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09
Gennaio 2013

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Sessualità e famiglia oggi

L’IMMAGINARIO SESSUALIZZATO COME COSTRUZIONE MEDIATICA

Cenni sul sessismo cognitivo nei media

Eugenio Maddalena

 Sesso, consolazione della miseria!

La puttana è una regina, il suo trono

è un rudere, la sua terra un pezzo

di merdoso prato, il suo scettro

una borsetta di vernice rossa:

abbaia nella notte, sporca e feroce

come un'antica madre: difende

il suo possesso e la sua vita.

(Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961)

 

Premessa

Quando pensiamo al termine “società” immediatamente ci balena alla mente l’immagine di un corpus organico, funzionale, che scorre nei suoi meccanismi e ingranaggi in maniera fluida: ogni tassello è necessario ad un altro come un puzzle che alla fine mostra una figura ben definita. Questo tipo di ragionamento, come è ovvio, è assolutamente semplicistico e fuorviante ma non è una “colpa” pensare in questi termini. È piuttosto una “modalità” di rappresentare le cose che ci è stata messa davanti attraverso la creazione e la diffusione di una serie di stereotipi vuoti.

Per spiegarmi meglio non posso fare a meno di riportare quanto scrivevano negli anni settanta Berger e Berger sul processo di socializzazione:

 

la socializzazione è un processo attraverso il quale l’individuo giunge ad una maturazione umana completa e alla realizzazione del suo massimo potenziale. La socializzazione è un processo di iniziazione ad un mondo sociale, con le sue forme di interazione ed i suoi numerosi significati[1].

 

Qui gli autori si concentravano soprattutto sulla formazione del “bambino”, della sua crescita e maturazione, di come sarebbero venute fuori le sue categorie interpretative, di come avrebbe compreso il mondo circostante e, come lo avrebbe esteriorizzato.

Gli autori fanno riferimento ad un universo simbolico in cui il “bambino” agisce, analizza, tocca, annusa, osserva, dialoga, immagina… in due parole “interpreta attivamente”.

È proprio sul concetto di interpretazione che voglio porre l’attenzione. Il nostro “leggere” le cose avviene attraverso una sorta di corridoio che ci porta in varie direzioni, creato da pareti che altri hanno edificato per noi (o meglio che altri hanno imposto che ci costruissimo in un dato modo), pareti che nemmeno ci accorgiamo di avere grazie al bombardamento che riceviamo dal mondo dell’infosfera dal quale attingiamo quotidianamente. La tesi che riporto in questo elaborato è proprio questa: il nostro modo di introiettare – e poi di esteriorizzare – la sessualità, il mondo definito astrattamente come “femminile”[2], le relazioni con l’altro sesso e la sua monodimensionalità in un quadro di dominio maschile sono prodotti creati da noi e per noi[3], da un’esigenza che risponde ai bisogni di riproduzione del capitale.

Devo necessariamente specificare cosa si intende qui per “capitale” per evitare spiacevoli fraintendimenti: ciò che intendo è l’insieme totale di valore di tutte le merci determinato dal valore reale (di scambio) di una merce e dal suo plus-valore. Il plus-valore di una merce è immediatamente collegato alla costruzione dell’immagine stereotipata della donna nell’era mediale contemporanea attraverso quello che viene chiamato – con toni incomprensibilmente referenziali – “marketing”, ma a questo ci arriveremo tra poco. Prima dobbiamo necessariamente passare per il concetto di “fruizione mediale” che non subirà una trattazione antropologica (come ben dovrebbe in altre sedi), ma piuttosto si focalizzerà su come esso viene strumentalizzato in senso performativo da un certo tipo di classe, che impone i propri valori e – per quel che concerne l’elaborato – i propri gusti.

