Esperienza e rappresentazione
ESPERIENZA E RAPPRESENTAZIONE NEL MONDO SENZA TEMPO
Il dibattito
Giulio Trapanese
		Riportiamo qui la trascrizione, con 
		alcune correzioni e aggiunte del dibattito avutosi al termine del 
		seminario del Maggio 2011, Esperienza e rappresentazione nel mondo senza 
		tempo. Riportiamo alcuni degli interventi più significativi di quella 
		giornata tra cui, nell’ordine in cui compaiono, quelli di Raffaele De 
		Stasio, Vincenzo Del Core, Anna Fava, Nanni e le relative risposte. Con 
		questo testo concludiamo la serie degli interventi pubblicati relativi 
		al seminario.
		Raffaele: 
		La mia domanda riguarda, anzitutto, il modo in cui credi di procedere 
		con questa ricerca. Per quanto il discorso abbia, senza dubbio, dei 
		tratti apocalittici, credo, però, esistano e vadano cercate le 
		contraddizioni interne al sistema che hai descritto. Tra i vari concetti 
		messi in campo esistono passaggi logici quasi immediati, e alcune 
		contraddizioni possono essere sviscerate meglio.
		
		Giulio: 
		Posso dirti che al momento attuale è la prima volta che propongo questo 
		discorso ad un pubblico; qualche mese fa scrissi un articolo su
		Città future dal titolo 
		appunto Esperienza e 
		rappresentazione nel mondo senza tempo, ma quel testo rappresentò 
		più un inizio e un insieme di spunti suggestivi, lo considero un germe 
		di pensiero, più che uno studio compiuto. Al momento non so, o non so 
		ancora, come continuare la ricerca. Spero comunque di averne la 
		possibilità, e di trovare il tempo e il modo di riuscirci.
		Quello di cui sono, tuttavia, fermamente 
		convinto è che una tale ricerca andrebbe svolta in modo collettivo; 
		diciamo alla maniera di come ci organizziamo con la rivista
		Città future o, anche, di come 
		stiamo provando, con difficoltà, a muoverci con quest’associazione
		Scuola critica.
		Il discorso sul presente è un discorso 
		complesso; e non solo, forse, perché è la nostra storia. Tra coscienza 
		ed interpretazione, da un lato, e realtà storica, dall’altro, si va 
		disfacendo lo stretto nesso che sussisteva fino a qualche anno fa. Sarà 
		anche perché siamo europei e l’Europa e le categorie su cui noi ci 
		fondiamo non sono più le categorie “del 
		mondo” (d’altro canto la terza rivoluzione industriale è la prima 
		non “europea”), sarà che la realtà, intesa come forma informatica del 
		mondo attuale, presenta un tempo altro dai tempi del nostro pensare 
		tradizionale; fatto è che non riusciamo (o riusciamo solo per pochi 
		momenti) a soffermarci in una data interpretazione del reale e ad 
		approfondire quella. Tutto ci sfugge, ma soprattutto tale fuggevolezza 
		non costituisce più un problema.
		Già parlare di collettivo al lavoro, 
		forse, può apparire antiquato, superato. Quando si dice oggi di fare le 
		cose insieme, s’intende principalmente di farle “in 
		connessione” gli uni con gli altri, di creare una rete; chiaramente, 
		tuttavia, ciò non significa farle insieme. Significa, soprattutto, 
		invece, scambiarsi informazioni, o mettere insieme pezzi prefabbricati 
		di lavori di individui isolati gli uni dagli altri. Significa sostituire 
		ai vecchi concetti di individuo e di gruppo, la nuova configurazione 
		della rete.
		Quindi, discorso collettivo sì; tuttavia 
		essendo consapevoli dell’ambiguità che riveste questo discorso per noi, 
		oggi, inseriti come siamo nella società della comunicazione e 
		dell’informatica.
		Credo di poterti rispondere, quindi, 
		dicendo che personalmente ho delle linee di sviluppo in mente per questa 
		ricerca, così come credo che alcuni dei collaboratori della rivista e i 
		membri di Scuola critica 
		abbiano delle loro; e sono convinto che in giro per il mondo ci sia chi 
		discute di queste cose; ma credo, pure, che il destino della ricerca 
		sulla trasformazione repentina di alcuni tratti dell’esperienza umana 
		dipenda molto dalla forza e dalla debolezza interiore di chi si sta 
		volgendo a pensare a queste cose, da quanto il dolore inconsapevole per 
		la perdita dell’umano non sia più forte della volontà di comprendere 
		cosa stia accadendo.
		
