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10
Maggio 2013

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UNA PRIMA RISPOSTA A GUIDO COSENZA

Redazione

 

Il presente testo raccoglie l’invito di Guido a dibattere circa l’impostazione teorica della rivista Città Future. La valutazione contenuta nel suo articolo evidenzia i limiti di un carattere tendenzialmente miscellaneo della rivista, che spesso non presenta una linea convergente e per di più afferma cose anche disparate senza che sia riconoscibile una direzione di analisi chiara. La redazione della rivista sente di accogliere le riflessioni di Guido, nella consapevolezza della loro verità di fondo e argomenta in merito anche nell’intento di esplicitare ai collaboratori una volontà di confronto maggiore sulle tematiche trattate. L’esplicitazione ha il senso di esternare un certo disagio che la redazione vive nel non riuscire a coinvolgere, i pur numerosi e generosi, collaboratori in un rapporto di discussione più serrato e continuativo. Questo disagio è però vissuto consapevolmente nel senso che proprio le tematiche trattate in gran parte degli articoli pubblicati, indagando i cambiamenti antropologici che le tecnologie dell’informazione stanno determinando, ci rendono edotti su come le relazioni umane stiano cambiando e, per questo, consci di come ciò non possa non avere conseguenze anche su noi stessi e sul modo in cui oggi è o meno possibile anche fare una rivista. Tuttavia la consapevolezza circa la fine di un’era non significa non provare neanche a fare diversamente e a tentare di tenere saldi dei rapporti umani centrifugati da mille contingenze di un’esistenza senza più appartenenze. Siamo in un momento in cui mettere fisicamente anche dieci persone intorno ad un tavolo per discutere programmaticamente è compito arduo, ma il problema non è neanche prettamente logistico, dato che la precarizzazione delle relazioni a tutti i livelli ha effetti sul modo di pensare stesso delle persone, al punto che ciò in cui sinceramente si crede oggi è già passato di mente domani e qualsiasi programma, anche semplicemente relativo a ciò di cui si vuole scrivere, è quasi sempre un programma istantaneo, vale a dire la fotografia di ciò in cui si crede, o che ci appassiona, nell’ultimo momento utile per poter scrivere.

 

Fatta questa premessa è il caso di entrare più nel merito delle osservazioni di Guido.

La redazione condivide  l’obiettivo di costituire un riferimento per un’azione incisiva della realtà, ma proprio il tentativo di essere un’espressione condivisa di azione potenziale, oltre che di analisi, presuppone una natura collegiale che non dipende dalla volontà di un nucleo ristretto di persone. Il primo problema in questo senso è rappresentato da un dato di fatto. A più di tre anni di attività la redazione registra una crescita nulla in termini di risorse umane, nonostante il dato positivo della continua crescita del numero di collaboratori che scrivono sulla rivista. Cogliamo quindi l’occasione anche per dire pubblicamente che la redazione vuole crescere nella consapevolezza che non ha molto da offrire ma piuttosto da chiedere a chi vorrà eventualmente contribuire. Essendo sostanzialmente una rivista politica ciò che essa chiede è una sorta di militanza attiva paragonabile a quella che molti hanno magari già svolto in strutture partitiche quando queste ancora non erano dissolte. Chiunque abbia avuto un po’ d’esperienza in tal senso sa che la politica richiede tempo e dedizione, senza, molto spesso, ripagare l’impegno profuso. Ecco, se questo tempo lo si vuole impegnare per qualcosa di attivo, la rivista è un modo di farlo, ma bisogna crederci.

Senza discussione corale sui problemi osservati è difficile esprimere posizioni condivise e convergenti e per farlo non resta che escludere tutti i contributi dissonanti, ma una scelta di questo tipo sarebbe oggettivamente un impoverimento. Neanche si può accettare, pensiamo, l’opzione del “tutto o niente”, nel senso di dire che se non si può avere un collettivo allora non vale proprio la pena di cercare l’espressione di un disagio crescente cui la realtà ci costringe.

“Non tutti gli strumenti d’indagine sono equivalenti”. Siamo perfettamente d’accordo e riteniamo anche che se siamo qui a discutere della realtà che osserviamo, ciò lo dobbiamo ad uno strumento d’indagine particolare e non ad uno tra gli altri. Lo diciamo chiaramente, tale strumento è il marxismo. Ma diciamo chiaramente anche che non tutta la redazione è legata al marxismo nello stesso modo, ma soprattutto che il marxismo non può essere una discriminante nei rapporti umani e politici, perché in tal modo esso si trasforma in uno strumento di esclusione e non di inclusione, negando la sua natura di oggetto di adesione consapevole e non di demarcazione intellettuale. Su questo punto siamo anche convinti che non esista un marxismo, ma soltanto marxismi e che tutti non sono ascrivibili a Marx.