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Il ruolo della percezione e in particolare della fruizione delle immagini

Franco “Bifo” Berardi nel 2006, nell’ ambito di un’introduzione ad una ricerca sul mediattivismo affermava che

 

chi intende comunicare con la nuova generazione videoelettronica deve tener conto di come funziona il cervello collettivo post-alfabetico, tenendo conto dell’avvertimento di McLuhan: nella formazione culturale il pensiero mitico tende a prendere il posto principale rispetto alle forme del pensiero logico-critico[4].

 

Per “pensiero mitico” qui si intende l’astrazione non ragionata e cristallizzata di ciò di cui fruiamo attraverso il visibile contrapposto all’intellegibile, ovvero il processo della mitizzazione in quanto tale. In altre parole, quando ci troviamo di fronte ad un testo scritto il nostro cervello elabora le informazioni in modo critico, le confronta con le altre conoscenze di cui fa parte il “tipo scritto” e le interpreta in quella particolare funzione; nel momento in cui, invece, ci troviamo di fronte ad immagini, che ci scorrono davanti costantemente e le recepiamo in modo passivo (esempio su tutti il rotocalco televisivo dei consigli per gli acquisti) la nostra mente crea delle categorie, le modella e le relega nel “magazzino” dei meccanismi interpretativi.

Le “immagini” con cui ci troviamo a rapportarci tutti i giorni, penso in modo particolare alle pubblicità, ma anche ad alcuni servizi o programmi televisivi, radiofonici, ad alcune canzoni o ai videoclip delle stesse, hanno un valore performativo, per non dire didascalico. Gli input – in particolar modo quelli visivi – a cui siamo sottoposti quotidianamente contribuiscono a formare le nostre rappresentazioni collettive e il nostro senso comune.

Laura Corradi, nel suo recente libro “Specchio delle sue brame” ci fornisce una descrizione dell’invasività quotidiana di input, riferita alle pubblicità:

 

Siamo esposti ogni giorno a messaggi commerciali su giornali, riviste, televisione, radio, strade, autobus, stazioni; coprono edifici, tabelloni e negozi; entrano nelle nostre case, in volantini, dépliant, computer, cellulari. Permangono nelle nostre menti come residenti particolari, si annidano nei nostri ricordi. Nessuno/a è esente dallo show[5].

 

Il problema è di carattere semiotico. Gli input che riceviamo sono sostanzialmente sistemi di segni che divengono “icone” interpretabili. Il pubblicitario che concepisce queste icone sa bene l’effetto che crea – ad esempio in una pubblicità – se pone un’automobile in un contesto di campagna (target: famiglie) o la stessa in uno scenario di fulmini e tempeste in cui l’autovettura resiste al clima impervio (target: i giovani). Il carattere cognitivo della visualità è ben spiegato da Marina Ciampi nel suo recente lavoro sulla sociologia visuale:

 

Nella cultura occidentale moderna vedere vuol dire sapere, conoscere: è ormai indiscusso che vi sia stata e vi sia ancora una forte egemonia dello sguardo nella costruzione della conoscenza. L’uomo mediante il complesso sistema visivo interagisce con il mondo esterno: tutto ciò che lo circonda e viene mediato dalla percezione visiva lo modifica, ma nel contempo egli condiziona il proprio ambiente nel continuo rapporto comunicativo con gli altri individui[6].

 

Proprio in questo rapporto comunicativo/dialettico ritroviamo il valore performativo: le immagini “annidate” stanno lì nascoste, a fare il loro lavoro e cioè a modellare “i gusti” e a introiettare un certo tipo di immaginario. Se io decido di comprare quell’automobile di certo non penserò esplicitamente “quella macchina resiste ai fulmini quindi sono cool”, ma qualcosa dentro di me mi porterà a quella scelta perché sono “cognitivamente” (leggi: inconsciamente) sensibile a quel tipo di input.