		Vincenzo: 
		Io, invece, rispetto ad uno dei temi, in particolare, che tu hai 
		trattato, la virtualità intesa come astrazione dall’esperienza, ti 
		chiederei di porlo, se possibile, in connessione con la più ampia storia 
		del capitalismo. A me sembra esserci una certa relazione fra i due…
		
		Giulio: 
		È una domanda difficile, anche perché presupporrebbe un’essenza unitaria 
		presente fin dall’inizio in un fenomeno, invece, complesso e variegato 
		(in quanto fenomeno storico) quale è il capitalismo. Direi, quindi, sia 
		difficile desumere dalla natura immateriale (cioè informatica) della 
		rivoluzione industriale in corso, uno spirito primordiale di tale natura 
		già nel primo capitalismo. D’altro canto se pensiamo al carbone, oppure 
		alla siderurgia o alla trasformazione del petrolio nei suoi derivati, è 
		difficile sostenere che il capitalismo sia andato sviluppandosi sul 
		binario dell’astrazione dalla materialità del mondo. Tuttavia, se una 
		connessione vogliamo stabilirla (per quanto detta così non so se sia 
		corretto) dovremmo probabilmente introdurre, piuttosto, il concetto di 
		reificazione. Cioè la terza rivoluzione industriale pone le basi per una 
		nuova – ed ulteriore – forma di reificazione dei rapporti umani, la 
		rappresentazione del loro essere sociale su d’un piano virtuale 
		dell’esperienza, dove con virtuale dovremo intendere una riproduzione 
		simulata d’un’esperienza originariamente umana.
		
		Vincenzo: 
		Che intendi con riproduzione simulata?
		
		Giulio: 
		Penso al fatto che la virtualità (dal telefono cellulare agli ultimi 
		social networks) riproduce qualcosa che non è estraneo all’umano (ad es. 
		chiacchierare, scambiarsi notizie, mettersi in mostra, cercare un 
		fidanzato o fidanzata, fare politica), ma lo fa in una maniera simulata, 
		cioè imita un aspetto della relazione umana, lo traspone su di un piano 
		altro, astraendo dal fenomeno alcune determinate caratteristiche e 
		lasciandone da parte altre. Così facendo, e, cioè, fornendo una 
		traduzione della relazione umana, sostenendo tuttavia di riprodurla 
		semplicemente per come è, e magari su scala più ampia, finisce con il 
		dare della relazione una certa rappresentazione la quale, a sua volta, 
		diviene modello per ogni altra relazione. Per cui l’astrazione compiuta 
		a partire da un modello di base diviene essa stessa un modello 
		dell’esperienza che ne era all’origine, e, dunque,
		tout court “ideale d’ogni 
		relazione”.
		Non è nulla di così complesso e, d’altro 
		canto, non è una mia idea originale: si tratta di pensare a come la 
		nostra esperienza si riconosca ormai in una forma che è sempre più 
		“rappresentazionale”, cioè legittimata di diritto ad astrarre da alcuni 
		tratti cui siamo stati abituati a considerare essenziali rispetto 
		all’umano.
		Vincenzo: 
		Ad esempio? Pensi al corpo?
		
		Giulio: 
		Sì, ma non solo; adesso, ad esempio, pensavo solo al fatto che nessuno 
		si rende più conto che le parole sono solo la superficie del mondo, così 
		come della personalità di un individuo. O meglio, dovrei dire degli 
		individui, per come essi erano…
		
		Vincenzo: 
		Cioè tu adesso consideri che le persone si siano trasformate… le vedi 
		come sola astrazione, parole, immagine di se stesse… e nient’altro?
		
		Giulio: 
		No, o non solo. Però io credo che la trasformazione della relazione 
		umana dipendente dalla virtualità rischi di portare ad un vero e proprio 
		rimodellamento dell’umano, in cui l’esperienza condivisa non è più un 
		sentire insieme, ma un rappresentarsi da soli un certo significato del 
		mondo.
		L’esperienza condivisa di due o più 
		individui contemporanei, temo, sia più prossima a quella di softwares 
		elettronici connessi fra loro che a quella di un gruppo di animali, ad 
		esempio, facenti parti di un branco… Qualcuno potrebbe aggiungere che 
		non è detto che sia peggio… io mi sentirei di rispondere che, forse, non 
		è né meglio né peggio, ma di sicuro esprime un senso dell’esistere molto 
		diverso da quello del passato.
		
