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Ottobre 2013

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Esperienza e rappresentazione

COSA SIGNIFICA SENTIRE?

Giulio Trapanese

 

Trascrizione della prima parte del seminario tenuto l’11 Giugno 2013 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

 

Anzitutto non posso esimermi dal ringraziare il prof. Gargano che ha voluto quest’iniziativa ed ha messo su questo calendario di appuntamenti dal titolo La forza dell’età.

Per quanto mi riguarda, intendo dare valore a quest’occasione che mi è stata concessa presentandovi il discorso della filosofia come un modo per pensare il nostro presente, anche se questo può voler dire perdere una precisione filologica assoluta.

Dopo il prof. Gargano, sento di dover ringraziare sinceramente chi è venuto oggi qui, dovendo prendere anche dei treni. Infine un ringraziamento importante va a chi con me condivide il progetto della rivista «Città future», su tutti, coloro che lavorano al tema di Esperienza e rappresentazione.

Come si dice in questi casi, il merito di molte cose che dirò è da condividere con loro, ma la responsabilità delle imprecisioni e delle avventatezze del mio discorso dovranno essere addebitate a me e alla mia fretta argomentativa.

Vorrei fare, adesso, una breve premessa.

È chiaro a molti di noi come ci troviamo a vivere le nostre esperienze culturali in un modo a dir poco frammentario, e, per questa ragione, le nostre riflessioni acquisiscono una forma rapsodica, molto accidentale.

Personalmente ho cominciato a dedicarmi a questi studi da almeno due anni, ma sono costretto ad interromperli continuamente. Credo che uno studio e un confronto più continui potrebbero generare risultati molti più fruttuosi di quanto si riesca a fare in questa dimensione che definirei, con un termine molto in voga, assolutamente precaria.

Qualche giorno fa, discutendo con Dario della connessione che esiste fra la precarietà che interessa tanti aspetti della nostra esistenza e il quadro strutturale costituito dalla terza rivoluzione industriale basata sull’informatica, condividevamo il fatto che siano veramente pochi coloro che intuiscono tale connessione.

In un certo senso, è questo ciò di cui oggi vi vorrei parlare, attraverso alcune chiavi di lettura di stampo filosofico. Il tema di cui vorrei parlarvi, infatti, non è un tema di storia della filosofia. Come dicevo, si tratta di discutere filosoficamente una delle più grandi trasformazioni che riguardano noi e il nostro presente.

Negli ultimi decenni è cambiato, infatti, qualcosa di essenziale nella sfera della nostra esperienza con il mondo. Se ne possono avere le più svariate opinioni, ma è innegabile che viviamo una trasformazione radicale. Ho provato in passato, ed insisto, a circoscrivere tale trasformazione in modo particolare alla sfera della temporalità del nostro esperire il mondo e noi stessi.

Dico questo perché pur non essendo sicuro dell’adeguatezza di ciascuna delle riflessioni che vi proporrò, sono tuttavia convinto del fatto che l’oggetto che propongo alla vostra riflessione sia un oggetto importante, forse l’unico autentico oggetto degno di riflessione al giorno d’oggi.

Due anni fa ho tenuto un seminario presso la Brau dal titolo Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo, e Raffaele Di Stasio, forse l’unica persona presente al seminario di due anni fa che vedo anche oggi in sala, si ricorderà del quadro teorico presentato in quella circostanza.

In buona sostanza, l’idea era che in conseguenza di una radicale trasformazione del nostro rapporto con il tempo e lo spazio del nostro esistere quotidiano, venivano a trasformarsi anche i connotati dei concetti del nostro esperire e del nostro rappresentare il mondo, con una netta sopravvalutazione di quest’ultima dimensione rispetto alla prima.

Se, da un piano superficiale, la moltiplicazione degli stimoli procurata dai nuovi mezzi di comunicazione aumentava la nostra ricettività sensibile, d’altro canto essa finiva con immobilizzare il piano concreto della temporalità soggettiva. Diciamo che quel seminario si reggeva fondamentalmente sulla contrapposizione imposta ai due termini di esperienza e rappresentazione. Nell’evoluzione di questa ricerca si sono ovviamente presentati dei problemi e delle nuove riflessioni. Proverò così adesso a presentarvene alcune, cercando di rendere quest’appuntamento una sorta di laboratorio aperto alla discussione di chi sia interessato a dare un contributo a tale ricerca.

