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09
Gennaio 2013

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Per uno studio del marxismo

LA TOTALIZZAZIONE DEL RAPPORTO DI CAPITALE

Vincenzo Fiano

 

Premessa

Dalla seconda metà degli anni ’80 fino al 1994 un gruppo di comunisti delle province di Napoli e Caserta diede alla luce circa una decina di numeri di una rivista, il periodico marxista Officina, attraverso la quale espressero l’esigenza di rivedere alcuni fondamenti teorici che hanno accompagnato i marxisti nel ‘900 a cominciare dall’interpretazione leninista del capitalismo come sistema morente e prossimo alla dipartita.

Scopo di questo breve saggio[1] è cercare di ripartire, assieme ai marxisti di Officina, da una critica dell’economia politica in grado di muovere una nuova analisi sulla società attuale, individuando successivamente la funzione riservata, in un rinnovato schema teorico, alle migrazioni.

Cercheremo, infine, dei riscontri tangibili focalizzando una situazione concreta e a noi geograficamente vicina: l’Italia meridionale, con particolare riferimento alla “Castel Volturno Area”, tra i territori più significativi dal punto di vista delle migrazioni sul suolo italiano ed europeo.

 

L’imperialismo era la fase suprema del capitalismo: ciò significa che esso, nelle sue condizioni, era arrivato al culmine della propria capacità di valorizzazione e che dunque l’unica speranza di sopravvivenza per i capitalismi fosse lo scontro diretto; effettivamente i fatti andarono in questo modo attraverso la prima e soprattutto la seconda guerra mondiale, ma, secondo il collettivo di Officina, nel compiersi di questi conflitti e nelle fasi intermedie e successive il rapporto di capitale andava modificandosi per ampliare le proprie possibilità di valorizzazione approcciando «territori» finora ad essa sconosciuti; inoltre andava perfezionandosi una capacità di mobilitazione sociale generale che trovava nello Stato la sua maggiore reificazione.

La visione ottimistica leninista, presumibilmente condizionata da un momento storico in cui il lavoro ha veramente «rischiato» di vincere lo scontro col capitale, è legata all’idea di un capitalismo parassitario e putrefatto, limitato nella sua capacità espansiva, che trova nel rentier la sua figura chiave.

Non è nostra intenzione negare che questa sia stata effettivamente una tendenza propria del capitalismo ma non è stata neanche l’unica e nemmeno la più forte: «il secolo xx non è stato solo quello della gigantesca lotta tra capitale e proletariato, ma anche quello della gigantesca lotta del capitale con se stesso» che ha portato ad «ad una terza fase» della sua esistenza, «dopo l’età della concorrenza e quella dei monopoli»[2]. Questa ulteriore fase del rapporto di capitale, non ancora conclusasi, poggia su due piloni principali: la sua propria totalizzazione e l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello planetario.

Possiamo approcciare la totalizzazione partendo da un concetto elaborato dall’area dell’Autonomia Operaia e divenuto poi, come abbiamo visto, uno dei capisaldi dell’attuale teoria negriana: la dislocazione produttiva del valore, ossia il tramonto della produzione centralizzata fisicamente in unità produttive dalle dimensioni gigantesche e la sua disseminazione sociale. Mentre Negri iniziava già allora a scorgere nel proletariato il protagonista della storia nonché soggettività egemone in questa trasformazione, per Officina questo passaggio è appannaggio della capacità del capitalismo di cercare sempre nuove forme di valorizzazione attraverso un «movimento estensivo del rapporto di capitale» che penetra nuove sfere della vita che precedentemente gli erano sottratte, in particolare tutto ciò che riguarda il settore dei servizi: è in essi che oggi si rinviene «la principale allocazione dell’attività intellettuale e scientifica», divenuta «l’obiettivo vero del capitale»[3].

Giungiamo in questo modo al nodo della produzione immateriale, che si distingue da quella materiale per la mancanza di autonomia che l’esistenza concreta del suo prodotto mantiene nei confronti dell’attività che lo produce. La sua differenziazione rispetto quella materiale si intreccia spesso con la distinzione marxiana tra lavoro «produttivo» e «improduttivo»: «è produttivo solamente quell’operaio che produce plusvalore per conto del capitalista, ossia che contribuisce all’autovalorizzazione del capitale»[4]. Con ciò non si sostiene che le due differenziazioni esprimano in realtà la stessa cosa: la produzione materiale può anche essere capitalisticamente improduttiva, anche se ormai questa possibilità è praticamente scomparsa, così come la produzione immateriale può considerarsi produttiva, anche se in modo indiretto.

