Esperienza e rappresentazione
EMOZIONI ED EMOTICON
Mariano Mazzullo
		Non c’è dubbio, il mondo moderno è 
		decisamente un posto pieno di emozioni, o quanto meno ricco di stimoli. 
		Il nostro variopinto villaggio globale, con il suo
		sky-line vertiginoso, il suo 
		miscuglio multietnico, il bombardamento mediatico, l’estrema 
		disponibilità e varietà del piacere, non sembra certo un posto per gente 
		apatica. O non è forse così? Certo, se tra lo stimolo e l’emozione 
		corrispondente valesse una relazione determinata, gran parte 
		dell’umanità sarebbe già stesa da tempo sul pavimento, tramortita da 
		un’incontenibile sindrome di Stendhal collettiva. Ci sono, infatti, 
		abbastanza occasioni oggi per emozionare seriamente la maggior parte 
		degli uomini, e non mi riferisco soltanto all’offerta dell’hi-tech, 
		dell’architettura, dell’ingegneria estrema, dell’industria del sesso, 
		della tv, del gossip, e dei molteplici mirabilia dei nostri 
		tempi, mi riferisco anche a fenomeni più “classici”, come le sempreverdi 
		guerre e rivoluzioni. Hi-tech o vintage, l’emozione è oggi certamente 
		più a portata di mano, più fruibile, più compressa, convertibile e 
		riciclabile. Basti pensare per esempio al fenomeno degli “emo”, che 
		fanno di un’artificiale malinconia la propria moda, o alla condivisione 
		sui social network del proprio 
		“stato” quotidiano, condito spesso di particolari sulla cagione dei 
		propri sentimenti più personali.
		L’equazione deterministica però non 
		funziona, e al mercato dell’emozione non si trova mai il prodotto di 
		cui si va in cerca. A dispetto di tutta questa colorata offerta 
		emozionale, piuttosto che estasiata di fronte all’oggetto delle proprie 
		passioni, l’umanità di oggi non si emoziona più tanto facilmente, o 
		peggio: cade in depressione per molto meno rispetto ad epoche diverse. 
		Chi non ha provato sulla propria pelle, nella noia dell’insensatezza e 
		dell’individualismo insaziabile, a dispetto di tutti i megabyte che 
		divora davanti agli schermi, la minaccia che si avverasse sul serio il 
		detto di Baudelaire, che con uno sbadiglio la noia possa inghiottire il 
		mondo? Si è inceppato qualcosa nel meccanismo del lusso e del benessere 
		per tutti? Non dovremmo essere il migliore dei mondi possibili (o almeno 
		la parte del mondo più fortunata), il più felice, il più entusiasta, 
		ricco di così tanti “canali” in cui trovare il nostro proprio 
		individuale corrispettivo dell’animo? Non sarà che abbiamo sofisticato 
		troppo? Non sarà forse che la moltiplicazioni delle possibilità, 
		l’ipertrofia della libido, l’estrema diversificazione degli oggetti del 
		piacere ci abbia spinto ad una qual certa disemozione collettiva? Di 
		sicuro se l’emozione fosse una diretta conseguenza del giusto stimolo, 
		basterebbe conoscere la corretta formula magica per avvertirla, un po’ 
		d’amicizia, un po’ di gelosia, un pizzico di superbia, ed eccoti come 
		per magia la cartesiana “passione dell’animo”, partorita tirando le 
		corde giuste, come una pozione di Harry Potter. Per fortuna le cose non 
		stanno proprio così, l’emozione corre parallela alla sensazione per un 
		sentiero abbastanza lungo, ma ad un punto imprecisato del cammino le due 
		strade divergono, la sensazione giunge meccanicamente alla risposta 
		nervosa e oggettiva, l’emozione invece scaturisce sempre da un’aggiunta 
		soggettiva, da un fondo di libertà intangibile, da una sovrapposizione 
		di livelli esistenziali. È per questo motivo che la soggettività non 
		sarà mai soddisfatta o delusa dalle stesse cose di cui altri godono, non 
		lo sarà per sempre, non lo sarà pienamente, poiché l’uomo è uno 
		strumento infinitamente variabile e refrattario, solo determinate 
		sequenze interiori, ricordi, esperienze, passioni, riescono a farlo 
		vibrare emotivamente. È a causa di questa individualità dell’emozione 
		che il sogno politico-utilitarista di società “felici e contente” si 
		andrà sempre a scontrare con la resistenza soggettiva ad un’emozione 
		massificata e uniformata ad una forma di sentimento collettivo. Il gran 
		numero di individui insoddisfatti, tristi e spenti, in una società che 
		offre così tanti mezzi e occasioni per essere felici, che amplifica 
		qualunque momento possieda un potenziale d’impressione sugli animi, è un 
		esempio abbastanza chiaro di come non sia sufficiente un mondo esterno 
		ricco di occasioni felici per provare altrettante emozioni positive. 
