Recensioni
SHERRY TURKLE, LIFE ON THE SCREEN
Annelise D'Egidio
		Se oggi fosse ancora vivo, Heidegger non 
		potrebbe più né scrivere né sostenere che l’uomo è l’«ente privo di 
		mondo». L’enorme diffusione di Internet – il
		World Wide Web e l’aggettivo 
		Wide meriterebbe d’essere analizzato a dovere – e, parallelamente, 
		l’esplosione dei social networks
		hanno propiziato una vera e propria rivoluzione antropologica, che è 
		sotto gli occhi di tutti quanti noi. Con buona pace di Baudrillard, 
		l’iper-realtà si è tramutata in cyber-realtà e il villaggio globale è 
		divenuto un cyber-villaggio a portata di
		touch. Su tutto ciò lavora e 
		riflette la professoressa Sherry Turkle, un’esperta del settore, che da 
		molti anni oramai analizza l’impatto della Rete sulle esistenze 
		quotidiane degli individui. La 
		vita sullo schermo[1]
		– questo il titolo del saggio – ripercorre per tappe l’Evento e ne 
		documenta, presentando interviste e pareri, la ricezione, 
		prevalentemente presso l’opinione pubblica statunitense. In linea di 
		massima (e dai bambini in primis), 
		la sensazione che se ne trae è di una generale soddisfazione rispetto 
		alla tecnologia informatica: in parecchi affermano di aver avuto grazie 
		agli incontri virtuali – i cyber-incontri – la possibilità di vivere 
		un’altra vita, di essersene potuti cioè
		creare una radicalmente nuova 
		e, cosa ancor più importante, deliberatamente scelta. Community,
		mud e
		chat sono divenuti collettori di raccolta ospitali per quanti non si 
		sentivano a proprio agio nel mondo: l’adolescente timido, l’uomo di 
		mezz’età per nulla piacente, la ragazzina paffutella ed impacciata, la 
		donna, madre di famiglia insoddisfatta. E non solo: tra di essi, ad 
		animare l’atmosfera della 
		cyber-room anche uomini d’affari e managers in cerca di diversivi, 
		professionisti annoiati dalla routine del mondo reale o semplicemente 
		incuriositi. È accaduto così che il mondo (reale) si sia diviso tra
		utenti ed
		esperti: da un lato chi si 
		limita ad usufruire della macchina, a sfruttarne le virtù e le 
		potenzialità, senza conoscerne il funzionamento reale, e, dall’altra, i 
		tecnici, gli esperti, coloro che «se il
		pc si imballa sanno dove 
		mettere le mani». Dopo tutto comunque, sostengono gli entusiasti della 
		Rete, non occorre affatto sapere come opera e come computa il computer: 
		basta farlo partire e fa tutto da solo, perché «sa cosa fa». Tale 
		obiezione si dimostra valida per molti fra gli utenti, ma non li 
		persuade tutti e, come diceva Einstein, la macchina risolve problemi 
		senza riuscire a porsi mai domande. D’altra parte, sperimentare a 
		livello telematico è a costo zero, l’intera
		vita
		sullo
		schermo lo è! E, oltre a ciò, 
		i vantaggi sono parecchi altri: condivisione orizzontale delle nozioni e 
		delle emozioni, libero l’accesso e libera la modalità di trasmissione 
		dei contenuti – in altri termini: nessuna censura. Un vero e proprio 
		Eden, insomma; anzi, un cyber-Eden o, se si preferisce, un 
		cyber-Paradiso. Da cui non saremo mai cacciati (dato che Dio è morto)? 
		Seguendo Turkle lungo il dipanarsi del resoconto d’indagine che presenta 
		nel testo, c’è ben poco di che gioire: il cyber-Eden è solo simulato; è 
		cioè una simulazione che simula se stessa, ma questo non sconcerta: 
		Debord non è passato invano. Prima o poi, utente o programmatore che 