Secondo Lucia Pradella, in Marx la valutazione esatta della produttività del lavoro emerge guardando la cornice complessiva dell’«organismo produttivo generale […]. La definizione di lavoratore produttivo rimane valida per il lavoratore complessivo, ma non per ogni suo membro isolatamente preso»[5]. Nella prospettiva marxista che nulla vuol concedere all’ipotesi della disseminazione della produzione diretta del valore, le mansioni improduttive sono comunque espressioni dell’antagonismo tra capitale e lavoro per via della condizione di salariati dei propri lavoratori, ma restano d’altra parte inesorabilmente improduttive se non collocate nel meccanismo generale, dove sono al servizio della produzione industriale di merci che resta il perno della valorizzazione capitalistica; esse esprimono perciò un valore indiretto nella misura in cui creano condizioni più favorevoli alla sua formazione: il loro valore consiste perciò in una proiezione dell’aumento del valore reale che, grazie al loro apporto, si riesce a raggiungere nel lavoro produttivo. In ogni caso anche queste attività vengono definite sotto la forma del lavoro salariato che «si generalizza anche a lavori non immediatamente sussunti al capitale»[6].

Secondo gli autori di Officina, invece,

 

in tempi anche recenti, parte delle attività lavorative […] era svolta o controllata da classi diverse da quelle originate, direttamente, dal rapporto di produzione capitalistico, queste classi si sviluppavano e vivevano come forze produttive non immediatamente interne a quel rapporto. […] L’insegnamento, ad esempio, o la distribuzione, erano attività svolte da classi non borghesi, né [da] proletari[7].

 

Quindi, al contrario di altri settori produttivi che, come la manifattura, vennero immediatamente risucchiati nella sussunzione formale, le mansioni cui Officina fa adesso riferimento sono state per lungo tempo colte solo tangenzialmente dal capitalismo e ricompensate ancora con forme di reddito, mentre oggi rappresentano i nuovi “territori” in fase di inclusione nell’estensione orizzontale del rapporto di capitale.

La manifestazione concreta di tale processo lo si vede dalla drastica riduzione dell’esercizio come libera professione di attività rientranti nei «grandi settori del “terziario”: energia, comunicazioni e trasporti, scolarizzazione, ricerca scientifica, assistenza e previdenza sociale. In essi si è costantemente attivata la moltiplicazione, la innovazione e la diversificazione delle prestazioni»[8], sotto il segno di una crescente salarizzazione della forza lavoro in esse impiegata che sta provocando il peggioramento delle sue condizioni che prima la situavano in un livello intermedio tra ceto medio e proletariato.

Questa tendenza è rilevata da Officina sin dalle sue prime “uscite”:

 

Grafico 1 – Come cambia l’occupazione in Italia

 

 

Fonte: Diamo a Marx quel che è di Marx, in Officina n.2, gennaio 1988, p. 8.

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Oggi, a distanza di oltre vent’anni, questa tendenza nella situazione occupazionale italiana è andata sempre più approfondendosi: secondo l’Istituto Censis, «nell’ultimo decennio, a fronte di una crescita del lavoro dipendente di 2.406.000 unità (+16,2% tra il 1999 e il 2009), i lavoratori autonomi sono diminuiti di circa 200.000 unità (-3,8%), portandone l’incidenza complessiva sul totale degli occupati dal 26,6% al 24,5%»[9].

A questa estensione orizzontale inizia a seguirne una in profondità del rapporto di capitale che corrisponde alla sussunzione reale di tali mestieri al capitale stesso. Fondamento di tale movimento è la crescente alienazione che emerge da due aspetti relativi alle attività interessate da questo processo: innanzitutto da esse «deve uscire un prodotto» che «deve avere un valore» e «dentro la sua composizione di valore ci deve essere una quota derivante da un plus-lavoro, ovvero da un lavoro non retribuito»; il primo livello dell’alienazione deriva quindi dall’estrazione di plus-valore, mentre il secondo interessa invece la separazione sempre più netta del lavoratore dalla proprie abilità lavorative: la sottomissione reale del lavoro al capitale è intesa come «passaggio dal lavoro concreto, dove l’erogatore conserva le proprie abilità e la conoscenza del processo lavorativo, al lavoro astratto, dove l’erogatore è pura energia»[10].