Il punto da cui parte questo seminario è il seguente: che cosa significa fare un’esperienza?

Se infatti, negli ultimi anni, nel gruppo di ricerca, ci siamo abbastanza chiariti su cosa intendere per rappresentazione, molta meno strada siamo riusciti a fare rispetto al tema dell’esperienza e delle sue trasformazioni nel mondo di oggi. E non credo che sia un caso.

Ciò che allora proverò a discutere oggi, riguarda essenzialmente un’interpretazione di questo concetto attraverso la categoria del sentire.

Vi indico come intendo procedere. Il seminario si fonderà principalmente su tre riflessioni filosofiche e avrà come base un testo di letteratura. Le tre questioni sono: il concetto di simulazione, il rapporto fra le categorie di sentire, essere ed appartenere, la rappresentazione come traccia d’assenza dell’essere. D’altro canto, invece, il testo da cui partiremo e che potrà offrirci non pochi spunti sarà Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di P. Dick, edito nel 1968.

Per presentarvi brevemente questo grande romanzo di Dick, posso dirvi che in esso ci troviamo proiettati in una società del futuro (futuro rispetto all’anno in cui fu scritto). È il 1992, infatti, e ci troviamo a San Francisco. Si tratta d’un romanzo edito alla fine degli anni sessanta, ed è stato scritto, per chi non lo conoscesse o non avesse mai letto Dick, da un autore statunitense che ha saputo, tra gli altri suoi meriti, descrivere in modo acuto la trasformazione dell’esperienza umana in rapporto al fenomeno crescente della robotizzazione e della meccanizzazione della stessa.

Il motivo principe per cui assumeremo un testo di Dick come riferimento è che attraverso il suo scritto potremo spostare l’angolo della nostra visuale in un luogo e in un tempo dove il nostro presente ha cominciato ad esistere prima di quando non sia divenuto attuale anche per noi. Molte cose, in questa maniera, ci potranno essere più visibili e potremo discuterle più agevolmente.

Una volta ricostruita la trama e il contesto del romanzo, introdurrò la prima delle tre riflessioni che vi ho anticipato.

Nel romanzo di Dick la terra, dopo una guerra mondiale, si presenta spopolata di uomini e di animali, dei quali la maggior parte delle specie si sono estinte. Al contempo molti esseri umani sono emigrati su altri pianeti sotto l’invito dell’onu, che ha promosso diverse campagne di colonizzazione. La dimensione è quella di una profonda desolazione, materiale e psicologica, che interessa più o meno tutti: sia chi è rimasto sulla terra, perché non ha potuto fare altrimenti, sia chi è andato via, ma si è condannato ad una vita apparentemente più sana ma, al contempo, più fredda e desolata. L’umanità dispersa mantiene un tratto in comune, la nostalgia. In forme diverse, e più o meno coscienti, ciascuno avverte che una certa stagione dell’umano è tramontata, non se ne sanno dare una vera spiegazione e, tutto sommato, accettano passivamente il nuovo stato di cose.

Lo stesso sentimento della nostalgia non è sentito in modo chiaro. Appare solo in alcuni momenti, e in forme camuffate. Nelle parole di Dick, la nostalgia stessa è qualcosa che può essere intuita, pensata, ma non sentita sinceramente. 

Di tale nostalgia si danno evidentemente una serie di tentativi di compensazione. Della vita e delle relazioni, che non ci sono più, si cercano forme di sostituzione nelle forme artificiali di vita, che siano umane o animali. La società del futuro è giunta infatti, grazie alle sue conoscenze tecnologiche, a costruire, da un lato, androidi, dall’altro, animali artificiali.

Gli androidi, in particolare, sono oggetti artificiali costruiti dagli uomini, secondo il principio di somiglianza. Tuttavia, ciò che ad essi manca per costituzione (ovvero per fabbricazione) è la capacità di provare empatia, ovvero la capacità di sentire l’altro.

P. Dick ci presenta così, nel suo romanzo, due tipi di esperienze che coesistono nello stesso scenario spazio-temporale: quella degli uomini e quella degli androidi. Il tratto autenticamente originale del romanzo è tuttavia la dimensione di confusione che si viene a creare tra le due, dove agli androidi che vorrebbero essere come gli uomini si affiancano gli uomini che finiscono con l’accettare un’esistenza sempre più simile a quella dei nuovi soggetti androidi.

