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10
Maggio 2013

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IL COMMENTO

Guido Cosenza

 

Legenda

Questo intervento si ripromette di innescare un dibattito finalizzato all’elaborazione di una comune base metodologica, nella prospettiva di rendere meno dispersa e inefficace l’azione della rivista e di promuovere l’emersione di una coerente linea progettuale.

La finalità di tale operazione è suscettibile di essere fraintesa, nel senso che l’intento può essere accolto come l’imposizione di un orientamento metodologico preferenziale; viceversa l’obiettivo è di evitare che la rivista abbia un carattere meramente culturale miscellaneo, ci si prefigge di innescare un processo per cui essa diventi sempre più chiaramente un contenitore d’idee, analisi e progetti convergenti che abbiano la potenzialità di incidere sulla realtà e rappresenti un efficace coerente punto di riferimento.

Ovviamente in via preliminare si dovrà chiarire se l’obiettivo esposto è condiviso o meno.

L’articolazione di queste note si configura in due stadi. Un primo in cui si espone l’impostazione metodologica, un secondo a carattere esplicativo che esamina alcuni degli interventi apparsi nel n°9 della rivista per indicare come questi testi si allontanino dall’obiettivo proposto.

 

Osservazioni generali

Inizierò dal formulare una tesi.

Tesi – Non tutti gli strumenti d’indagine sono equivalenti ed egualmente idonei a comprendere i fenomeni che sono scaturiti a seguito della rivoluzione industriale, la fenomenologia economico-sociale emersa con l’avvento del capitale e le relative problematiche sono state decifrate a seguito di un lungo processo teorico culminato con la sistemazione operata da Marx.

 

L’impalcatura conoscitiva cui ci si riferisce nella tesi ha permesso di individuare i punti nodali di un modello produttivo dotato di profonde contraddizioni e che procede riproducendo e aggravando disuguale distribuzione del prodotto sociale, così provocando la suddivisione della società in categorie di cittadini caratterizzate da un tasso di appropriazione diseguale delle risorse. Nel periodo dello scontro più acuto e violento del conflitto sociale questa impostazione metodologica è stata patrimonio chiaro e preciso della classe subordinata nel processo produttivo. Con l’evolversi delle condizioni storiche e il diffondersi e il rafforzarsi del dominio del capitale il patrimonio conoscitivo della classe subalterna si è andato impoverendo, si è assistito all’attenuazione delle solide basi teoriche conquistate in precedenza dalle avanguardie storiche protese al cambiamento e si è propagato il loro travisamento ad opera degli apparati pseudo conoscitivi nati all’ombra del capitale, riconducibili principalmente all’ideologia idealista.

Il compito urgente che si pone ora è di liberare le analisi, i discorsi che andiamo conducendo, dalle scorie di categorie interpretative che hanno debole valenza propositiva e quindi non sono idonee a individuare le trasformazioni inevitabili che s’impongono. In realtà l’impostazione metodologica corrente genera spesso proposizioni che a qualcuno potrebbero apparire suggestive ma che in realtà non hanno valore cognitivo, spesso sono prive di senso.

La perdita di padronanza interpretativa e di chiarezza esemplare si riscontra nella più parte delle analisi critiche del sistema capitalista presenti nella pubblicistica attuale e non ne sono esenti neppure corrispondenze che trovano spazio nella rivista.

Nel seguito come esemplificazione del discorso prenderemo in esame alcuni degli interventi apparsi nel n°9 della rivista – nello spirito di sviluppare idee e metodologie di analisi su esempi concreti.

Una precisazione preliminare è di prammatica: l’intendimento del lavoro cui ci sobbarchiamo non è quello di far polemica per il solo gusto di segnalare debolezza nelle argomentazioni altrui, ma di elaborare e operare congiuntamente acquisendo di volta in volta i contributi più disparati per meglio procedere e incidere nella realtà. Ragion per cui non bisogna sentirsi svalutati se si propongono rettifiche ai propri interventi o se le considerazioni addotte possano invalidare quanto dedotto.