A questo discorso è ovviamente collegato quello sulle “scorie di idealismo”. Diciamo che, pur essendoci nella redazione posizioni diverse a riguardo non crediamo che una distinzione generica tra materialismo e idealismo sia di per sé così utile. Bisogna piuttosto capirsi su cosa si intende per materialismo ed idealismo. E crediamo che a questo riguardo molte considerazioni dei Quaderni dal carcere di Gramsci possano essere interessanti. Sempre per chi crede che il pensiero di Marx vada anche oltre i tre tomi de Il capitale. Ad esempio Canfora infatti sostiene che il “sistema misto” vada riformato con un ritorno al proporzionale (cosa condivisibile nell’ambito di una riforma della rappresentanza, ma non nell’ambito necessario del suo superamento), noi sosteniamo che la democrazia rappresentativa vada sostituita con la partecipazione diretta di tutti, senza esclusione alcuna, alla vita politica del paese, dato che la rappresentanza governa da decenni in nome del popolo sovrano contro il popolo. La forma possibile di tale partecipazione diretta non è ancora data, ma certamente non può essere più mediata dai partiti e certamente non può essere qualcosa di paragonabile a ciò che propone Grillo, almeno non in internet per come internet si presenta e funziona oggi. La proposta, avanzata nell’ultimo editoriale, della “demarchia” se da un lato è provocatoria, dall’altro è una suggestione volta a rivendicare un modo immediato per evitare la storica esclusione del popolo dalla gestione del potere e rompere la gestione monoclassista delle istituzioni. Non c’è traccia di questo nelle tesi di Canfora. In ogni caso bisogna discutere nel dettaglio queste posizioni, e non basta semplicemente bollarle come idealiste.

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Sulla questione culturale

Non si può disconoscere la gerarchia tra struttura economica e sovrastruttura culturale nella determinazione generale del funzionamento della società. Ci mancherebbe altro. Il fatto è che però accettando questo schema senza tentare di storicizzare le relazioni particolari tra struttura e sovrastruttura non si riesce a comprenderne il nesso profondo. Se è vero che la transizione ad un diverso sistema economico è sostanzialmente fenomeno politico (cosciente o meno), allora esso si genera nella sovrastruttura. Ad esempio quando Marx scrive Il capitale fornisce alla cultura umana uno strumento di interpretazione che cambia la percezione della realtà svelandone il funzionamento intimo. Solo a partire da questo momento diventa possibile pensare al superamento del capitalismo come sistema. Dunque se si riesce a intravedere un problema strutturale e a concepirne la soluzione è solo grazie ad un’operazione che prima di tutto rompe degli schemi mentali di lettura della realtà. Se la struttura determinasse sempre tutto il resto, allora nulla potrebbe determinare la struttura e dunque qualsiasi discorso sulla transizione sarebbe puro esercizio intellettuale.

Dicendo che l’Europa si è autoesclusa dalla possibilità di egemonizzare la cultura mondiale significa semplicemente ammettere che la distruzione di forze produttive rappresentata dai conflitti mondiali del Novecento, ha avuto una geografia particolare che ha devastato un continente piuttosto che un altro e questo ha determinato un vantaggio economico e militare americano che non è merito degli americani. È certo che l’egemonia culturale americana deriva dalla supremazia economico-militare, ma questa supremazia è derivata a sua volta da una devastazione bellica localizzata in Europa, che ha avuto dinamiche storiche interne e cioè sostanzialmente indipendenti da attività americane. Puntualizzando un passaggio in più il risultato non cambia nella sostanza. Certo è meglio essere precisi, ma nel processo storico non ci sono solo cause ed effetti ma anche cause delle cause e effetti degli effetti. Né porre la questione in questi termini vuol dire sostenere che se la storia si fosse svolta diversamente non sarebbe potuto sorgere un “europeismo” anche peggiore dell’americanismo. Ma la storia non si fa con i se.

La supremazia economico-militare resta un dato di fondo valido che però non lascia intravedere i motivi per i quali una società funziona come funziona. Non si può sostenere che le abitudini materiali di milioni di persone siano condizionate dalla supremazia economico-militare degli americani, tanto più in un’epoca spettacolare in cui il potere ottiene pacificamente ciò che vuole e non tramite meccanismi di pura repressione. Per questo motivo la categoria gramsciana dell’americanismo ci sembra una chiave interpretativa molto utile per la comprensione del presente, soprattutto perché permette di indagare in quali modi un sistema economico riesca attraverso la produzione di merci a produrre, non “anche” ma “soprattutto”, soggettività, in sostanza, conformi al potere e la cui percezione del mondo è depurata dalla coscienza delle sue disfunzioni. La soggettività di una società americanizzata è una soggettività capitalistica “naturalizzata”. Per questo pensiamo che possa accadere che «Si vedono i più sfavoriti, investire con passione il sistema che li opprime» (L’anti-Edipo, pag. 397).