		Gioia e tristezza non corrispondono a piacere e dolore, e direi anche 
		per fortuna, ma è pur sempre vero che l’emozione, sebbene sottratta allo 
		pseudo-determinismo dei sensi, possiede una sua regolarità, una sua 
		conformità in diversi soggetti. Si può essere innamorati o annoiati per 
		diverse cose e per diversi motivi, ma l’effetto patito, qualunque ne sia 
		la causa, è quasi identico a diverse latitudini e in culture 
		diversissime.
		
		La domanda più interessane che ci si 
		possa fare, a questo punto, di fronte alla comunanza di effetti e alla 
		differenza di cause che le emozioni ci mostrano, sarebbe chiedersi da 
		dove vengono, perché le patiamo, perché ne siamo affetti, ma soprattutto 
		perché le manifestiamo, quasi fossimo costretti a darle a vedere. 
		Probabilmente, diremmo tante cose sensate se affermassimo che l’emozione 
		è sublimazione di stati fisici elementari, è un portato della nostra 
		origine animale sorto per una funzione strumentale e difensiva, che 
		sulla loro manifestazione si svolge una parte importante 
		dell’interazione ecc. Di tutte queste risposte sensate Darwin ha offerto 
		un’approfondita e affascinante discussione nel suo studio 
		sull’espressione delle emozioni, ma per quanto sembri misteriosa e 
		recondita la loro origine, il vero “mistero dei misteri” non è la loro 
		causa, che ci si può figurare in modo abbastanza semplice, bensì la loro 
		espressione, la rappresentazione fisiognomica che l’uomo mette in scena 
		per manifestarle all’altro. Questo elemento è quello di maggior 
		interesse nella spiegazione che il grande naturalista inglese fornisce 
		delle emozioni, sia perché l’espressione non è soltanto un momento 
		fisiologico, essa infatti coinvolge l’esistenza ben al di là della pura 
		sopravvivenza – ormai si sorride o si mette il grugno senza che 
		ciò metta a repentaglio la nostra vita – sia perché il modo in cui una 
		civiltà esprime l’emozione è particolarmente rappresentativo del modo 
		che ha di viverle, del concetto che essa possiede di sé stessa come 
		intersoggettività, come unità, come sostanza. Dobbiamo dire innanzitutto 
		che l’emozione in una civiltà globalizzata, economicamente e 
		tecnologicamente avanzata come la nostra, non solo si esprime, ma 
		soprattutto si rappresenta. Darwin ci illumina con chiarezza sul 
		primo punto: l’espressione dell’emozione è un atto originariamente 
		cosciente, praticato per esigenze funzionali alla sopravvivenza, 
		divenuto successivamente atto riflesso e invertito rispetto alla sua 
		insorgenza da uno stimolo corrispondente. In sostanza: se prima si 
		sorrideva per mostrare i denti in segno di difesa e sfida di fronte alle 
		minacce dei predatori, adesso per il “principio dell’antitesi” si 
		sorride per indicare un sentimento opposto alla minaccia e alla paura. 