		Vincenzo: 
		Però bisogna dire che le macchine sono state create dagli uomini, quindi 
		in quanto prodotto umano, hanno un che di umano...
		
		Giulio: 
		Sì, infatti, il problema non sono le macchine, o almeno non
		lo sono quanto gli uomini che le creano. Cioè, lo studio delle 
		macchine semplicemente ci interessa in quanto esse sono il prodotto del 
		nuovo uomo. Bisognerebbe soffermarsi su questa simbiosi fra uomo e 
		strumento elettronico e guardare al fatto che a me sembra evidente che 
		la macchina elettronica “servendo” l’uomo, lo cambia e, come dicevo, 
		trasforma alcune delle sue funzioni essenziali.
		L’uomo che si fa servire, per quanto da 
		strumenti che egli ha inventato, cambia la sua posizione nel mondo, 
		diviene inabile come soggetto, e, abdicando al suo ruolo, 
		progressivamente s’indebolisce, limita i suoi orizzonti, accontentandosi 
		solo di non estinguersi fisicamente, quando nei fatti, invece, 
		culturalmente lo sta già facendo…
		
		Raffaele: 
		Io vorrei aggiungere un elemento che, in apparenza, è in controtendenza 
		rispetto a questo discorso. A me sembra che, almeno da un certo punto di 
		vista, il sistema attuale producendo umanità sulla base di 
		rappresentazioni, determini più che un appiattimento sulla realtà data, 
		uno slittamento continuo verso il piano delle possibilità. Sparendo la 
		realtà, dunque, tutto diviene possibile. Per essere propositivi 
		bisognerebbe capire se e come è possibile che gli individui si rendono 
		conto di questo processo…
		Giulio: 
		Credo di poterti rispondere che non sopravvaluterei l’aspetto della 
		coscienza nel rapporto fra l’uomo e la società del suo tempo. Credo vi 
		sia piuttosto un rapporto di opacità, in cui solo raramente penetra un 
		po’ di luce. È difficile che una gran parte degli individui giunga a 
		realizzare cosa muova alla radice la società in cui vive; ma non è 
		questo, a mio avviso almeno, il punto. Si tratta di valutare quale sia 
		la disponibilità “istintiva” ad opporsi ad un certo stato di cose. In 
		particolare osservando quali siano, in una certa società, le diverse 
		forze in campo, i diversi gruppi e la consistenza delle loro idee, la 
		loro capacità di perseguirle, l’efficacia della loro organizzazione 
		etc... Questo in via generale…
		In modo specifico, rispetto al nostro 
		mondo, credo che uno dei principali ostacoli all’assunzione d’una certa 
		consapevolezza sia da ascrivere, come ho detto, alla nuova forma di 
		intelligenza che si va diffondendo tra le nuove generazioni. 
		Un’intelligenza, come abbiamo detto, slegata dalla dimensione della 
		fisicità e della finitezza. Un’intelligenza, quella dell’uomo, ormai 
		artificiale, fondata quasi solo sull’associazione di rappresentazioni 
		già date, e incapace di porle a critica.
		La creatività stessa dell’espressione è 
		così sottoposta a dura prova: basti pensare alla creatività connessa al 
		nostro parlare quotidiano. Nei filmati vedremo domani, ce n’è uno di 
		Pasolini (tratto dal suo film documentario
		Comizi d’amore del 1965) in cui egli intervista alcuni siciliani. Ad un certo punto 
		uno degli intervistati, non riuscendo ad esprimersi correttamente, per 
		comunicare il suo pensiero inventa una parola. A proposito dei giovani 
		degli anni sessanta, per indicare la loro intraprendenza, pronuncia la 
		parola “prontismo”. “Oggi c’è più prontismo” dice, intendendo con questo 
		la maggiore intraprendenza della generazione dei giovani. Dunque, 
		all’assenza di un vocabolario completo egli provvede con una vera e 
		propria invenzione linguistica.
		