Per questo motivo quando si dice “degenerazione della democrazia” non ci si riferisce ad un fenomeno storico che registra la discesa da una forma di democrazia reale ad una forma di democrazia falsa, cosa che implicherebbe l’ammissione che da qualche parte nella storia si sia manifestata almeno una volta la “vera democrazia”, ma si vuole intendere che è possibile continuare a denominare con il termine democrazia la forma politica attuale solo perché manca completamente un concetto condiviso di cosa questa parola possa significare e questo, ci pare, sia un dato soprattutto culturale prima che strutturale. Di passata è utile sottolineare come la democrazia rappresenti, una volta demistificata, un vero e proprio modo di produzione antitetico a quello attuale, che se da una parte appartiene al dominio della cultura in primis, dall’altro è capace di incidere direttamente nei meccanismi economici, legando finalmente in un unico discorso cultura, politica ed economia.

Dire che la condizione culturale attuale esclude un significato egalitario della democrazia significa che la cultura egemone porta i componenti delle classi subalterne piuttosto a desiderare di distinguersi dai propri simili, a voler essere come chi sta meglio, senza percepire la mancanza di senso di esistenze il cui vuoto emotivo, affettivo ed esperienziale è surrogato con il ricorso al possesso di merce in sempre maggiore quantità. Fuori dai denti è possibile dire che la categoria politica di ceto “piccolo borghese” rappresenta oggi una condizione mentale piuttosto pervasiva a livello sociale e questo è il frutto, per come sono andate le cose dal secondo dopoguerra in poi, dell’americanismo come programma di colonizzazione culturale, nel senso che lo si è ottenuto nella pacificazione delle disuguaglianze e non attraverso la loro eliminazione. Colonizzare culturalmente nel senso di ottenere la sottomissione con metodi dolci piuttosto che violenti, che questo sia poi il prodotto indiretto di una produzione spettacolare che è a tutti gli effetti produzione economica non toglie che l’effetto culturale possa essere strategicamente più importante dell’effetto puramente economico di una data produzione e non implica che le produzioni cinematografiche, e via dicendo, siano nate proprio con l’intento di conformare le coscienze di miliardi di persone al mondo, come però non nega la loro natura totalmente ideologica e apertamente propagandistica dell’american way of life.

Dunque parlare di cultura e di democrazia non ha il senso di soprassedere sulle questioni economiche e strutturali, ma quello di avanzare il dubbio sul fatto che cambiamenti significativi a livello economico possano accadere senza una critica volta a rifondare diversamente l’immaginario che domina le epoche storiche. Crediamo, dunque, che un’analisi storica completa non debba farsi troppo fascinare dall’applicazione di troppo semplici rapporti di causa-effetto lineari.

La caduta dell’urss è un esempio chiarificatore.

Non vi è dubbio che la causa prima del suo disfacimento è la sconfitta sul piano economico e militare, ma la spiegazione in questi termini non chiarisce perché la caduta si sia manifestata in certe forme, in un preciso momento e in una certa area geografica. Non chiarisce neanche cosa sia mancato, ad un certo punto, alla società sovietica per evitare a se stessa e al mondo una mostruosità quale è stata lo stalinismo. In questo senso sosteniamo che l’occidente capitalista abbia vinto definitivamente la propria battaglia nei confronti del cosiddetto “socialismo reale” sul piano culturale dell’immaginario, o se si vuole della mitologia, che ha saputo costruire su di sé. In sostanza siamo convinti della correttezza di fondo degli schemi di lettura della realtà che vedono, in ultima istanza, l’economia come determinante fondamentale dei fenomeni osservati, ma non pensiamo di poter ritenere tali schemi anche sufficienti a penetrare efficacemente “lo spirito” di un momento particolare, senza dire che gran parte dei cambiamenti in corso non sono affatto svincolati da elementi precipuamente strutturali, legati come sono ad un processo di evoluzione, in definitiva, tecnologica che rappresenta una vera e propria rivoluzione industriale, seppure tutta interna ai medesimi rapporti di produzione analizzati con insuperabile efficacia da Marx.

In definitiva pur comprendendo e condividendo in pieno le osservazioni di Guido pensiamo di poter rispondere che siamo completamente d’accordo con lui (anche laddove potrebbe sembrare il contrario), ma con la determinazione a spingere l’analisi della realtà anche negli anfratti più nascosti dei rapporti di produzione, che non sono relativi solo alla produzione di merci ma anche di soggettività. In questo senso ci inquieta anzitutto il fatto che decenni di acculturazione di massa su valori antisociali e persino antiumani, non siano resettabili in poco tempo, probabilmente neanche dalla più radicale svolta nei rapporti di produzione, se tale svolta non matura insieme ad una riaffermazione di un diverso concetto di umanità inverato in forme di associazione adeguate al compito eccezionale di riumanizzare la società.

 

MARZO 2013

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