		Il ragionamento però si mostra utile solo in parte, getta luce sulle 
		origini dell’espressione e sulla natura di questa simbologia, ma 
		con l’imporsi del fattore culturale questa provenienza animale 
		dell’espressione viene scavalcata da altri fattori. Il sorriso, il 
		grugno, il grido, aggrottare le sopracciglia e quant’altro, nascono 
		certamente da condizioni interne all’evoluzione, ma (come il meccanismo 
		dell’evoluzione in generale) si sono resi indipendenti dalla natura, 
		sono ormai divenuti espressioni-feticci, hanno acquisito un significato 
		loro proprio, una “seconda natura”. L’uomo può oggi fare a meno di 
		esprimere le emozioni, anche in contesti dove la natura lo avrebbe 
		obbligato a farlo. Si può amare o odiare senza darlo a vedere in modo 
		particolarmente espressivo, «ci sono altri mezzi per ottenere i propri 
		scopi», così come ci si può difendere da un’aggressione anteponendo un
		self-control culturale all’istinto emotivo animale. A guardar 
		bene tutto ciò non è certo un felice destino per le nostre emozioni, 
		nate all’aria aperta e finite in cassaforte, ma ciò su cui bisogna 
		riflettere è che la loro espressione è divenuta principalmente una 
		rappresentazione. In un mondo pretecnologico, la rappresentazione 
		dell’emozione era affidata alla spontaneità incontrollata di un sorriso 
		o alla messa in scena lenta delle opere d’arte, poemi, drammi, ritratti, 
		il mezzo espressivo era per forza di cose un elemento dell’emozione 
		stessa: gli attori, i pittori, i poeti, patiscono in parte le emozioni 
		che rappresentano con le proprie opere. La nostra società è invece 
		dominata da una impressionante ricchezza di mezzi d’espressione 
		immediati, il web e le trasmissioni satellitari rendono possibile 
		comunicare repentinamente le proprie emozioni, quelle di una comunità, 
		di una famiglia, di una nazione, con un tweet o con infinte forme 
		di condivisione, come i blog ad esempio. Mi sento triste o 
		felice? Basta un tweet per rendere partecipe la comunità virtuale 
		del mio umore, che può modificarsi in tempi record, sobbalzare e 
		precipitare, restando sempre immediatamente comunicabile.
		
		Ma ciò che è detto col breviloquio del
		tweet o con la nuova retorica da fuoco d’artificio dei blogger
		può ritenersi una concreta rappresentazione emotiva? Se ci 
		soffermiamo a pensare a quante cose dette con il cuore, anche in modo 
		semplice e conciso, vengano fraintese, stravolte o ignorate nella 
		comunicazione ordinaria, ci si rende subito conto di quanto poco pratico 
		e relativo sia il mezzo discorsivo come veicolo dell’emozione, privo del
		pathos della recitazione 
		oppure troppo carico del pathos 
		da messa in scena del blog. L’immediatezza si può prestare bene, 
		fin troppo bene all’espressione dell’emozione, ma il discorso, breve o 
		lungo, profondo o superficiale, non sarà mai il mezzo privilegiato da 
		un’emozione che spinge per fuoriuscire, che vuole essere compresa, 
		condivisa, vissuta insieme. L’emozione vuole essere colta nel suo 
		sbocciare, vuole un volto su cui nascere e uno su cui fiorire.