L’obiettivo è di aprire un dibattito che consenta di consolidare una visione comune, di avanzare congiuntamente nelle analisi in modo da renderle sempre più incisive.

 

Inizierò dall’articolo della redazione sulla categoria democrazia in generale e su quella americana in particolare.

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Tema della democrazia

Premessa: L’uso del termine democrazia nella pubblicistica corrente è ambiguo, da un lato denota una categoria astratta, non chiaramente precisata, con caratteristiche ideali desunte da un’utopica epoca mitizzata del passato: la Grecia delle città-stato, dall’altro designa ordinamenti sociali e annessi organi di governo demandati alla gestione delle varie componenti più o meno autonome che concorrono a costituire comunità nazionali, generalmente del cosiddetto mondo occidentale, nel cui ambito è oramai consolidato il modo di produzione capitalista. In questo contesto l’espressione ingloba anche il complesso di normative e di dispositivi tecnici demandati a salvaguardare e a operare il congegno funzionale del sistema.

L’ambiguità sorge dall’osservazione che lo stesso termine indica un’idea astratta, allegoria dell’anelito a una reale eguaglianza di tutti i membri della comunità, e un dispositivo di gestione che salvaguarda il privilegio di una minoranza e che si presenta come la realizzazione di quell’aspirazione a condividere su base paritaria le risorse disponibili.

Quest’ultima osservazione denota un intento ingannevole nell’adozione del medesimo vocabolo in due differenti contesti.

In altri termini la pubblicistica corrente intende avvalorare l’esistenza di una categoria atemporale, un concetto astratto, un dispositivo ideale cui si ispirerebbero, o si siano ispirati, i vigenti ordinamenti sociali per adeguarsi a una giusta salvaguardia su basi egualitarie degli interessi, dei diritti e dei doveri dei membri della comunità.

È da quest’ultima operazione fuorviante che si originano  proposizioni inappropriate come: «degenerazione della democrazia», «la democrazia morente cerca, spettacolarizzandosi, di assicurarsi un’esistenza come zombie di se stessa». Quale che sia il significato che si voglia dare al vocabolo “democrazia” le due proposizioni sono prive di senso.

Nel merito occorre riflettere sulla circostanza che tutti gli apparati di governo che si sono succeduti storicamente hanno badato a salvaguardare il privilegio e a difendere gli strati sociali egemoni. Nel sistema di città stato dell’antica Grecia l’istituzione di governo, designata originariamente con lo stesso termine in voga ora, aveva il compito di perpetuare una società schiavista salvaguardando allo stesso tempo l’eguale accesso alle risorse da parte dei membri della classe privilegiata. Ciò che è avvenuto con l’affermarsi del sistema produttivo capitalista è stato la progressiva costruzione e perfezionamento di un ben articolato organo di governo inteso a tutelare gli interessi di classe, pur preservando l’apparenza di strumento neutrale. In altri termini è occorso mettere a punto un meccanismo che garantisse l’accesso agli organi di governo solo ai fedeli promotori di provvedimenti utili allo sviluppo del capitale. A tal fine inizialmente si è reso necessario precludere alla maggioranza dei cittadini l’accesso alla designazione dei membri del governo. Mano a mano che furono perfezionati e gestiti dai ceti abbienti strumenti in grado di regolare la visibilità di soggetti della più varia natura, così assicurando anche il monopolio nella designazione dei rappresentanti negli organi di governo, ne conseguì che la platea degli aventi diritto al voto andò progressivamente estendendosi fino a giungere al suffragio universale, e alla ingannevole illusione che a chiunque fosse garantito l’accesso alla gestione della cosa pubblica. Tale azione graduale che ha raggiunto la sua acme nel paese a più avanzato sviluppo capitalista è stata barattata come una marcia di avvicinamento alla democrazia intesa come categoria ideale.