Marx ribadì più volte che, con l’aumento delle macchine e della divisione del lavoro, «il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaio perde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produttiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nessuno sforzo fisico e mentale»[11].

È solamente a questo punto, secondo gli autori di Officina, che nella fase della totalizzazione si compie il processo di trasformazione dei “semplici” salariati in proletari a tutti gli effetti: la determinazione di “proletario” emerge, infatti, solo da un rapporto particolare tra lavoro morto e lavoro vivo in cui quest’ultimo perde definitivamente le proprie abilità concrete in favore della macchina, al cui servizio invece si pone ormai lavoro astratto da parte del lavoratore.

Ebbene, l’estensione in profondità di questo rapporto di capitale che fino a poco fa riguardava soltanto il lavoro materiale, di fabbrica, oggi si sta volgendo anche all’attività intellettuale grazie al costante avanzamento della tecnologia informatica in grado di generare macchine che catalogano e archiviano arrivando finanche a progettare. Le macchine, o meglio il sistema macchinino sempre più automatizzante, scalza l’essere umano dal ruolo di soggetto principale nella caratterizzazione della produzione, così come previsto da Marx che nel frammento sulle macchine preconizzò la riduzione del lavoro dell’operaio «a una semplice astrazione di attività […] determinata e regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario, e non viceversa»; nello stesso passo viene poi evidenziato il ruolo dell’Individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza[12].

Siamo nel punto cruciale del ragionamento: gli autori di Officina vedono nella figura dell’Individuo Produttivo Sociale (ips) la chiave di lettura principale della nuova fase capitalistica.

Nel ciclo del capitale D-M-DI indicante la trasmigrazione del valore in varie espressioni concrete, il valore-lavoro veniva immediatamente trasmesso all’oggetto-merce, mentre oggi esso «passa prima per la sua trasformazione in individuo produttivo sociale»[13], definibile come l’insieme dei processi produttivi del capitalismo che tengono conto dei rapporti di produzione, della forza lavoro disponibile, del grado di sviluppo del sistema macchino e dell’effettiva mobilitazione del corpo sociale, ed espressione dunque della combinazione del valore-lavoro prodotto nei tantissimi segmenti produttivi, in tendenziale estensione a tutta l’attività umana, specialmente nel terziario.

È questa sua peculiarità a renderne complessa l’espressione numerica: la sue reificazioni finali che protraggono il processo di valorizzazione sono sempre le merci, ma non possiamo pensare al suo valore complessivo come alla somma del valore di ogni singola merce: il plusvalore

 

determinabile come quota valore in qualsiasi merce, è diventato una realtà compiutamente bi-dimensionale: una parte, progressivamente quella più piccola, è data dal plus-lavoro immediato; un’altra, progressivamente quella più grande, è data da quote parti di tutto il plus-lavoro sociale»: è questo l’Individuo Produttivo Sociale, configurabile a questo punto come “un vero e proprio coefficiente, storicamente variabile ma comunque descrivibile in termini matematici[14].

 

L’ips è dunque un fattore moltiplicatore della generale capacità produttiva sociale e, secondo Officina, segna l’ingresso nella fase, prevista da Marx, in cui «la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro». Tale potenza dipende «dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione»[15].

Ciò significa che oggi ha sempre meno senso parlare dell’incidenza indiretta del lavoro “improduttivo” nella definizione del valore: giacché la produzione di valore (e di plusvalore) ha davvero abbattuto gli argini conquistando progressivamente tutti le dimensioni dell’esistenza; eppure, se la parabola teorica sembra qui riportarci da Negri ed Hardt e alla produzione di valore oltre misura, va ricordato che il valore espresso dall’ips ha la funzione del coefficiente, in qualità di valore sociale generale che diviene un agente moltiplicatore del valore specifico delle merci. Lo scontro sul valore è tutt’altro che tramontato.