Il titolo del romanzo, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, che corrisponde così a “Ma gli androidi, che non sono vivi, sognano qualcosa di vivo o di non vivo?”, al termine della lettura del romanzo può essere tradotto in “Ma gli uomini sognano ancora altri uomini, o sognano anche loro qualcosa di elettrico, ovvero di artificiale?”.

Ho selezionato per voi alcune brevi parti del romanzo. La prima che vi sottopongo presenta il protagonista, il cacciatore di androidi Rick Deckard, nel proprio appartamento in compagnia della moglie Iran. Al centro è chiaramente il tema del rapporto con il sé e con la manipolazione delle proprie emozioni e del proprio sentire.

Nella prima pagina del testo che vi ho dato, subito dopo leggiamo:

(torna su)

«Me ne stavo seduta qui in un pomeriggio, disse Iran, come al solito ero sintonizzata su Buster Friendly e i suoi simpatici amichetti e lui stava parlando di una grande notizia che era sul punto di dare, quando si è inserita quell’orribile pubblicità, quella che odio, quella della braguette in piomb Montiblanc. Così per un minuto ho tolto l’audio, e ho sentito il palazzo, ho sentito gli…», fece un gesto per indicare tutto intorno a sé. «appartamenti vuoti», completò la frase Rickard. A volte anche lui li sentiva di notte, quando avrebbe dovuto essere già addormentato, eppure a quell’epoca un condapp (cioè un appartamento condominiale) abitato a metà, si collocava nella parte alta della classifica della densità abitativa. Fuori, in ciò che prima della guerra era stata la fascia suburbana si potevano trovare edifici completamente vuoti, almeno, così aveva sentito dire. Aveva lasciato che quell’informazione rimanesse di seconda mano, come la maggior parte della gente, non ci teneva a farne esperienza diretta[1].

 

Qui comincia la scena su cui, in particolare, intendo soffermarmi:

 

«In quell’istante», continuò Iran, «quando ho tolto l’audio, ero di umore 182. Avevo appena composto il numero. Benché percepissi intellettualmente quel vuoto, non lo sentivo».

 

L’umore, in questo caso, può essere prodotto attraverso ciò che noi oggi chiameremmo un software. Questi programmi infatti, collegandosi all’organismo umano, ne riconoscono l’umore in una scala decodificata e sono in grado di trasformarlo, attraverso l’inserimento di appositi codici.

La scena che segue è di una sottile drammaticità:

 

«La prima reazione è stata ringraziare il cielo che ci potevamo permettere un modulatore d’umore Penfield. Poi mi sono resa conto di quanto fosse malsano percepire l’assenza di vita, non solo in questo palazzo, ma ovunque, e non reagire, capisci? Credo di no. Questo una volta veniva considerato segno di malattia mentale».

 

In passato dunque, era considerata una malattia mentale il percepire intellettualmente qualcosa, senza che esso venisse in qualche modo sentito. Quindi aspirare a sentire, voler sentire, ma non propriamente sentire.

«… segno di malattia mentale. La chiamavano assenza di affetto adeguato…».

In alcuni saggi, trascrizione di alcune conferenze di quegli anni settanta, Dick scriverà che considera questa una malattia mentale di forma schizoide; con tale categoria, egli precisa, intende la tendenza ad intellettualizzare il mondo, senza la capacità di farne effettivamente un’esperienza sensibile.

Vi invito a tenere presente quest’ultima frase perché costituirà la base per la prima delle nostre riflessioni: «Così ho lasciato l’audio a zero, e mi sono messa alla tastiera del modulatore per fare qualche esperimento».

La sottile drammaticità di questa parte continua anche nelle righe seguenti: «alla fine ho trovato la combinazione della disperazione».

La peculiarità della personalità di Iran è che intuisce il vuoto, molto più, ad esempio, di Rick, ma la sua esperienza rimane, in ogni caso, un’esperienza fondamentalmente intellettuale. Intuendo il vuoto presente alla base della propria condizione, pur non riuscendo a sentire la disperazione, Iran mentalmente vuole essere disperata. In questo modo, grazie all’aiuto della macchina, programma la disperazione come proprio stato emotivo.

 

Il volto scuro, spavaldo mostrava soddisfazione come se avesse conseguito un grande risultato. «E così l’ho messa in agenda due volte al mese. […] Ritengo sia un lasso di tempo ragionevole per disperarsi di tutto, di essere rimasti qui, sulla terra, dopo che chiunque fosse sufficientemente sveglio è emigrato. Non credi?».