In definitiva il perfezionamento massimo degli organi d’indottrinamento a servizio dei detentori del capitale: monopolio dell’informazione, visibilità sulla base della disponibilità finanziaria, è avvenuto nel paese che ha sviluppato più ampiamente il modello capitalista oramai generalizzato a livello planetario, ne è seguito poi l’adeguamento agli stessi metodi di manipolazione del consenso da parte delle nazioni che hanno visto a loro volta consolidarsi progressivamente il modo di produzione capitalista. Ciò che è indicato come americanismo non è altro che il punto di approdo del perfezionamento di uno strumento di dominio.

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Considerazioni sull’articolo redazionale;

Se la democrazia è quella americana – Dalla premessa precedente emerge che sussistono delle discrepanze non secondarie con le posizioni della redazione in relazione al tema della cosiddetta “democrazia”, non è mia intenzione di affrontare l’analisi puntuale del testo proposto, piuttosto mi sembra opportuno richiamare alcuni elementi in quanto dalla loro rilevazione è possibile evidenziare la diversa orientazione del quadro complessivo.

 

La prima questione che vorrei segnalare è il riferimento alle tesi di Canfora, esse sono citate nel testo come esplicative dei fenomeni economico-sociali occorsi nella fase matura del sistema capitalista e risultano condivise dagli estensori dell’articolo. Si afferma che «l’egemonia dell’americanismo non è dunque figlia della supposta superiorità culturale del modello americano, ma, al contrario, conseguenza della folle autoesclusione europea dalla scena globale delle culture che avrebbero potuto porsi come modello di civiltà».

L’affermazione è paradossale l’egemonia degli usa deriva principalmente dalla supremazia economica e militare quella culturale è diretta conseguenza di quest’ultima. Pensare a una sfera culturale autonoma è illusione idealistica. È il capitale che genera, e dove necessario attrae e assorbe, la sovrastruttura culturale, nessuna autoesclusione, la dipendenza è imposta dalla risultante delle forze reali che agiscono sul campo. Vorrei ricordare come l’industria della cultura è anch’essa parte della macchine economica gestita dal capitale e quindi imposta con meccanismi di mercato.

Mi bastano due esempi, il predominio americano nell’industria del cinema e quello nella produzione di telefilm, due rami essenziali per realizzare profitti e nel contempo imporre l’egemonia culturale. È il capitale che detta legge non certo l’autoesclusione o la preminenza di valori culturali.

Ribadisco, non è sul piano della cultura attraverso l’autoesclusione che si determina il predominio di una formazione economico-sociale. Canfora e con lui la redazione ribaltano i termini del discorso, scambiano cause ed effetti. La cultura è specchio della realtà. In una condizione di supremazia economico-militare si realizza anche la prevalenza dei canoni culturali. Soprattutto non è un fenomeno controllabile e quindi non può essere ascritto a scelte sbagliate, è come dire che un grave dovrebbe sollevarsi piuttosto che precipitare in basso. La superfetazione culturale è il portato della struttura sottostante nei suoi aspetti positivi, nuove forme di espressione, e negativi, adeguamento alla dinamica del mondo delle merci. Il deprecato imbonimento (fra cui l’istituto delle primarie) è funzionale alla sopravvivenza del sistema.

Ciò che appare imitativo nelle scelte di gestione del potere è solo il riflesso di un adattamento alle forme trovate per primi dai rappresentanti del capitalismo più avanzato. Sono queste le ragioni dell’egemonia non certo l’ingenua convinzione dell’autoesclusione altrui.