		Raffaele: 
		Vorrei proporre ancora un’altra suggestione, che riguarda la 
		superproduzione di rappresentazioni. In
		Uscite dal mondo, Zolla sostiene che il ricorso continuo di oggi al 
		piano della virtualità potrebbe comportare come effetto il 
		perfezionamento della capacità di elaborare le proprie esperienze 
		interiori, rendendo possibile un passaggio collettivo ad un livello più 
		alto di consapevolezza. Io credo che questa contraddizione che stiamo 
		analizzando fra l’esperienza e la rappresentazione, potrebbe anche, in 
		ipotesi, provocare una rottura del sensorio condizionato ed aprire ad 
		una nuova possibilità di sentire. Dunque l’iperproduzione che si fonda 
		su un flusso continuo di notizie, informazioni, potrebbe anche, 
		contrariamente a quanto sta avvenendo adesso, favorire l’instaurarsi di 
		un livello più elevato di coscienza sul mondo…
		
		Giulio: 
		Devo dirti che il concetto di uscita o fuga dal mondo, per come mi 
		sembra la intenda Zolla non mi convince molto, né mi sembra – ma lo dico 
		a partire dalla mia esperienza – che la sovrapproduzione di 
		rappresentazioni stia portando ad un affinamento della sensibilità 
		comune.
		Certo, è innegabile che un giovane 
		d’oggi abbia una capacità di tollerare un alto numero di informazioni (e 
		quindi di stimolazioni) più che un uomo del passato; e, pur tuttavia, 
		sono dubbioso che ciò sia qualcosa di più che una risposta d’adattamento 
		e che comporti un ispessimento reale della sua personalità. Diciamo pure 
		che tutto mi sembra vada nella direzione opposta, in quella della 
		semplificazione.
		Detto questo, devo ammettere che 
		assistiamo a qualcosa che ancora non riusciamo a decifrare in modo 
		chiaro... c’è in atto un cambiamento radicale della vita che le stesse 
		“categorie di ieri” rischiano di deformare, nel tentativo di fornirne 
		un’interpretazione…
		Vorrei ora porre alla vostra attenzione 
		un elemento ulteriore. Ricordo come Toni Negri in un’intervista del 2003 
		discutesse di come le forme della nuova tecnologia siano state frutto 
		del desiderio delle masse di instaurare forme nuove di comunicazione; in 
		base a ciò la rete di internet e l’informatica, in generale, sarebbero 
		sorte grazie all’espressione d’una creatività latente presente fra le 
		masse. In più circostanze, anche in alcuni suoi testi scritti, egli ha 
		esposto questa tesi. Vorrei dirvi che, per quanto interessante, non 
		sento di poter condividere questa posizione. Una cosa è, infatti, il 
		dato del desiderio di costruire nuove relazioni (ed anche nuove forme di 
		relazione) che infrangano i limiti oppressivi dei rapporti sociali 
		precostituiti dalla tradizione; altro è discutere il modo in cui 
		oggettivamente tali forme si siano venute creando, anche 
		indipendentemente dalla volontà dei singoli attori (ma non certo 
		indipendentemente dall’egemonia di pensiero dei ceti dominanti). E sulla 
		base di questo mi trovo in disaccordo con Negri.
		Tornando alla tua domanda iniziale, 
		Raffaele, rispetto a come questa ricerca potrebbe proseguire, mi 
		sembrerebbe molto utile allora discriminare singoli campi di indagine, 
		anche un po’ ristretti, a che possano rendere bene il tipo di 
		trasformazione antropologica cui siamo di fronte. Mi viene da pensare a 
		volte a come sarebbe interessante svolgere uno studio sui tempi del 
		linguaggio quotidiano, prendendo in esame l’accelerazione in atto che si 
		verifica rispetto solo a qualche decennio fa. Il nostro discorso ha 
		interiorizzato il frame della 
		pubblicità; e mi sembra, d’altro canto, che noi oggi parliamo, nei 
		fatti, imitando la pubblicità...
		Raffaele: 
		In effetti non è solo il frame tipico della pubblicità, è proprio la distruzione 
		dell’articolazione sintattica...
		Ma vorrei anche aggiungere un elemento 
		che non è stato ancora approfondito. In Italia, come negli Stati Uniti, 
		il passaggio alla società dei consumi compiutosi in modo pressoché 
		definitivo a metà degli anni settanta, si pone lungo una linea di 
		continuità con l’epoca successiva, la nostra, caratterizzata dalla 
		tecnologia e dall’informatica. Dunque gli anni ottanta e novanta non 
		sono affatto caduti dal cielo, ma sono la prosecuzione di un processo 
		già compiutosi nella sua essenza negli anni settanta. Bisogna, dunque, 
		saper proporre un’analisi della realtà adeguata al cambiamento dei 
		tempi. L’uso, ad esempio, che la scuola di Francoforte fece della 
		psicoanalisi, oggi va integrato con i nuovi apporti delle neuroscienze, 
		le scienze biologiche e la psicologia sociale e del profondo. Questo 
		studio così articolato ci permetterebbe di comprendere anche meglio la 
		drammaticità della nostra condizione. Ci permetterebbe di giungere alla 
		consapevolezza che la colonizzazione oggi si va compiendo su tutti i 
		livelli dell’esperienza umana.
		