 

E il marito le risponde: «ma in uno stato d’animo così finisci che ci rimani dentro, non digiti più un codice per uscirne. Una disperazione del genere sulla realtà globale si auto-perpetua».

Ma lei dice: «io programmo un codice automatico per tre ore dopo [...]. Consapevolezza delle molteplici possibilità che mi si aprono davanti per il futuro; nuova speranza che…».

La situazione in cui ci troviamo è, dunque, quella per cui ad ogni stato d’umore può poi seguirne un altro solo, a patto che venga programmato in anticipo perché, d’altro canto, dal di dentro diventa quasi impossibile cambiare la situazione.

In questo modo si prova ad operare una programmazione di ciò che, nel rapporto tradizionale dell’uomo con sé, era considerato non preventivabile a priori, ovvero la propria relazione con il mondo circostante[2].

La scena termina poi con Rick che accende la televisione e con lei che gli dice: «non sopporto la televisione prima di colazione»; e lui le risponde: «fai l’888, desiderio di guardare la tv, qualsiasi cosa trasmetta»; e lei: «Adesso non ho voglia di fare un bel niente»; e lui: «E allora scegli il 3» e infine lei: «Non posso digitare un numero che stimola nella corteccia cerebrale il desiderio di comporre un codice».

(torna su)

Introdotto così il romanzo di Dick, credo si possa passare alla seconda parte del seminario, una parte più densa e in cui vi proporrò alcune tesi filosofiche.

La prima si riferisce al tema della simulazione. Il romanzo di Dick è stato scritto nella seconda metà degli anni sessanta, ed in esso si presenta in forma chiara il problema relativo alla scissione fra sentire e agire. In particolare, nel quinto capitolo del romanzo, Rick Deckard compie un test volto a diagnosticare di una persona se si tratta di un essere umano o di un androide. Nel romanzo questo test è indicato con il nome dei suoi artefici Voigt-Kampff (si tratta, infatti, di un test d’origine russa legato alla psicologia pavloviana).

Dal momento in cui l’androide del modello Nexus 6 è stato progettato per conoscere perfettamente quali siano le risposte che dà un umano (anche meglio di un umano), la questione per chi compie il test, più che segnare la risposta data, è valutare altri elementi di tipo psicometrico, relativi al tempo di risposta e alle variazioni fisiologiche[3].

Aggiungo, per inciso, che risulta interessante come nel romanzo (un romanzo, in questo senso, molto americano), il discrimine fra verità e finzione possa essere individuato solo in chiave psicometrica e fisiologica[4].

In questo modo, se il soggetto ci impiega troppo tempo a rispondere, o se la sua risposta è troppo impersonale, oppure alla risposta non corrisponde un’adeguata dilatazione o contrazione della pupilla, ciò sta a significare che al di là della rappresentazione verbale di ciò che dice, quanto è espresso dal soggetto non gli appartiene effettivamente. Questo perché, non essendo umano, non avverte dal punto di vista sensibile ciò che dice, ma lo esprime in modo astratto, solo attraverso delle parole che intellettualmente si confanno alla domanda fatta.

Ora vi leggo velocemente questa parte, prima di proporvi la prima riflessione: cosa significa simulare?

 

Rick, scelta la domanda numero 3 disse all’androide (a quella che poi si rivelerà un androide): «Per il suo compleanno le regalano un portafoglio di cuoio [il cuoio dovrebbe generare ribrezzo in quanto pelle di animali]». Entrambi i quadranti registrarono una risposta che superava il settore verde e arrivarono nel rosso. Gli aghi sventagliavano con violenza e poi si fermarono.

 

Dunque, sembra esserci una risposta emotiva.

 

Rachael, l’androide, risponde: «non l’accetterei, e poi denuncerei alla polizia, la persona che me lo ho dato». Dopo aver buttato un appunto, Rick continuò passando all’ottava domanda del questionario di Voigt-Kampff. «Suo figlio le mostra una collezione di farfalle ed anche il barattolo che usa per ucciderle». Lei risponde: «Lo porterei dal dottore».

 

Uccidere degli animali, dunque, secondo un ragionamento un po’ semplicistico, è considerato tout court segno di inumanità[5].