 

L’affermazione che «l’americanismo possa essere letto come un programma di colonizzazione culturale» è fuorviante. Il predominio degli usa è di natura economico-militare, il programma è la sottomissione economica e politica, la dipendenza culturale ne è solo un sottoprodotto. Così pure non è sul piano culturale che è avvenuta, come afferma Canfora, la caduta dell’urss ma nella corsa agli armamenti e nella efficienza produttiva, il mito della ricchezza e del consumismo sono orpelli secondari, l’urss era anch’essa un sistema capitalista, poco efficiente in quanto strutturato a direzione centralizzata e burocratica, per un limitato periodo di tempo ha nutrito l’illusione di poter competere in egemonia con gli usa.

Altra affermazione fuorviante: «È la condizione culturale attuale che esclude la possibilità di concepire il termine democrazia come portatore di una società fondata sull’eguaglianza di tutti gli uomini». Qui siamo in pieno idealismo. Ciò che impone all’istituzione democrazia di non consentire l’uguaglianza, vale a dire l’accesso al prodotto sociale su base egualitaria, è la funzione assolta dagli organi di governo di salvaguardia del privilegio, essenziale allo sviluppo del capitale.

 

Un’ultima questione riguarda la riforma di Clistene: Si asserisce che «si compì uno sforzo di concretizzazione delle istanze teoriche circa le forme di buon governo». Vale esattamente il contrario, furono rilevati cambiamenti sociali in atto e istanze di sviluppo economico impedite da una struttura ipercentralizzata. L’aspetto culturale è una conseguenza delle esigenze sociali e delle sperimentazioni in atto. La teoria prende l’avvio dall’osservazione del reale, non viceversa.

 

Rilevo che nel testo c’è una forte presenza di argomentazioni d’ispirazione idealista, un punto di vista che occulta la spiegazione razionale degli eventi storici, la metafisica di concepire lo sviluppo delle idee come la causa prima dei mutamenti sociali.

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Hegel e dintorni

Non riesco ad appassionarmi a tortuose disquisizioni nel merito. Non che non ci si possa occupare di qualsiasi tema, perfino della natura del sesso degli angeli. [Sia bandita qualsivoglia forma di censura!!] Ma ogni argomento dovrebbe essere investigato a tempo debito e luogo appropriato.

I conti con Hegel sono stati fatti più di un secolo e mezzo fa da Marx.

 

Latouche

Il personaggio è un buon divulgatore dei danni prodotti dal sistema economico oramai generalizzato, in espansione incontrollata. La constatazione dell’improponibilità della prosecuzione del decorso attuale è presente in molta della letteratura critica che si va sviluppando e ha radici lontane. Ciò che manca alla più parte delle analisi correnti e in particolare a Latouche è la capacità di indicare un percorso per evitare una crisi che si prospetta catastrofica.

Nell’articolo si parla di «decolonizzare il nostro immaginario», «venir fuori dalla religione della crescita», cambiare l’ordine dei valori, «reintrodurre “un po’ di dolcezza in questo mondo di bruti” sviluppandovi la cooperazione, l’altruismo, il senso dell’umano e il rispetto della natura», non abolire la proprietà privata dei beni di produzione ma allontanarsi dallo spirito del capitalismo. Come se il problema fosse culturale e non strutturale. È certamente vero che il panorama comportamentale è devastante, ma è l’effetto di rapporti di produzione divenuti profondamente inadeguati per il gigantesco sviluppo e la continua inarrestabile espansione della confezione e distribuzione di merci.

Sembra facile dire bisogna decrescere, riduci qua, diminuisci lì.

Immaginate un uomo sulla vetta di una montagna impervia nella necessità di guadagnare il piano che chieda aiuto per andare a valle e che gli si dica che per scendere occorre porre di seguito un piede più in basso dell’altro. Certo non è questo il contributo di cui ha bisogno il personaggio, piuttosto l’indicazione di un percorso accessibile. Allo stesso modo occorre, come molti di noi tentano, cercare, sperimentare nel concreto forme idonee di organizzazione sociale alternativa.

Provate a diffondere fra la gente gli slogan di Latouche in questo mondo strutturato in modo da imporre il trasporto privato, il consumo forzato, ecc..., ecc..., al più saranno visti come una ammirevole opera di poesia.