		Giulio: 
		Sì, coscienti del fatto che alcuni aspetti dell’innovazione tecnologica 
		procedono a passi spediti. Oggi 
		facebook, ad esempio, utilizza un certo numero di applicazioni; 
		domani saranno il doppio.
		Tra queste probabilmente spiccherà 
		quella che renderà possibile la localizzazione degli utenti connessi 
		tramite un telefono cellulare. In un prossimo futuro non solo potrò 
		leggere tutti i messaggi sulle bacheche virtuali dei miei contatti, ma 
		potrò anche sapere dove questi si trovano in un dato momento. Come 
		dicevamo, il mondo diviene sempre più qualcosa che mi è “a 
		disposizione”…
		
		Raffaele: 
		D’altra parte il capitalismo se non espande il campo della propria 
		influenza non può continuare ad esistere, per questo il suo è un moto 
		perpetuo, continuo.
		Inoltre, va sottolineata un’altra 
		questione: la questione demografica. Da quando si è affermato, con la 
		rivoluzione industriale, il trend dell’esplosione demografica, questo 
		non si è più fermato, e, nei fatti, oggi la questione demografica è uno 
		dei parametri essenziali per poter ragionare di società e politica. La 
		popolazione mondiale cresce perché sono aumentate la tecniche di cura 
		della salute, e si è innalzato il livello medio, ma cresce anche perché 
		è necessario alla produzione che cresca.
		
		Giulio: 
		Fai bene a porre l’accento sulla questione demografica, perché è una 
		questione centrale; però credo non sia così sicuro che gli strateghi del 
		capitalismo mirino oggi ad una crescita demografica esponenziale. 
		D’altro canto è vero che rispetto al passato e alla civiltà contadina 
		c’è una gran differenza: anzitutto prima il tasso di mortalità infantile 
		era molto più alto, dunque concepire un figlio era una speranza, e non 
		una certezza; in secondo luogo un individuo non si sentiva mai del tutto 
		fuori luogo, “in più”, dal momento che le sue braccia potevano essere 
		comunque braccia di lavoro utili. La differenza con il mondo tardo 
		industriale fu messa bene in luce da Pasolini quando considerò alla base 
		del senso di colpa dei giovani degli anni settanta lo spaesamento di 
		essere di troppo, senza un posto nel mondo. Se fare un figlio in passato 
		poteva avere davvero il senso di mettere al mondo, cioè di donare una 
		vita nuova, oggi i figli…
		Raffaele: 
		…i figli oggi sono maledetti.
		Giulio: 
		Sì, nel senso che il mondo non ha bisogno di nuovi individui. L’umanità 
		non vive più ponendosi dei veri e propri compiti, e, dunque, non ha 
		bisogno che vi siano nuove generazioni che continuino e compiano l’opera 
		dei padri.
		
		Raffaele: 
		Passando ad una discussione più specificamente politica, vorrei 
		chiederti di dire qualcosa in più rispetto alla differenza fra le 
		rivoluzioni di ieri e le possibili rivoluzioni di oggi, rispetto al tema 
		dello spazio, e del rapporto fra locale e globale.
		
		Giulio: 
		Quello che intendevo è che un cambiamento storico del passato avveniva 
		necessariamente all’interno di un contesto circoscritto, determinando 
		solo successivamente, ed eventualmente, effetti su una scala più ampia. 
		Questo rendeva possibile (e necessario) un processo di mediazione delle 
		idee, e di assimilazione delle stesse da parte dei soggetti interessati. 
		Oggi tutto questo si pone in termini diversi, ed è difficile immaginare 
		oggi un processo analogo a quelli più classici che la storia ha 
		conosciuto. La realtà in cui viviamo sembra piuttosto presentarsi come 
		un insieme di tante provincie facenti capo ad un centro che, però, è 
		immateriale.
		