		La società ultra-mediata della 
		tecnologia di massa come può eludere questo primato dell’immediatezza, 
		del volto che l’emozione richiede per essere compresa? Naturalmente ci 
		sono molte meno occasioni per il faccia a faccia, quando possiamo 
		tranquillamente svolgere il nostro lavoro e parlare con un amico davanti 
		allo stesso schermo, ottimizzando i tempi e con la libertà di non venire 
		coinvolti. Ma per quanto grande sia la nostra libertà da un 
		coinvolgimento diretto, quando si interagisce con un amico o con un 
		gruppo di amici, la comunicazione ha comunque bisogno di manifestare 
		delle emozioni per esser davvero disinvolta, per far sì che il messaggio 
		arrivi al destinatario con il giusto tono emotivo. Vogliamo sentire 
		l’emozione dell’altro quando comunichiamo spontaneamente, 
		altrimenti ci sembra di parlare a vuoto. Affinché sia franca e informale 
		essa non può abbandonarsi a perifrasi, alla rima o a trovate 
		impressionanti, soprattutto nell’estrema brevità a cui la comunicazione 
		si riduce nei social network o con gli 
		smartphone. E così, per dare un pizzico di umanità alla 
		conversazione disumanizzata di soggetti che non si vedono e non si 
		sentono, che tante volte non sanno molto l’uno dell’altro, o peggio non 
		si conoscono affatto, tra le numerose funzioni a disposizione degli 
		utenti è stata inserita con enorme successo una panoplia di faccine 
		stupite, sorridenti, piagnucolanti e così via, da iniettare 
		all’occorrenza tra le righe del discorso rapido e diretto del mezzo 
		informatico. L’emoticon è l’invenzione mediatica per dare emozione 
		al discorso immediato, al botta e risposta delle
		chat, alla frammentazione di 
		abbreviazioni e slang degli sms, un elemento appartenente al vissuto 
		inserito all’interno di uno scambio troppo veloce o interrotto. La sua 
		funzione è chiara e anche poco criticabile, è come se in un’antica 
		missiva d’amore un innamorato al fronte avesse allegato usualmente alle 
		sue righe vergate frettolosamente un disegno commovente, un oggetto 
		rappresentativo, una frase alla moda. La funzione è sempre quella di 
		umanizzare e semplificare il discorso, fornendo un’impressione diretta 
		dello stato d’animo di chi scrive. Ma non si tratta solo di questo, o 
		meglio non solo di questo. La specificità dell’emoticon, 
		infatti, rientra nel sistema comunicativo immediato delle chat, 
		degli sms, dello scambio di messaggi istantanei nei social 
		network, fa parte di un contesto comunicativo assolutamente 
		specifico e tipico solo di una generazione tecnologica. Il soldato che 
		dal fronte scrive una lettera d’amore o l’amico che va in vacanza e 
		spedisce una cartolina non ricorrerebbero mai ad allegare 
		rappresentazioni emotive al proprio discorso al fine di essere compresi, 
		almeno non lo farebbero per abitudine, a meno che non siano dei tipi 
		particolarmente artistici ed eclettici. Il motivo per cui l’emoticon 
		è usato solo in tipi di discorsi molto immediati, risiede nella quantità 
		di tempo e di riflessione con cui il discorso viene concepito e 
		articolato. Quale modo migliore dell’emoticon 
		per far capire all’amico, che mi chiede in
		chat “come stai?”, che non 
		sono semplicemente stanco per il lavoro, ma che assieme alla stanchezza 
		si accompagna oggi uno stato di tristezza e abbattimento? Non posso 
		certo darmi a spiegazioni approfondite sul rapporto che lega insieme 
		stanchezza e tristezza in quel dato momento della mia vita, dovrei 
		sprecare troppo tempo e troppa riflessione per una innocua chiacchierata 
		via internet, che deve essere breve ed efficace, esporsi il meno 
		possibile a fraintendimenti e interpretazioni.
		
		L’emoticon 
		così supplisce alla mancanza di tempo e copre gli spazi bianchi lasciati 
		dal discorso, è certamente un guadagno ma può essere anche una perdita, 
		in ogni caso un valore che sta all’utente attribuirgli. Fin qui questa 
		strumentalizzazione dell’emozione come rappresentazione funzionale al 
		discorso non suscita particolari interrogativi, è un mezzo come un 
		altro, ci si dice, che aiuta e alleggerisce una conversazione che si 
		presenta per sua natura come uno svago poco impegnativo. Fa riflettere 
		molto di più circa questa forma elementare di rappresentazione l’uso 
		spropositato che se ne fa, un uso che esula da un’utilità reale e 
		dall’emozione stessa. Cerchiamo di capirci di più e di vedere quali 
		elementi della nostra umanità questo tipo di rappresentazione racchiuda. 
		Chiunque sia un frequentatore abbastanza assiduo di chat, 
		social network, twitter, smartphone e quant’altro, si 
		potrà rendere facilmente conto di come l’emoticon venga impiegato massicciamente e con gran disinvoltura. 