Su questo principio si basa il marketing contemporaneo, sull’ “immagine che rimane”, sul logo che crea un’ideale nel quale rispecchiarsi – si registrano casi di persone che negli anni novanta si sono tatuate il logo dell’azienda “Nike” perché li faceva “sentire sportivi”[7] – e altre retoriche similari. Cosa ha a che fare tutto questo con la creazione della “femminilità”, o meglio di ciò che è comunemente sentito come “femminile”, relegato alla sfera del “gentil” sesso o di certe tipizzazioni? Cosa ha a che fare questo con il sessismo e con l’accettazione comune del “dominio maschile”? E cosa c’entra con il plus-valore accennato nella premessa? Ancora una volta trovo comodo, oltre che opportuno, far rispondere a Laura Corradi:

 

Curve femminili, sospiri voluttuosi, sguardi intriganti sono adoperati per pubblicizzare sigarette, alcolici, automobili e via via per tutti gli oggetti, dai più esclusivi ai più accessibili. […] Da corpi completamente vestiti fino ai nudi, da posture tradizionali fino a quelle oscene, dall’esposizione di gambe e scollature fino alle angolature più rilevanti: l’intimità femminile ha perso ogni segreto ed è stata riscoperta come valore aggiunto per la merce[8].

 

Se le categorie che ci fanno da modello (che prendiamo come simbolo e ideale da imitare), se ne facciamo un habitus e se esse si insinuano inconsciamente attraverso processi di medializzazione servi del marketing, non siamo forse “educati” da quel modello? L’educazione del visivo passa anche attraverso la sessualità, o meglio in quello che pensiamo debba essere: una sessualità arbitrariamente canonica e non esente da “perversioni” (in senso lato), etero-normata dove il dominio maschile regna incontrastato. Prima di passare ad una breve rassegna di casi concreti, è bene specificare che la questione del “valore aggiunto” all’interno della merce è insita nel concetto di marketing definito come:

 

l’insieme delle attività e dei metodi volti a una migliore commercializzazione dei beni e dei servizi prodotti da una società, basati su ricerche di mercato che consentono di determinare le politiche più opportune di prezzo, distribuzione, vendita, pubblicità, ecc.[9].

 

Come è ovvio questo tipo di attività ha un costo, che comporta un aumento del prezzo del bene in termini di “valore di scambio”. Non è solo una questione di prezzo tangibile, ma anche di “valore d’uso”: dato che la pubblicità imprime un’ideale alla merce, chi ne usufruisce non penserà solo all’utilità oggettiva ma anche a quella simbolica infusa dal brand (ad esempio «stile, tecnologia e libertà» della pubblicità della Hyundai ix35[10], oppure, per rimanere in tema di sessismo, lo spot della Renaul Twingo Miss Sixty[11] in cui si proclama che la «competizione è femmina»), il quale si sentirà legittimato ad alzare il prezzo e – quindi – a destinare il prodotto a questa o a quella classe sociale.

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Un paio di esempi concreti

Qui di seguito verrà proposta un’immagine pubblicitaria che non è particolare o diversa dalle altre, anzi rappresenta proprio una tipica sponsorizzazione – in questo caso della marca Sisley – per il vestiario (ma potrebbe essere di qualunque altra cosa, dal caffè alle saponette, dal dentifricio a un portasigari):

C:\Users\Eugenio\Desktop\ysty040608009.jpg

 

Lo studio della dimensione denotativa, unita a quella connotativa, in un’immagine passa per il linguaggio iconico: cioè i singoli elementi presenti nella foto che possono rimandarci a significati non “altri” rispetto al significante (ad esempio la giacca elegante può darci l’idea del “lusso”). Oltre all’analisi iconica bisognerà provvedere a quella iconografica, cioè allo studio del significato generale dell’immagine, una volta messi insieme i vari elementi iconici (ad esempio, l’idea del lusso unito a un’idea di sfruttamento del corpo femminile ci da l’idea di una casa chiusa).