 

La voce di Rachael era bassa, ma ferma. Di nuovo le due lancette registrarono una risposta, ma stavolta non andarono altrettanto lontano. E annotò anche questo. «Ok», disse lui annuendo. «Vediamo quest’altra. Sta leggendo un romanzo scritto ai vecchi tempi prima della guerra. I personaggi sono al Ficherman‘s market di San Francisco. Hanno fame, e così entrano in un ristorante famoso per il pesce. Uno di loro ordina un’aragosta e lo chef tuffa il crostaceo in una pentola bollente sotto gli occhi di tutti». «Oddio!», esclamò Rachael. «Facevano davvero così? Che orrore, che perversi. Ma davvero un’aragosta viva?», le lancette, però, non reagirono. Dal punto di vista formale, una risposta esatta, ma simulata.

 

Un’aragosta, ovvero un animale cotto vivo, suscita una certa sensazione. La risposta, dunque, può essere annoverata fra quelle giuste, tuttavia, secondo lo strumento, non presenta una corrispondenza con il sentire.

L’ultima domanda di questo test, in realtà la più interessante, è divisa in due parti:

 

«Sta guardando un vecchio film alla televisione, un film prima della guerra. Siamo nel pieno del banchetto, e gli ospiti degustano delle ostriche crude». «Che schifo!», esclamò Rachael, e gli aghi scattarono veloci. «Il piatto principale», continuò Rick, «era cane bollito con ripieno di riso» e gli aghi si mossero poco stavolta, meno che per le ostriche crude. E lui le dice allora: «per lei le ostriche crude sono più accettabili di un piatto di cane bollito? Evidentemente no».

(torna su)

Il punto, dunque, è che qualcosa di crudo, soltanto dal punto di vista del suo concetto, richiama l’inumano. Cuocere un animale crudo è un fatto così da considerare scabroso, ma è evidente come si tratti di un discorso astratto, dal momento che nella consuetudine l’ostrica è mangiata anche cruda, mentre il cane, per quanto possa essere bollito, non è considerato dalla maggior parte della popolazione mondiale un animale da servire a tavola.

Questo scollamento dalla convenzione sociale e questo mancato riconoscimento di una certa convenzionalità dei costumi umani, interpretato quale segno di automatismo, fa decidere Rick per la classificazione di Rachael come un androide. La sua rigidità è considerata così un segno di inumanità.

Detto questo, la prima riflessione che vi propongo, suggeritaci da Dick, riguarda la differenza qualitativa essenziale tra ciò che si dice sentendolo e ciò che, invece, viene espresso o rappresentato, ma in modo astratto ed esteriore. Con le categorie del vecchio seminario, possiamo dire che l’androide, pur non avendo un’esperienza propriamente umana, sa e può rappresentarsela e, dunque, simulare di averla. L’androide, quindi, può imitare l’uomo.

P. Dick ha posto così, a modo suo, e attraverso una grande vena narrativa e un estro immaginativo, alcune questioni poste anche da filosofi della nostra contemporaneità.

Dicevo l’altro giorno con Dario Malinconico, Sartre stesso in Essere e nulla affronta questo tema; si tratta del celebre passo in cui ci descrive l’atteggiamento d’un cameriere che gioca a fare il cameriere. La descrizione che ci offre Sartre è quella di un individuo che si muove in modo pronto ed agile, che sembra avere un’immagine di sé definita e netta. È fin troppo cameriere e sa, perfettamente, come agisce e come dovrebbe agire un cameriere.

Tuttavia non è un cameriere, nel senso che non è naturalmente un cameriere. Piuttosto gioca a farlo, imita un cameriere. In questo caso, pur essendo di fatto un cameriere, il suo ruolo nel mondo non corrisponde all’interiorità. La sua immedesimazione è con qualcosa d’altro: egli è talmente immedesimato con quello che fa, che la sua immedesimazione risulta forzosa, ostentata.

Dunque, la domanda che pongo è: cosa significa simulare di essere? Cosa significa agire ma senza sentire ciò che si fa?

Se il cameriere di Sartre gioca a fare il cameriere, c’è evidentemente qualcosa in lui che manca rispetto a chi è cameriere senza giocare a farlo.

L’interesse di questo discorso credo risieda nel fatto che la nostra condizione odierna ci porta ad essere molto preparati su cosa debba essere fatto, o debba essere detto, secondo un certo canone normativo. Abbiamo costruito, d’altro canto, macchine che decodificano ciò che è umano (dunque, ciò che deve esserlo) rispetto a ciò che non lo è. Con l’intelligenza artificiale abbiamo astratto l’intelligenza dalla base naturale della vita, creando così della macchine che, se pur non vive, riteniamo comunque intelligenti e alle quali lasciamo decidere cosa può essere accettato come umano e cosa no.