		Raffaele: 
		Credo, d’altra parte, che dopo aver detto quello che stiamo dicendo, non 
		sia scandaloso considerare l’impossibilità della rivoluzione al momento 
		attuale.
		
		Giulio: 
		Beh, bisognerebbe intendersi prima sul concetto di rivoluzione e cosa 
		intendiamo quando pronunciamo questa parola. In ogni modo, se teniamo 
		fermo il principio che esiste una contrazione degli spazi in cui si 
		coniugano esperienza politica e teorizzazione creativa, e in generale 
		una tendenza all’ibernazione della storia come processo culturale, 
		rimane da dire, certo, che una rivoluzione è difficile da immaginare. 
		Almeno una rivoluzione del sistema capitalistico in quel senso che fino 
		agli anni sessanta sembrava avere ancora una possibilità d’attuazione. 
		Una rivoluzione leninista, in quel senso lì, direi di no, se non altro 
		per il ruolo che può avere oggi un’ideologia o un partito.
		Nella storia del Novecento lo stesso 
		concetto di egemonia ha subito un’evoluzione: quella classica, pensiamo 
		a Lenin, è quella di un gruppo o un partito che conquista con la sua 
		azione il popolo ad una certa visione del mondo e della politica. Questa 
		concezione è stata, in parte, corretta da Gramsci, il quale, anche nel 
		testo che vi ho riportato nella dispensa[1], propone in 
		effetti una teoria più complessa delle società occidentali. L’egemonia 
		oggi non si presenta nella forma di processo: il sistema in quanto 
		produttore di rappresentazioni, riesce ad astrarsi dalla storia e il 
		capitalismo non è più un sistema percepito storicamente. Su questa base 
		oggettiva, e non più, quindi, solo ideologica, esso fonda il suo 
		dominio.
		
		Nanni: 
		Io vorrei, in riferimento anche agli eventi degli ultimi mesi del 
		Maghreb, sottolineare, invece, la centralità della questione della 
		comunicazione. Perché nonostante lo strapotere informativo di oggi, in 
		questi paesi si è creato un movimento che ha mantenuto una propria 
		autonomia. Allora io mi chiedo: è possibile trovare dei mezzi che 
		contrastino questo dominio incontrastato, trovare una prospettiva 
		alternativa? È possibile, cioè, utilizzare i nuovi mezzi di 
		comunicazione ai fini di scardinare questa chiusura dell’universo di 
		pensiero?
		