Entrando nello specifico dell’immagine e volendo unire insieme la dimensione iconica con quella iconografia, possiamo isolare alcuni elementi che ci forniscono un’interpretazione classista e sessista dell’immagine: il vestiario dell’uomo è elegante, di “classe”, impreziosito da gioielli vari tra cui la croce – che qui non ha alcun valore religioso, semmai è un richiamo ad un certo tipo di immaginario hip hop proprio del “ghetto” che è salito di classe diventando oggetto di lusso – e l’orecchino; la donna indossa un “body” trasparente che non nasconde nulla, la testa rivolta verso il basso e girata rispetto a “chi scatta la foto” (notiamo che il fotografo è ben presente all’interno di questa narrazione grazie al flash stampato sulla parete) è una posa di “vergogna per ciò che si sta facendo”, una vergogna ovviamente solo femminile contro l’ostentazione fiera del maschio dominante; la parete nera suggerisce che non si tratta di un luogo domestico, sembrerebbe la parete di un locale e quindi un momento di vita notturna e di trasgressione; l’azione è che l’uomo tocca i glutei della donna con la compiacenza/vergogna di quest’ultima e con la conseguente soddisfazione machista dell’uomo.

Cosa ci insegna un’immagine di questo tipo? I messaggi che si insinuano nelle nostre menti sono ovvi e lo sono proprio perché da anni subiamo l’interiorizzazione di certi concetti eteronormativi, sessisti e in questo caso anche classisti dato gli accessori (gioielli, etc) indicano che il ceto elevato può permettersi “quella vita”, connotata da quel vestiario. La donna che deve nascondere il volto dall’obiettivo è un elemento, ovvio, di inferiorità nei confronti dell’uomo, che invece si mostra fiero di ciò che sta facendo, di ciò che sta possedendo e che addirittura si fa fotografare: l’uomo è orgoglioso, elegante, ricco, curato contrapposto alla donna che è monda, impudica, colpevole e quindi “clandestina”, nascosta, accusabile, inequivocabilmente inferiore. L’antropologa Françoise Héritier, a questo proposito, ci ricorda che

 

Alla voce Donna, il Grand dictionaire du xix siècle (1866-76), poco più di un secolo fa, scriveva: «in che cosa consiste l’inferiorità intellettuale della donna? […] Che cosa le manca? Il fatto di produrre germi, ossia idee», assimilando, con un rapido giro di pensiero e di scrittura, l’idea creatrice al seme riproduttore. L’inferiorità intellettuale femminile è quindi postulata di primo acchito, senza che la si debba indagare: niente seme, niente germi, niente idee, ritrovando, senza doverla elaborare concettualmente, la nozione quasi universale di una continuità tra materia celebrale e materia seminale[12].

 

Se consideriamo il mezzo stampa del Grand dictionaire come mezzo mediatico e di modellamento culturale (delle élite, al tempo), sembra che non sia cambiato molto: l’inferiorità femminile è riprodotta ossessivamente dalle pubblicità, dai giornali e telegiornali, da un certo tipo di immaginario legato alla musica pop – che di fatti è più marketing che cultura, più “hype” che sostanza – attraverso un linguaggio iconico per nulla subliminale. Propongo al lettore di provare a fare analisi di questo genere (sulla dimensione iconica/iconografica) in tutti i luoghi pubblici in cui gli capiti di incontrare cartelloni pubblicitari o qualunque altra cosa abbia un rilevanza mediatica. Si stupirà delle innumerevoli volte che incontrerà messaggi classisti, razzisti e soprattutto sessisti.