L’intelligenza artificiale è divenuta oggi il modello implicito d’ogni altra intelligenza.

D’altro canto, osservando l’evoluzione delle specie animali, e in particolare della specie animale che è l’uomo, possiamo riconoscere come l’intelligenza si vada presentando come una funzione della vita: essa sorge cioè all’interno del circolo di senso e di valore costituito dalla dimensione vita e, dunque, non può essere astratta da tale base naturale senza che si modifichi sostanzialmente.

Proiettare l’intelligenza in qualcosa di non vivo rende l’intelligenza stessa qualcosa di diverso e, forse, di non vivo.

L’androide stesso, dunque, rappresenta una forma assai evoluta di intelligenza. D’altro canto le macchine dei nostri giorni sono, almeno da un certo punto di vista, più capaci di noi, nel senso che hanno più memoria, sono più veloci dell’intelligenza che le ha generate.

Questo piano di sviluppo dell’intelligenza, in qualche modo, si regge quindi su di una rappresentazione di una modalità d’essere originaria dell’uomo cui non corrisponde però, necessariamente, un sentire di essere. Dunque, alla base del suo aumento non si presenta una maggiore pienezza di questo essere stesso.

Devo, tuttavia, dare ancora la mia risposta alla domanda relativa a cosa senta il cameriere di Sartre; darò una risposta in chiave negativa. Credo anzitutto che egli non senta, e, in modo particolare, non senta di sentire il vuoto, cioè di sentire di non trovarsi affatto a suo agio dove si trova. Non arrivando a sentire questo, finisce con il rifugiarsi nella rappresentazione di una certa immagine di sé.

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Giuseppe Di Stefano: Ma il cameriere deve essere cameriere…

 

Sì, ma soltanto nel senso che se lo autoimpone, poiché non è certo costretto da qualcosa di esterno ad esserlo. Riducendo, però, l’autocoscienza sensibile di ciò che prova o di ciò che non prova – ricordate l’introduzione al romanzo di Dick – si rifugia in un’immagine che gli è esterna.

Con questo terminiamo lo spazio dedicato a questa prima riflessione e, se non ci sono altri interventi, possiamo andare avanti con la seconda, che costituisce il punto di riflessione più denso di questo seminario.

 

Introdurrò ora alcuni personaggi del romanzo di cui non vi ho ancora fatto menzione. Il primo è Isidore, uno “speciale” (cioè dotato di un’intelligenza inferiore per via della polvere radioattiva) il quale lavora in una ditta che costruisce animali artificiali.

L’altro è invece Mercer, personaggio con caratteri reali affiancati ad altri più fantastici, rappresentante della capacità empatica di cui ancora una parte dell’umanità si sente detentrice. Nuova figura di Cristo in forma post moderna, rappresenta il modello di chi si sacrifica per gli altri: egli, infatti, è impegnato in un proprio percorso di ascesi e di sofferenza, grazie al quale tutti gli altri, collegati con lui attraverso una scatola empatica, possono sentire le emozioni degli altri, in un’esperienza che si oppone al vuoto che li sovrasta quotidianamente[6].

Il titolo che ho dato questa seconda parte è il seguente: Non è possibile resuscitare i morti, cioè sentire, essere, appartenere[7].

Partiamo ancora dal romanzo. In questa scena del romanzo R. Deckard, dopo aver concluso il suo lavoro di ritiro degli androidi, si trova lontano, sperduto in un qualche angolo della costa Ovest degli Stati Uniti.

 

«Rimisi a posto il ricevitore senza togliere gli occhi dal punto oscuro che si era mosso fuori dalla macchina. Nel terreno, in mezzo alle pietre, c’era come un rigonfiamento. Un animale», disse fra sé. E il suo cuore perse qualche colpo, sotto il peso eccessivo, lo shock del riconoscimento. «So che cosa è», si rese conto all’improvviso. «Non ne ho mai visto uno prima, ma lo riconosco da uno di quei vecchi documentari naturalistici che mandano in onda sulla rete del governo. Ma sono estinti!», esclamò dentro di sé. Tirò subito fuori la copia ormai consunta del Sidney[8]. «Rospo Bufonidae tutte le varietà». Era estinto ormai da anni. La bestiola più cara a W. Mercer, insieme all’asino. Ma il rospo veniva prima di tutti.