		
		Giulio: 
		Nanni, ti rispondo osservando come negli ultimi anni ciascun attivista 
		politico sia divenuto al tempo stesso un media attivista, vale a dire è 
		impegnato a trasmettere immediatamente la propria esperienza al di là 
		della ristretta cerchia di persone che vi si trovano attorno. Deve 
		comunicare ciò che fa, altrimenti non esiste. Questa svolta è stata 
		necessaria per via del cambiamento degli ultimi anni. Sia nelle rivolte 
		maghrebine, che in piccolo, nelle mobilitazioni degli studenti italiani 
		di quest’ultimo Dicembre [2010 Ndr], abbiamo assistito chiaramente alla 
		necessità da parte del movimento in lotta di creare in modo autonomo la 
		propria rappresentazione mediatica.
		Proporrei, a questo punto, un 
		approfondimento del piano strettamente politico. Con la democrazia di 
		massa, infatti, comincia a porsi la necessità di una diffusione 
		capillare di rappresentazioni in ogni ganglio della società. Nessuno 
		spazio può essere lasciato fuori dal campo del consenso politico. Nelle 
		nostre democrazie la partecipazione non è resa possibile attraverso la 
		distribuzione degli strumenti culturali necessari ad essa, ma è imposta, 
		sul modello del mercato, come inclusione degli individui nella sfera 
		della comunicazione; alla pari di come si è tirati dentro il circuito 
		dei consumi, così la politica democratica di oggi è uno spettacolo cui 
		siamo obbligati ad assistere. Ciascuno è obbligato ad avere un’opinione 
		su tutto.
		Si capisce, ora, come internet si sia 
		inserito in questo quadro. E di conseguenza è facile concludere come la 
		partecipazione politica oggi non possa prescindere, per nessuno, 
		dall’utilizzare questo strumento e dallo stare dentro la rete. Così 
		chiaramente anche per i movimenti di protesta e di lotta.
		La differenza che sussiste oggi rispetto 
		alla situazione di quaranta anni fa è enorme. Allora un partito politico 
		importante era in grado di convocare una piazza per una manifestazione; 
		come è evidente, invece, in questi ultimi anni i partiti hanno perso 
		progressivamente la capacità di essere avanguardia nei processi di 
		trasformazione sociale: essi sono costretti ad inseguire i processi che 
		accadono in società. Dunque, riguardo alle trasformazioni delle forme 
		della politica, sulla base di quanto detto finora, credo si tratti di un 
		cambiamento assolutamente maturo, e radicato in profondità nella nostra 
		società. Se, come si dice, oggi c’è una diffusione
		rizomatica del potere (anche 
		se ciò andrebbe spiegato meglio), allora la resistenza anche deve avere 
		un carattere capillare e diffuso. Sicuramente internet offre a questo 
		riguardo opportunità interessanti, che vanno in questa direzione. Detto 
		questo, rimango fermo nella convinzione che l’elettronica, con i suoi 
		derivati, ci stia cambiando in un modo radicale, e più di quanto non 
		immaginiamo. Internet può essere pure lo strumento in cui esprimere e 
		diffondere su temi specifici un controcanto al potere politico, ma non 
		ci si deve illudere che la forma 
		internet non sia tutta dentro la nuova forma dei rapporti sociali 
		odierni, in cui la comunicazione fra individui è costretta ad essere 
		fondamentalmente (dentro e fuori da internet) una comunicazione di tipo 
		virtuale.
		La cosa più importante è criticare la 
		convinzione che oggi la risposta all’insoddisfazione del presente possa 
		essere sostituire la rappresentazione dominante con un’altra 
		rappresentazione. Il discorso sul futuro stesso della democrazia, credo, 
		riguardi il ruolo delle informazioni e delle rappresentazioni nel 
		determinare la coscienza degli individui.
		Si tratterà, infatti, di superare il 
		monopolio della rappresentazione, e non di sostituire un tipo di 
		rappresentazione ad un altro. Bisognerà ricostituire l’elemento 
		dell’esperienza sociale in modo nuovo, o meglio, cercare dove, in quali 
		contesti e in quali modi essa si vada costituendo ancorandosi ad un 
		qualche senso di appartenenza. Ritrovare, cioè, dei nobili modi di 
		sentirsi appartenenti al mondo.
		Se ammettiamo possibile ancora, come 
		alcuni credono, una rivoluzione socialista di tipo classico, dovremmo 
		chiederci quale sarebbe il primo atto del nuovo potere costituito. Come 
		prima cosa io immagino che il leader faccia un discorso alla televisione (di stato o meno, non 
		importa). Così il primo atto rivoluzionario sarebbe necessariamente 
		integrato – e d’altro canto come potrebbe non esserlo? – nella forma 
		spettacolare della nostra società. Torna alla memoria quel passo in cui 
		Marx scrisse della necessità di abbattere l’apparato dello Stato, 
		piuttosto che di utilizzarlo ai propri fini. In questo caso non sarebbe 
		solo l’apparato dello Stato in senso classico, ma anche l’apparato delle 
		reti di comunicazione su cui si fonda il potere diffuso nelle nostre 
		società. Qualunque cosa dicessi da quella televisione, infatti, io 
		riprodurrei lo stesso schema formale di giustificazione del potere cui 
		siamo oggi assuefatti.
		
		Nanni: 
		Dunque, sostieni che la rivoluzione oggi non può sussistere…
		
		Giulio: 
		No, credo che questa frase di per sé non significhi nulla. Dico che 
		bisogna, invece, rendersi conto di come oggettivamente funzioni la 
		società odierna. E dico che una rivoluzione, intesa nel suo senso 
		novecentesco, si troverebbe oggi a misurarsi con diverse nuove 
		questioni, fra cui quella se debba o meno favorire il sistema di 
		riproduzione della vita fondato sulla separazione di rappresentazione e 
		realtà.
		
