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10
Maggio 2013

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DA PORTO ALEGRE A TUNISI 2013: LA NECESSITà DI UN ALTRO MONDO

Intervista a Marica Di Pierri* a cura di Ornella Esposito

 

“Un altro mondo è possibile”, questo lo slogan che dodici anni fa accompagnò la nascita del Forum Sociale Mondiale promotore di un’idea di sviluppo economico, sociale ed ambientale diversa e contrapposta a quella di cui i maggiori dirigenti politici ed economici internazionali insieme con intellettuali e giornalisti selezionati, discutevano negli stessi giorni a Davos in Svizzera.

Probabilmente, anzi, sicuramente quelle 12.000 persone, sostenute in parte anche dal Governo brasiliano, furono definite visionarie e fuori dal mondo perché il processo di avanzamento del capitalismo era (ed è) inarrestabile, dunque, bisognava piegarsi alle regole del mercato e alle logiche del profitto.

Ma fu proprio questa “necessità” che venne contesta, e ad essa contrapposta la possibilità di un’alternativa.

Da Porto Alegre 2001 a Tunisi 2013, passando per il G8 di Genova, le guerre in Iraq ed Afghanistan, le calamità naturali, l’aumento delle migrazioni, la crisi finanziaria, urge un cambio di paradigma. Si è giunti cioè alla necessità di un altro mondo, perché questo in cui viviamo è seriamente a rischio di scomparire e neanche tra moltissimo tempo.

Non è un caso che il fsm 2013 si sia svolto proprio a Tunisi, perché i giovani tunisini (e nord africani) rappresentano l’emblema di un cambiamento (o per lo meno di un tentativo), seppure la cosiddetta primavera araba imponga riflessioni molto complesse e chiami in causa (come evidenzia Vittorio Agnoletto) i rapporti tra i governi locali e le politiche neoliberiste, in particolare statunitensi, nonché la posizione dell’islam rispetto a come far fronte alle diseguaglianze sociali.

Veniamo ai contenuti del fsm discussi da oltre 40.000 persone appartenenti a circa 4.000 organizzazioni.

Le tematiche affrontate sono state davvero tante, dal processo di democratizzazione dei paesi mediterranei, alle libertà civili e alla giustizia sociale, con una particolare attenzione alla dimensione di genere.

Tra queste, le questioni ambientali, il tema delle migrazioni e quello della primavera araba ci sembrano particolarmente importanti ed attuali.

Ne parliamo con Marica di Pierri, giornalista ed attivista per i diritti umani, responsabile dell’area comunicazione dell’Associazione A Sud che ha seguito i lavori del fsm.

 

Il fsm ha affrontato molte tematiche relative all’ambiente ed allo sfruttamento dei territori. Tra queste il fenomeno del land grabbing e del fracking, di cui nei paesi ricchi si parla pochissimo. Cosa sono e quali effetti hanno sul lungo periodo su tutto il pianeta?

 

Le criticità ambientali e l’impoverimento delle zone ad alta intensità industriale sono state una costante nei racconti dei rappresentanti delle organizzazioni della società civile tunisina impegnate nei temi ambientali incontrati al Forum. Uno dei problemi centrali è la scarsità d’acqua, cui concorrono in maniera sostanziale tanto le colture intensive di alimenti destinati all’esportazione quanto i progetti estrattivi altamente contaminanti, come appunto il fracking (o estrazione del Gas di Scisto). Il fracking è una pratica estremamente invasiva e consiste nell’estrazione di gas naturale attraverso la fratturazione idraulica, ossia attraverso un processo di perforazione multilivello, che prevede l’esplosione di rocce fino a 6 km di profondità. Le acque iniettate oltre ad essere piene di sostanze altamente tossiche fuoriescono come acque di produzione contaminando non solo le falde acquifere ma anche i suoli sui quali ha luogo la perforazione. Oltre al gravissimo impatto legato all’utilizzo dell’acqua, questo processo estrattivo produce livelli di emissioni di co2 nettamente maggiori rispetto ai processi convenzionali di estrazione del gas, del petrolio e del carbone. Ad oggi numerose imprese in vari paesi conducono studi di prospezione per implementare progetti di questo tipo. Tra queste l’eni in Italia e la Shell (tra le altre) in Tunisia dove la mobilitazione sociale è purtroppo ancora molto debole a causa della complessità del tema.

Altra questione riguarda il tema del land grabbing, letteralmente “accaparramento di terre” che consiste nell’acquisto o nell’affitto di terreni nei paesi più poveri da parte di multinazionali o governi stranieri, in particolare quelli con una grande crescita della domanda interna di prodotti alimentari. La terra coltivabile è al momento una delle risorse più preziose. Quando gli investitori stranieri arrivano sui terreni delle comunità si passa dall’agricoltura tradizionale, basata sulle varietà locali, all’agroindustria, basata su monocolture destinate all’esportazione (olio di palma, soia etc.) che comportano un massiccio uso di composti chimici.

La maggior quantità di terre accaparrate si trova nel continente africano. E il Maghreb non fa eccezione. Come non fanno eccezione le imprese e gli istituti di credito italiani, diversi dei quali sono coinvolti in progetti di acquisto massiccio di terreni agricoli.

La questione del land grab è strettamente correlata al problema dell’insicurezza alimentare: 1 miliardo di malnutriti provenienti soprattutto da aree rurali ne sono la prova. Come lo sono le primavere arabe: l’aumento del prezzo dei generi alimentari è stato tra gli elementi propulsori delle mobilitazioni di due anni fa.

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Al fsm di Tunisi, quali previsioni si sono fatte sul futuro del pianeta terra? Quali invece le proposte per renderlo migliore?