La formula per indicare il plusvalore “semplice” è:

 

Pv = L - V

 

dove L sta per il lavoro complessivo e V per il valore necessario alla riproduzione della forza lavoro; nella fase della totalizzazione del capitale la formula diviene complicatissima perché Pv adesso non deve riassumere solamente la differenza tra L e V a cui concorreva indirettamente il lavoro improduttivo, perché Pv è diventato Pv·x , dove x sta per quel coefficiente che riassume in sé la potenza degli agenti, la cui determinazione, a parere di Officina, non è impossibile ma risulta davvero complicata: se qui fossimo in grado di dedurre la formula equivalente, probabilmente staremmo scrivendo Il nuovocapitale.

L’ultimo aspetto generale che si vuol approfondire della fase della totalizzazione del rapporto di capitale è il ruolo dello Stato, da non intendersi qui come astratto “potere politico” concettualmente separato da quello economico e soprattutto proiezione di quest’ultimo in una sovrastruttura: l’attuale forma capitalistica, stringendo molto di più i legami tra questi due campi che «si reggono a vicenda, non come in passato restando in due sfere separate, implica infatti una dimensione produttivistica dell’oppressione e una dimensione oppressiva della produzione». Essa dunque opera confondendo entrambe «nei medesimi luoghi e riducendo tutto (tendenzialmente) ad un unico luogo produttivo/oppressivo»[16].

Nel corso di questa tesi[17] abbiamo visto come lo Stato sia stato dato per sovranità moderna ormai superata, anche se nella forma e non nelle funzioni, da Negri ed Hardt; siamo poi tornati indietro a Marx, di cui abbiamo indirettamente evidenziato l’individuazione dello Stato come il pilastro dell’accumulazione originaria del capitalismo; adesso, per riconfigurarne il ruolo secondo il pensiero di Officina dobbiamo ripartire nuovamente da Lenin e dalla sua teoria sulla «trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato», la cui oppressione delle classe lavoratrici «acquista dimensioni sempre più mostruose»[18] e il cui operato organizzativo-militare risultava sempre più indispensabile alla sopravvivenza del capitale.

In Officina la grande guerra è considerata come il momento storico che sancisce definitivamente la fine dell’epoca dello Stato “liberale”, risultato efficace nella costruzione di apparati polizieschi e nell’attuarsi della colonizzazione, ma al tempo stesso inadeguato a rispondere ad ulteriori esigenze: tra queste segnaliamo la spinta crescente di un proletariato sempre più numeroso, una società sempre più complessa da gestire e soprattutto l’articolazione di una borghesia sempre più forte ma incapace di consolidare i propri interessi come classe collettiva.

La grande guerra fu un evento importante per il capitale: la produzione nei paesi belligeranti fu interamente riorganizzata e condotta a pieno ritmo, avendo lo Stato come acquirente sicuro[19]: la guerra

 

diviene totale nel senso che impegna e finalizza l’intera economia e tutta quanta la società civile. Le nazioni diventano degli enormi produttori, la produzione sociale si combina e si integra al massimo grado; l’individuo produttivo sociale previsto da Marx diviene finalmente concreto; ed alla guida di questo processo, cuore e cervello del processo stesso, si pone lo stato[20].

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Inizia qui il processo di totalizzazione del rapporto di capitale, la cui prima fase possiamo ritenerla chiusa con la crisi del 1929.

La seconda fase vide generarsi vari modelli organizzativi dello Stato volti al superamento della crisi quelli più interessanti ed estremi furono il new deal e il nazismo, tra i quali si posero gli altri paesi capitalistici su livelli intermedi.

Sorvoliamo sulla considerazione di Officina sull’urss che, in questa seconda fase, è considerata ugualmente aderente ai processi di riorganizzazione statale nei processi di totalizzazione con la specificità di elementi prettamente socialisti: il discorso andrebbe qui ad allargarsi a macchia d’olio e ci distoglierebbe eccessivamente dall’indirizzare la nostra ricerca su un ambito specifico.

Ci focalizziamo qui sul capitalismo americano e sulla sua figura chiave in quel frangente: John M. Keynes, secondo il quale bisognava porre sotto la guida dello Stato l’organizzazione dell’ampliamento della circolazione del capitale e anche buona parte della sua realizzazione, mediante grandi investimenti, ad esempio, nelle opere pubbliche; la successiva distribuzione dei salari avrebbe così rimesso in moto l’economia. Dall’applicazione di questo modello si deduce che lo Stato ha, o ambisce ad avere, la potenza di «poter assumere in proprio la gestione produttiva di quantità di capitali che nessun capitalista privato avrebbe mai potuto concepire», nonché di «poter assoggettare al lavoro per la valorizzazione del capitale milioni e milioni di uomini spinti fuori dai circuiti produttivi»[21].

