questo fenomeno è senz’altro M. Weber, che a più riprese ne ha sottolineato l’importanza ai fini dell’analisi politica e sociale.

[6] Questo non vuol dire come dice Ferraris negli ultimi anni che oggi la scrittura abbia vinto. La scrittura in astratto magari sì, ma la scrittura come esperienza no, anzi quell’esperienza della scrittura si sta estinguendo.

[7] Su questo si veda anche P. Virilio, ed in particolare La bomba informatica, Cortina, Milano 2000.

[8] Si veda M. Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009.