Latouche pubblica un libro all’anno, in Italia editi da Boringhieri, sullo stesso tema diventato di moda, ma quelle osservazioni non spostano di un centimetro in direzione del cambiamento, gratificano di arguti argomenti di conversazione e di amene letture la buona borghesia benpensante.

Le avanguardie i dati relativi alla crisi dell’attuale ordinamento economico li conoscono bene.

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L’uomo a una dimensione

L’analisi della concezione marcusiana condotta da Massimo Ammendola è interessante e utile nella prospettiva dell’elaborazione di una strategia per il superamento della attuale dinamica sociale che nella sua fase matura ha manifestato gravi incongruenze, difficoltà crescenti di funzionalità e dimostrato oramai chiaramente la sua profonda inadeguatezza a corrispondere al grado di estensione raggiunta, condizione suscettibile di determinare guasti irreversibili.

Tuttavia sarebbe stato opportuno commentare ed esplicitare i limiti dell’analisi esposta, l’assenza nel testo di una discussione nel merito degli aspetti sostanziali dei fenomeni descritti. Sarebbe occorso porre in evidenza l’insufficienza della visione teorica del filosofo viennese americanizzato.

Marcuse scandaglia a fondo i guasti prodotti nella fase suprema del capitalismo, in ciò è implacabile, ma la sua visione è interna al mondo del capitale resta circoscritta alla sfera degli epifenomeni, agli effetti sovrastrutturali per i quali auspica correttivi, ma non riesce a vedere la necessità del superamento del sistema economico sociale, né ha compreso, gli è estranea, la grande lezione di Marx, essa trascende il suo orizzonte culturale, da buon discepolo di Heidegger. Non perché non sia a conoscenza degli scritti ma in quanto l’impostazione marxista ha un carattere marcatamente scientifico, cioè adotta un metodo costruttivo fondamento delle scienze esatte lontano dal filone Hegeliano di provenienza dello studioso viennese.

Caratterizzare la deriva capitalista sul piano culturale e comportamentale è estremamente limitante. Il fondamento della crisi del capitalismo è principalmente strutturale. Un meccanismo che ha profonde disfunzionalità, contraddizioni interne che ne minano lo sviluppo. I riflessi sul piano culturale, artistico e quant’altro sono solo una conseguenza, certo estremamente significativa e da studiare, ma è sul piano strutturale che occorre intervenire. Marx ha visto nel capitalismo uno degli stadi dello sviluppo storico della società umana ed è proprio il punto di vista di osservatore dei fenomeni, del loro decorso, esterno al sistema, che ha permesso di comprenderne la funzionalità nella sua pienezza e il conseguente inevitabile superamento. Viceversa se si restringe la fenomenologia da esaminare, cioè si rimane circoscritti in alcuni ambiti senza scandagliare in profondità, si ha una visione limitata e distorta e non si ha modo di percepire la via per modificare il corso degli eventi, prospettiva che si pone a noi in questa fase storica.

Mi limiterò a poche ma significative evidenze:

Si menzionano «due forme di pensiero e modelli sociali egemonici, capitalista-democratico e marxista-comunista», per entrambi si afferma che siano «retti dall’idea dell’aumento indefinito della produzione».

Nella analisi marxista la propensione all’aumento indefinito della produzione è presentato come una delle contraddizioni del capitalismo che tendenzialmente dovrebbe portarlo alla debacle. È errato associare al vocabolo “marxista” l’idea dell’incentivazione del fenomeno dell’aumento della produzione, della sua auspicabilità. Più grave da un punto di vista teoretico l’affermazione che uno dei blocchi fosse a carattere comunista.