Questa capacità nel secondo conflitto mondiale, quale terzo momento del processo di totalizzazione, viene notevolmente estesa e portata ad una maggiore profondità: il caso del nazismo ne è l’esempio più interessante: solitamente si bolla questo regime come una follia, frutto di delirio e irrazionalità; esso fu invece figlio legittimo anche se non riconosciuto del capitalismo, sua propria applicazione particolare in un contesto «di una guerra generale, con occupazioni territoriali prolungate, e che ha il fine di realizzare in un breve lasso di tempo un impero poggiante su due pilastri: un’industria d’avanguardia in madrepatria e un’agricoltura intensiva nelle zone dominate»[22]. Per questo, ciò che spesso è rappresentato come “un passo indietro” dell’umanità è invece una proiezione verso il futuro, o meglio verso uno dei possibili futuri che riserva lo sfruttamento capitalistico in una delle sue eventuali concretizzazioni.

La quarta fase del processo che stiamo analizzando si prolunga nel secondo dopoguerra fino al 1971 e trova i suoi momenti costitutivi nella ricostruzione postbellica e nell’innesco più determinato del processo di mondializzazione del capitalismo quale sistema economico e sociale che va estendendosi all’intero pianeta. Arriviamo così all’ultimo stadio, quello in cui è apparentemente più difficile credere in un ruolo forte dello Stato per via di due elementi: il crescente potere delle multinazionali e degli organismi sovranazionali e le continue privatizzazioni con le quali esso sta progressivamente cedendo importanti settori dell’economia storicamente “pubblici”: con queste motivazioni, i governi nazionali sono spesso raffigurati come «relitti galleggianti nei flussi agitati dalle forze economiche globali»[23].

Ciononostante, secondo Officina, la fisionomia del capitale nella fase della totalizzazione è ancora quella nazionale e l’intervento dello Stato, oltre a non scomparire del tutto dal punto di vista quantitativo, va incrementandosi qualitativamente: esso «è l’unico che può ancora garantire […] il funzionamento, la riproduzione e il controllo dell’individuo produttivo sociale» mentre «nessun capitalista, nessun singolo spezzone di capitale, per quanto forte, grande e influente, può assumere questo ruolo»[24]. Dunque, lo Stato rimane il pilastro degli interessi del capitalista collettivo, capace di interagire con l’intera società e interpretando questo ruolo come controllore, regolatore ed ispiratore delle operazioni dell’Individuo Produttivo Sociale, incoraggiando particolari settori dell’economia anche con investimenti diretti, rendendo possibili aumenti sempre maggiori della produttività e scardinando le possibilità di autodifesa della forza lavoro. In pratica, l’obiettivo dello Stato non è più, come negli anni del new deal, la gestione immediata di ampi spezzoni della produzione, bensì quello di essere l’apice direzionale della società, il garante del funzionamento generale dell’ips; a questa tendenza centripeta che fa dello Stato il timoniere sociale ed economico, corrisponde anche una forza centrifuga che invece diffonde orizzontalmente la gestione di una produzione che è sempre più segmentata: «in questo momento la totalizzazione forma ed amplia una propria entusiastica base sociale, quella piccola borghesia gestionale che è così ben visibile nel pubblico impiego, ma che non manca neppure nelle aziende private»[25]. Tale borghesia non rientra nella definizione di “aristocrazia operaia” perché quasi del tutto estranea ai meccanismi produttivi e rivolta solo alle funzioni di controllo e sorveglianza.

Possiamo fornire un esempio concreto di questa gestione bidirezionale del capitale rifacendoci ai recenti sviluppi della politica economica in Italia. Qui la fiat, con i referendum promossi a Pomigliano prima e a Mirafiori poi, ancora una volta ha giocato il ruolo di ariete per l’introduzione della possibilità di accordi specifici a livello aziendale che deroghino dallo Statuto dei Lavoratori, confermandosi così avanguardia della borghesia imprenditoriale italiana. A quel punto il Governo ha tracciato la nuova rotta generale: nella Manovra Finanziaria 2011 è comparso l’Art. 8 che, di fatto, svuota lo Statuto dei Lavoratori della sua efficacia avallando «contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazione dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale»[26].