 

Il dibattito parte da una considerazione condivisa di base: le cause strutturali delle crisi, a partire da quella ambientale, sono da ricercare nel modello economico attuale, basato su iper-sfruttamento di risorse e uomini. È per questo che le soluzioni vanno cercate al di fuori del paradigma dominante, lavorando alla costruzione di un modello sociale ed economico sostenibile tanto dal punto di vista sociale che ambientale. Che vuol dire, per cominciare: tutela dei territori e riconoscimento dei beni comuni, riconversione economica, riparazione e bonifica dei siti contaminati, garanzia universale del diritto alla salute e alla vita.

 

Gli Stati del Nord Africa (e non solo) sono stretti in una morsa: per fronteggiare la crisi sono “obbligati” a cedere alle avances delle multinazionali che sfruttano le loro terre (e le sottraggono ai contadini locali) in cambio di transazioni economiche. Queste politiche però creano le premesse per generare maggior povertà futura. Si è discusso di come si può uscire da questa morsa?

 

La terra e le questioni ad esso collegate sono state tra i principali argomenti discussi a Tunisi: sovranità alimentare, economie locali, modello di produzione e consumo. Tra assemblee, seminari e gruppi di lavoro, gli attivisti di diversi paesi si sono ritrovati con problemi comuni: indipendentemente da latitudine ed emisfero, il saccheggio delle terre da parte della produzione agricola e alimentare, gli effetti sempre più lampanti del cambiamento climatico e le sempre più aggressive pratiche di estrazione sono divenute minacce costanti per le comunità e i territori.

Chiaro che un simile circolo vizioso non può che creare maggiori disuguaglianze e povertà. Per questo le sfide che i movimenti contadini affrontano sono ovunque le stesse, come anche gli obiettivi prefissati: accesso alla terra, libertà dei semi, rafforzamento delle economie locali e della sovranità alimentare, a partire dalle comunità.

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Qual è il nesso tra migrazioni, industrie agroalimentari e Politica Agricola Comunitaria, fortemente contestata da tempo dalle organizzazioni partecipanti al Forum?

 

Il nesso tra queste cose si evidenzia proprio in un paese come la Tunisia, non a caso scelto come luogo dell’edizione 2013 del fsm.

Dagli anni 60 ad oggi l’Africa si è trasformata da regione esportatrice di alimenti a continente dipendente dalle importazioni. Terra di agricoltura e pesca, la Tunisia è da tempo diventata un porto di partenza di migliaia di persone, costrette ad abbandonare le loro terre, distrutte dalla scarsità di acqua, dalla desertificazione e dallo sfruttamento delle risorse, in cerca di opportunità di vita altrove.

Sebbene siano molti i paesi in cui il cambiamento climatico e l’industrializzazione crescente delle produzioni agricole impongono l’abbandono delle terre d’origine, i paesi del Maghreb, finestra di fronte dell’Europa Mediterranea, rappresentano perfettamente le criticità di un sistema che impone come esternalità negativa crescenti flussi migratori (distruggendo i mezzi di sussistenza nei paesi di origine) ma pratica come politiche migratorie i respingimenti o, una volta sul territorio nazionale, accetta sostanzialmente un modello lavorativo di semi schiavitù. Basti pensare alle centinaia di braccianti che contribuiscono ogni anno alla produzione industriale di pomodori o agrumi – solo per citare un esempio – coltivati in condizioni di lavoro degradanti nel Sud di Italia e Spagna.

All’occhio ormai esperto dei movimenti internazionali che da anni lottano per la sovranità alimentare e per un produzione agricola che sia in armonia con l’equilibro del pianeta, industrie agroalimentari e istituzioni politiche sono egualmente coinvolte in quella che sembra essere una deportazione organizzata: i contadini che ancora riescono ad ottenere qualche piccola produzione dalle loro terre – quando queste non sono spossate dai ritmi imposti dalla produzione industriale – non possono competere con i prezzi delle industrie agroalimentari che qui in Maghreb si espandono ad un ritmo impressionante. Ad alimentare questa condizione, la Politica Agricola Comune implementata dall’Unione Europea, arrivata sull’area mediterranea come una scure a causa dell’abbassamento dei prezzi dei prodotti agricoli che comporta.

Le migrazioni sono insomma strettamente legate al modello economico che abbiamo imposto ai paesi del sud. Lo dimostrano i 2 milioni di persone che ogni anno tentano di entrare illegalmente in Europa, spesso finendo tragicamente e andando ad ingrossare la lista delle migliaia di africani morti o dispersi nel mediterraneo.

 

Le primavere arabe. Molti studiosi concordano sul fatto che siano state “controllate” ed hanno portato al caos. Quali analisi a tal proposito al Forum?

 

Le primavere arabe non possono ancora considerarsi processi rivoluzionari conclusi. La popolazione tunisina denuncia ancora un clima di censura e repressione, e molti attivisti, giornalisti e blogger incontrati al Social Forum credono che il processo di cambiamento reale debba ancora sedimentare e sia solo all’inizio. Tuttavia sembra crescere la mobilitazione di alcune realtà associative e soprattutto dei giovani studenti che rivendicano la democratizzazione della vita pubblica, il diritto al lavoro, all’accesso all’informazione e il miglioramento generale della qualità della vita.

Quel che è certo è che c’è una gran voglia di sapere, conoscere, costruire relazioni e ragionare insieme a tante altre persone ed organizzazioni del mondo su prospettive di lavoro comune, ma anche semplice curiosità e un rinnovato entusiasmo nel sentirsi parte di un movimento globale che deve guardare anzitutto al Mediterraneo, ricostruendo ponti di solidarietà, cooperazione e mutuo soccorso tra due sponde mai state così vicine.

 

APRILE 2013

 

*Giornalista ed attivista per i diritti umani, responsabile dell’area comunicazione dell’Associazione A Sud

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