		
		Anna: Devo dirti che però questa non mi sembra una novità dell’oggi, ma da 
		sempre esiste questa separazione…
		
		Giulio: 
		Beh, oggi secondo me esiste una separazione molto più ampia di prima tra 
		rappresentazione del potere e realtà. Perciò io credo che, pur prendendo 
		il potere, vera rivoluzione sarà lasciarlo, cioè trasformare l’assetto 
		costituzionale e reale della società in una democrazia che permetta una 
		partecipazione cosciente alla politica, eliminando il potere come 
		separazione, il potere come luogo dei politici, e trasformarlo in una 
		funzione della società nella quale ciascuno possa alternarsi nel 
		dedicarsi, in una certa misura, alla gestione del potere. Dunque non 
		semplicemente prendere, e quindi, occupare il potere ma assumersi il 
		compito di eliminare la separazione tra il piano della rappresentazione 
		e quello della realtà, che significa, al contempo, eliminare la netta 
		separazione fra chi fa politica e chi non la fa. Come scriveva anche 
		Marx rispetto alla Comune di Parigi, si tratta di trasformare il 
		rapporto fra rappresentanti e rappresentati, la qual cosa, in chiave più 
		filosofica, significherebbe trasformare il rapporto fra rappresentazione 
		e il piano della vita.
		
		Nanni: 
		Allora forse la rivoluzione dovrebbe essere riuscire ad introdursi nei 
		centri di gestione mondiale dei server informatici, e staccare la spina 
		al server di tutti i server…
		
		Giulio: 
		No, non è una questione da pirati informatici; evidentemente le persone 
		a cui tu sottrarresti Internet ne sentirebbero immediatamente la 
		mancanza. Mi sembra evidente che una rivoluzione culturale dovrebbe 
		dimostrare, piuttosto, che internet non può essere quello che è divenuto 
		oggi; al tempo stesso, inoltre, dimostrare come lo spettacolo non possa 
		prendere il posto del teatro della vita; che un bello spettacolo non sia 
		migliore di nessuna vita, pure se triste o drammatica.
		Da questo punto di vista, piuttosto che 
		soffermarmi su quale specifico atto possa dirsi rivoluzionario, mi 
		focalizzerei sul comprendere davvero fino a che punto una società della 
		comunicazione a rete generi nuovi tipi di relazione sociali, e che, 
		quindi, solo a partire da queste e da come esse trasformino le 
		personalità, si possa affrontare il tema della politica, ed, 
		eventualmente, quindi, quello della rivoluzione.
		Siamo usciti, infatti, da pochi anni da 
		quello che è stato definito il 
		secolo breve, un arco di tempo relativamente esiguo, appunto, ma 
		assai tumultuoso, al tempo stesso drammatico e frenetico. La società si 
		è forse trasformata come mai è accaduto in un arco di così pochi 
		decenni. Per molti versi quel secolo sembra lontano ma l’eredità che ci 
		lascia è pesante: molti sono i nodi arrivati ai nostri anni senza 
		soluzione di continuità. Tra questi, su tutti, spicca quello della 
		tecnologia e delle sue applicazioni ormai in ogni campo della vita. Il 
		concetto stesso di umano va rapidamente trasformandosi; insieme ad esso, 
		d’altro canto, i concetti, ad esempio, di interiorità, ideologia, 
		valore, legame, verità (e si potrebbe continuare) hanno ben poco in 
		comune con i medesimi termini utilizzati anche solo due o tre 
		generazioni fa. In questo campo, nel campo diciamo della 
		spazio-temporalità dell’esperienza, il cambiamento è stato drastico, 
		rapido, e sembra oggi, a noi, inesorabile. In virtù delle nuove forme di 
		simbiosi fra uomo e macchina intelligente, il posto dell’uomo nel mondo 
		è cambiato; così che cambiando il suo posto, è mutata anche la sua 
		prospettiva sulle cose, su ciò che egli è, può essere, e vuole essere.
		Che lo si riconosca o meno, stiamo 
		andando incontro a qualcosa di radicalmente nuovo. Non intravedo 
		alternative a tale corso. Meno lo riconosceremo, e più ne saremo 
		immersi. Meno lo comprenderemo, e più saremo complici nel produrre tale 
		realtà.
		Al di là della superficie, la storia 
		futura dipenderà prevalentemente da ciò: da quanto il rapporto dell’uomo 
		con le forme artificiali d’intelligenza rimarrà entro questi binari, o 
		da quanto se ne discosterà. Che sia per via d’un’azione umana o d’altre 
		circostanze. Che prenda una direzione o un’altra.
		
		APRILE 2012
		
		
				
				
				[1] 
				Ci si riferisce a Gramsci,
				Quaderni dal carcere.