È chiara in questo esempio la centralità del ruolo dello Stato: la fiat, importante rappresentante del capitalismo italiano, pur avendo il “merito” di aver creato il precedente, non sarebbe mai riuscita a penetrare la società, il mondo del lavoro e delle contrattazione con la stessa portata di intensità ed estensione che può avere lo Stato. La sua funzione non corrisponde più alla gestione diretta della maggior parte della produzione: esso ne deve invece tracciare la rotta, spianarle la strada, controllarne i processi, correggerne gli errori.

La tesi di Officina, dunque, segna un utilizzo continuo e al tempo stesso sempre diverso dello Stato da parte del rapporto di capitale: inizialmente esso, dominato dai suoi impulsi della libera concorrenza, se n’è servito come un bastone nodoso che, con le sue sporgenze del colonialismo, dei tributi, del debito pubblico e del protezionismo ha seminato distruzione e accumulazione originaria; coi monopoli esso è diventato una lancia con cui forzare sempre nuovi territori fino a compiere la spartizione del mondo; si è ulteriormente mutato in pistoni e fucili che hanno organizzato una produzione sempre più combinata e conflitti mondiali tra le popolazioni; già in queste fasi, però, il capitale ancora vi lavorava giorno e notte come uno scultore modella in continuazione la sua opera più pregiata, trasformandolo nella sua forma generale contemporanea: la bacchetta del direttore d’orchestra che gestisce i movimenti dell’Individuo Produttivo Sociale.

 

NOVEMBRE 2012

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[1] Il presente articolo è in larga parte tratto dalla tesi in Filosofia politica intitolata L’officina delle migrazioni, movimenti migratori e sviluppo capitalistico. In particolare si tratta del primo paragrafo del iv capitolo, che analizza la “fase di totalizzazione del rapporto di capitale”, come recita il titolo dell’articolo [N.d.R.].

[2] Il rapporto totale di capitale, in Officina n. 6, gennaio 1990, p. 3.

[3] Ibidem, p. 4.

[4] K. Marx, Il Capitale, Newton, Roma 1996, p. 372.

[5] L. Pradella, L’attualità del Capitale, Il Poligrafo, Padova 2010, p. 66.

[6] Ibidem

[7] Tornando a Marx per riprogettare il futuro, in Officina n. 6, gennaio 1990, p. 3.

[8] Ibidem, pag. 4.

[9] CENSIS, 44° Rapporto sulla situazione sociale del paese, Franco Angeli, Milano 2010.

[10] Ibidem, p. 5.

[11] K. Marx, Lavoro salariato e capitale, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2009, pp. 61, 62.

[12] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, quaderno VI, pp. 33-39, in:

http://www.sitocomunista.it/marxismo/Marx/grundrisse/Marx_Karl_-_Grundrisse_3c_-_Il_Capitale.pdf

[13] Tornando a Marx per riprogettare il futuro, in Officina n. 6, gennaio 1990, p. 7.

[14] La crisi economica nell’epoca del rapporto totale di capitale, in Officina n. 9, marzo 1993, p. 12.

[15] Marx, Lineamenti fondamentali della …, cit., p. 38.

[16] Due o tre cosette da ripensare insieme, in Officina n. 9, marzo 1993, p. 2.

[17] Vedi nota 1, [N.d.R.].

[18] V. Lenin, Stato e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 55.

[19] Tale questione è trattata nel Cap. i della tesi [N.d.R].

[20] Lo stato imperialista nel xx secolo, in Officina n. 3, luglio–settembre 1988, p. 6.

[21] Ibidem, p. 25.

[22] Il vero imputato è il capitalismo, in Officina n. 0, giugno 1987, p. 17.

[23] J. Brecher, T. Costello, Contro il capitale globale – Strategie di resistenza, Feltrinelli, Milano 2001, p. 29.

[24] Una presentazione necessaria (di Bukharin e di noi stessi), in Officina n. 3, giugno 1988, p. 11.

[25] Il rapporto totale di capitale, in Officina n. 6, gennaio 1990, pag. 8.