		Quasi ogni sentenza nello scambio di messaggi possiede almeno una di 
		questa faccine, cuoricini, sorrisi, soli splendenti, ecc. e c’è anche 
		chi, evidentemente ancor prima, e a prescindere dalla tecnologia, non 
		dotato di una grande attitudine al dialogo o al discorso usa con 
		prepotenza e costanza più emoticon 
		che parole. Si tratta di casi particolari di persone più emotive che 
		discorsive oppure è l’emozione in sé che si vive con più estraneità, con 
		più semplicità, con minore partecipazione? È vero che l’emoticon 
		è un salvatempo organizzato, un surrogato virtuale di un più impegnativo 
		prodotto umano, ma è vero anche che il suo uso massiccio segnala un 
		rapporto quantomeno strano con l’emozione patita in prima persona, 
		soprattutto se pensiamo al fatto che si può piangere e disperarsi dietro 
		ad uno schermo mentre si inoltrano cuoricini e sorrisini che indicano 
		tutt’altro umore, si può sviare il discorso, portarlo fuori strada, 
		annullarlo, attraverso un’intromissione di questi feticci artificiali 
		nella conversazione. Tra parentesi va detto che questa condizione 
		altamente diffusa, estremo segno della scissione e alienazione, è a dir 
		poco raccapricciante e suscita la pelle d’oca.
		Allora l’emoticon 
		non è più un’abbreviazione del tempo che l’emozione richiede, non è più 
		l’allegato personale ad un parlare che per natura si connota come 
		impersonale, diventa invece la maschera greca di un teatrino dei 
		sentimenti, dove non si ha tempo per provare vere emozioni. Nell’antico 
		teatro greco, gli attori usavano indossare delle maschere di ceramica 
		con delle espressioni fisse, dolore, gioia, stupore, una fissità che 
		comunica subito una forte impressione nello spettatore, ma serve 
		soprattutto ad identificare il ruolo, ad assegnare una parte 
		prestabilita a quel personaggio, una funzione rappresentativa che non è 
		lasciata alla sua fisiognomica e all’interpretazione del pubblico, ma 
		che viene assegnata a priori, a monte, chiaramente visibile a tutti e 
		prima ancora che il dramma venga inscenato.
		Il leggero e vaporoso
		click dell’emoticon 
		è un po’ come quella pesante maschera di ceramica, serve ad identificare 
		il nostro discorso, il senso di lettura da assegnargli, serve a non 
		farsi fraintendere piuttosto che a comunicare un’emozione, è infatti 
		usato con più insistenza da persone che non hanno voglia di parlare o di 
		manifestare i propri sentimenti o da chi li manifesta con troppa 
		facilità.
		A ridosso di questo discorso si impone 
		una riflessione conclusiva. La crisi del dialogo in cui stiamo vivendo, 
		il venir sempre meno delle occasioni di scambio dirette fa sì che 
		l’emozione sia vissuta in un contesto più individuale e soggettivo 
		piuttosto che sorgere dal rapporto stesso tra due individui. Con 
		internet e i potenti mezzi di accesso alla comunicazione diretta si sta 
		lentamente andando incontro ad una inversione funzionale: mentre questi 
		mezzi nascono come strumenti in cui canalizzare il messaggio in modo più 
		impersonale, meno antropomorfico, meno soggetto a fraintendimenti, più 
		diretto e immediato, in realtà stanno diventando una dura barriera 
		all’espressione dell’umanità che si proponevano di amplificare. 
		L’emozione viene rimbalzata da uno schermo all’altro sotto forma di
		emoticon, ma non appartiene né 
		all’uno né all’altro dei parlanti, appartiene alla logica della 
		comunicazione lampo e alla frustrazione cui è soggetta: il bisogno, 
		sempre e comunque umano, di essere capiti attraverso l’emozione. L’emoticon 
		perciò non è un’emozione rappresentata telematicamente per una intima e 
		veloce comprensione reciproca, ma è la rappresentazione di una assenza, 
		è il riempimento artificiale di un vuoto naturale, è una richiesta di 
		emozione, la richiesta sublimata e figurata dell’inconscio di un 
		sentimento vero.
		
		APRILE 2013