Di sistemi sociali comunisti si sono visti in ambito storico solo due abbozzi, il primo nel corso della Comune di Parigi, il secondo durante la rivoluzione d’ottobre in occasione del cosiddetto comunismo di guerra, ma quei tentativi si esaurirono molto rapidamente. Che il regime dell’urss ai tempi in cui lo descriveva Marcuse non fosse comunista ma piuttosto un regime anch’esso capitalista, nella fase dell’accumulazione primitiva, lo testimonia il fatto che la classe operaia era assoggettata a un grado di sfruttamento perfino superiore a quello vigente nelle restanti nazioni, ciò che distingueva i due regimi esistenti era il meccanismo di distribuzione del prodotto sociale nell’un caso regolato dal mercato nell’altro pilotato per via burocratica. Il mercato era di gran lunga più efficiente dei burocrati, anche se forse meno sensibile ai bisogni sociali.

In tutta l’impostazione di Marcuse si manifesta con chiarezza la debolezza di una analisi idealista che propone di modificare gli effetti dell’organizzazione produttiva e sociale divenuta inidonea al grado di sviluppo raggiunto e non piuttosto intervenire a determinare una transizione di fase storica, la sola via d’uscita da una crisi dilagante.

Tutti i critici della società capitalista che non ne mettono in discussione il modo di produzione ma si muovono all’interno del sistema accettando i meccanismi di formazione del profitto, proponendosi cioè di salvare il sistema modificandone gli effetti più deleteri senza intervenire sulle cause profonde, in fondo finiscono per divenire agenti del capitale, essi non concepiscono altro ordinamento che quello capitalista, esattamente come gli economisti che si limitano a mettere le pezze a un sistema oramai allo sbando escogitando correttivi sempre meno efficaci.

Nell’articolo si dichiara che non s’intravedono mutamenti, certo nei piani alti sovrastrutturali, laddove si manifestano i guasti prodotti, il trend distruttivo non ha tregua. È viceversa nel tessuto sociale di base che si cominciano a evidenziare smagliature significative. I mutamenti si manifestano in forme diverse da quelle canoniche del passato.

È ingenuo lamentare che la gente accetta la società presente, che non senta il bisogno di mutare il proprio modo di vita, la responsabilità non è della mancata coscienza o scarsa conoscenza dei guasti prodotti e nemmeno è l’effetto della sempre più ampia distribuzione di beni. La realtà è che la presente organizzazione sociale non ammette deroghe e contrasta efficacemente ogni tentativo di apportare a livello individuale modifiche alla propria condizione sociale.

Risulta evidente in Marcuse la profonda antitesi fra una analisi puntuale delle gravi incongruenze a cui è pervenuta la comunità umana in regime capitalista e la povertà dei rimedi proposti: la istituzione di una serie di libertà dall’economia, dalla lotta quotidiana, libertà politica, libertà intellettuale, ecc...ecc... Inoltre si sostiene che la salvezza dovrebbe provenire dalla tecnologia, si afferma che la scienza dovrebbe diventare politica, che i valori dovrebbero diventare bisogni. Insomma un guazzabuglio.

Riassumendo, Marcuse si pone in un sistema filosofico che nasce e si sviluppa senza attraversare l’orizzonte capitalista per cui, pur constatando le profonde insufficienze che sono venute alla luce, manca degli strumenti per investigare e trovare la via che ne arresti e sopprima gli esiti negativi, i semi e le problematiche del nuovo sono fuori della sua visuale. Marx ponendosi come osservatore esterno riesce a vedere molto più lontano.

 

In conclusione buona parte degli articoli sono contaminati forse involontariamente da una visione idealista che se non voluta occorrerebbe espungere, se voluta allontana dalla comprensione dei fenomeni in atto.

In compenso compaiono delle analisi approfondite e stimolanti (ad esempio: Transition towns e La totalizzazione del rapporto di capitale) che andrebbero discusse, commentate, approfondite, sottoposte a critica, ma che allo stato attuale restano lettera morta e quindi non arricchiscono la dinamica della rivista e il patrimonio di idee degli autori e dei lettori.

 

MARZO 2013

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