		sia, dovrà mettere piede a terra e, per esempio, mangiare, uscire di 
		casa a pagare le bollette, andare a lavoro, incontrare degli amici, far 
		visita ai parenti. Certo, i casi di dipendenza acuta da
		chat non sono rari, anzi 
		ciascuno di noi conosce qualcuno che lo sia o che lo è stato o potrà 
		diventarlo, quando addirittura non è egli stesso ex, attuale o futuro 
		chat-dipendente! Inquietante, scabroso, o forse solo esagerato? Niente 
		di tutto questo: è il futuro, bellezza. O, in altri termini: noi siamo i 
		figli di Internet, Internet è la nostra creazione maggiormente riuscita, 
		il nostro ambiente. Insomma, 
		tornando ad Heidegger, siamo l’unico ente che si relaziona ad Internet 
		(dunque, di conseguenza, siamo anche il solo che si relaziona ad esso 
		«in quanto tale»). Pertanto, la sola ontologia praticabile nell’era 
		postmoderna è cyber-ontologia. Abbastanza entusiasmante, no? Gli scenari 
		che si profilano sono da brivido e non potrà venirci in soccorso neppure 
		il buon Bauman con le sue categorie “liquide”: il flusso magmatico di 
		“pixel” e “byte” definisce e ridefinisce continuamente spazi e tempi, 
		strutturando dimensioni fluide, multiple, sovente disorganiche. Lo 
		spaesamento è all’ordine del giorno e non è detto che non possa 
		rappresentare una ricchezza, un’opportunità. Lo sappiamo bene, ce lo 
		ripetono come un mantra: dietro ogni trapasso epocale si cela un 
		possibile cambiamento che, solamente chi avrà abbastanza coraggio da 
		spingersi a guardare oltre, potrà cogliere. E allora che ne è dello 
		stupro reale ai tempi del cyber-stupro? Domanda lecita, considerando il 
		veemente dibattito scatenato dal suddetto evento in senso ai membri 
		della community: uno stupro 
		simulato è paragonabile ad uno reale? E ancora, chi stupra solo in
		chat va curato prima che tenti 
		di farlo nella vita reale? Lo farà senza dubbio o il suo è solo il gesto 
		sconsiderato di colui che non ha smarrito affatto il senso del limite 
		tra realtà e realtà simulata? Eppure, quando l’alta definizione comincia 
		ad essere più reale del reale (iper-reale appunto), tanto da far 
		scomparire, inghiottendo e polverizzando, la realtà originaria, siamo 
		davvero sicuri che lo schermo è unicamente il veicolo con cui vengono 
		trasmesse le immagini? È più che lecito nutrire dubbi e provare paura; 
		d’altronde, a quanti, da piccoli, è successo di continuare a 
		singhiozzare terrorizzati a causa delle ombre intraviste nel buio, 
		nonostante le rassicurazioni dei genitori? La fragile realtà del 
		mondo-ambiente, che abbiamo creato su misura per noi, ci ha 
		completamente scavalcati, comprimendoci all’interno delle maglie, quelle 
		stesse che, un tempo – neppure tanto remoto – ci apparivano larghe e 
		ariose, del Web. Stiamo lentamente scoprendo che la Rete è selvaggia (wide, 
		in inglese), quanto e più del mondo reale, da cui abbiamo preso le 
		distanze. Se Internet simula e se la sua simulazione cibernetica è così 
		mostruosamente reale (Turkle parla di “estetica della simulazione”), 
		varrà la pena interrogarsi seriamente sui suoi pro e sui suoi contro, 
		per continuare a programmarlo e a non essere (ri)programmati a nostra 
		volta. Che piaccia o meno, questa è l’era della soggettività fluida!
		
		APRILE 2013
		
		
				
				
				[1] 
				Sherry Turkle, La vita 
				sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di 
				Internet, Apogeo, Milano 1997.