Prendiamo ora in considerazione un articolo on-line[13] (a firma di Franco Bechis) del noto quotidiano Libero, in particolare l’immagine ad esso associata:

 

C:\Users\Eugenio\Desktop\culona merkel.jpg

 

L’immagine fa da corredo al titolo La culona Merkel ha distrutto l’euro. Anche questo articolo non sfugge alle logiche di mercato dato che il titolo stesso – con immagine annessa – fa da auto-marketing in termini di “visualizzazioni” e perpetua e riproduce esattamente la stessa logica della pubblicità commerciale. Non vi era infatti alcuna necessità del termine “culona” (se non forse quella di appoggiare il termine usato anche da Berlusconi qualche giorno prima per descrivere il cancelliere tedesco) che diventa ancora una volta didascalico: infatti la “culona”, con il suo peso e con le sue mutandine con bandiera tedesca, ha distrutto la moneta unica. Addirittura si associa il peso della donna (dal sedere grosso e “ridicolo”, ci tengo a sottolinearlo) alla crisi economica come se ne fosse una causa, in un paese nel quale fenomeni come l’anoressia e il vomito auto-indotto sono in costante aumento.

In verità si potrebbero fare innumerevoli esempi: dalla “colonna della vergogna di la Repubblica.it” sul lato destro che, tra foto di animaletti e foto di sport, inserisce costantemente ritratti di modelle semi-anoressiche o notizie gossippare corredate da un certo immaginario maschilista, fino al vestiario e al look scelto dalle anchor-women dei vari telegiornali sempre più assecondanti dello stereotipo di “donna in carriera” (il cyborg Lilli Gruber è un esempio su tutte), ma credo siano superflui dato che il nocciolo di ciò che volevo evidenziare è già stato disvelato con una certa ridondanza.

 

Breve conclusione

Quello che ho cercato di far trasparire da queste poche pagine è il carattere didascalico dei media e di come questo alimenti il sessismo, ogni giorno, perpetuandolo ai fini della riproduzione del capitale: pubblicità, visualizzazioni, share e audience sono tutti lati della stesso quadrato. Lati che sono

costruttori della realtà sociale, poiché rendono più visibili, e quindi rafforzano a livello simbolico, determinati comportamenti sociali e categorie, così come ne celano e ne mettono in secondo piano altri, decretando gerarchie e valori[14].

 

In particolare, i valori posti gerarchicamente in alto riscontrati nei casi presi in esame, a titolo di esempio, hanno un carattere etero-normativo, orientati all’inferiorizzazione della donna e legati ad un sistema di advertising che serve alla produzione e riproduzione del capitale in termini di “visualizzazioni web” e “marketing”/vendita della merce. Attraverso esso si muovono virtù e gusti che sono di proprietà intellettuale di classi sociali dominanti e cioè di chi ha il potere di influire nei media: una sorta di “oligarchia della mal costume imprenditoriale” che non risparmia l’uso del corpo della donna per trarne profitto e veicolare il “senso comune” (in accezione gramsciana) in direzioni precise.

 

NOVEMBRE 2012

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[1] P.L. Berger, B. Berger, Sociologia – la dimensione sociale della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1977, p. 74.

[2] In contrasto con un altrettanto astratto mondo “maschile”.

[3] Non intendo qui soffermarmi su retoriche deterministiche del tipo “è nato prima l’uovo o la gallina”.

[4] F. Berardi, Skizomedia: tre decenni di mediattivismo, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 8.

[5] L. Corradi, Specchio delle sue brame: analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo, Ediesse, Roma 2012, p. 26 [corsivo mio]

[6] M. Ciampi, La Sociologia Visuale in Italia. Vedere, Osservare, Analizzare, Bonanno Editore, Roma 2007, p. 25.

[7] Casi di questo genere sono narrati da Naomi Klein nel suo fortunato No Logo.

[8] Corradi, cit., pp. 28 e segg. [corsivo mio].

[9] Definizione di “marketing” presa da De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2000, p. 1467.

[10] http://www.youtube.com/watch?v=sdmsQfzUBkM, url consultato il 29/11/2012 alle ore 12:32.

[11] http://www.youtube.com/watch?v=G9-n16CHxU4, url consultato il 29/11/2012 alle ore 12:37.

[12] F. Héritier, Maschile e femminile, il pensiero della differenza, Editori Laterza, Bari 2010, p. XI.

[14] S. Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, Milano 2006, p. 9.