 

Dopo aver preso e portato via con sé questo rospo, una volta giunto a casa, scopre, con l’aiuto della moglie, che il rospo non è vivo, ma artificiale. Sopraggiunge così una grande delusione.

 

La delusione s’impossessò pian piano della sua faccia. «Ah beh, adesso capisco, hai ragione tu». Avvilito, scrutò in silenzio l’animale finto, lo tolse dalle mani di lei e giocherellò perplesso con le zampe, sembrava non capire bene quello che era successo. Poi lo ripose con cura nella scatola. «Chissà come ci è andato a finire in quella parte isolata della California. Qualcuno deve avercelo portato, non c’è modo di sapere come o perché». «Forse non avrei dovuto fartelo vedere che era artificiale», disse Iran. Iran gli allungò la mano, gli toccò un braccio. Si sentiva un po’ in colpa, per via dell’effetto, il cambiamento che la rivelazione aveva avuto su di lui. Rick risponde, tuttavia, con coraggio: «È meglio sapere. O piuttosto... ». Tacque per un attimo. «Insomma, preferisco saperlo».

(torna su)

Qui adesso troviamo la frase che vi ho riportato, che a me sembra introdurre una riflessione importante quanto al rapporto fra la vita e il sentire.

«”Non ho più quella impressione”, disse lei. “Sono solo contenta, accidenti, di averti di nuovo qui, dove dovresti essere”, riferita al marito. Lo baciò, e la cosa sembrò fargli piacere. Il volto gli si illuminò, quasi quanto prima». Prima di capire cioè che il rospo fosse artificiale.

«”Secondo te ho sbagliato”, chiese lui, “a fare quello che ho fatto?”» – si  riferisce al ritiro degli androidi – «”No. Mercer ha detto che era sbagliato, ma che avrei dovuto farlo lo stesso. Però è strano, a volte è meglio fare la cosa sbagliata, piuttosto che quella giusta. È la maledizione che incombe su di noi”, spiegò Iran. “Quella di cui parla sempre Mercer”. “Vuoi dire la polvere?” chiese lui – s’intende la polvere radioattiva – “no, gli assassini che lo hanno trovato quando lui aveva solo sedici anni, quando gli dissero che non poteva far tornare indietro il tempo e riportare in vita le cose».

Sembra, infatti, che nel suo passato Mercer avesse il dono di far resuscitare i morti ma, al tempo stesso, che egli abbia perso tale capacità a causa di una sorta di maledizione.

«Perciò ora non può fare altro che lasciarsi trascinare dalla vita, e andare dove lo porta, cioè verso la morte. E gli assassini gli tirano le pietre, sono loro che gliele tirano e lo inseguono ancora. In realtà inseguono anche tutti noi. È stato uno di loro a farti quel taglio sulla guancia, vero?»

Siamo ormai alla fine del romanzo, e mi sembra che, arrivati a questo punto della lettura, si possa già sostenere – come ho scritto nell’introduzione che vi ho distribuito – che il motore del romanzo sia la ricerca di una qualche manifestazione residua della vita, rappresentata dal desiderio di possedere un animale vivo. Di certo non può essere considerata una scelta casuale da parte di Dick quella di aprire e chiudere il romanzo con la rappresentazione della modulazione dell’umore.

Nelle ultimissime righe del romanzo, così, Iran chiama il negozio di animali artificiali e ordina del cibo per il rospo artificiale che hanno deciso di tenere. Dunque il sogno originario di Rick, relativo all’acquisto di un animale vivo, a confronto con la realtà, si ridimensiona, orientandosi al possesso di qualcosa di artificiale. Dunque, alla conclusione del percorso del romanzo sembra che l’autore ci voglia suggerire come non siano solo gli androidi a sognare pecore elettriche, ma gli stessi uomini a farlo, tra cui Rick, accontentandosi di un rospo di fattura umana. Ormai il mondo va in una direzione nuova, in parte imprevista agli stessi personaggi del romanzo, la direzione di una radicale trasformazione di certi aspetti dell’esperienza umana.

Si possono avere reazioni differenti rispetto a tale nodo storico. Quella dell’autore (attraverso il protagonista Rick Deckard) si riassume nell’invito di Mercer, la figura del nuovo Cristo: bisogna andare avanti, seguire la direzione del flusso temporale.

Dunque, la riflessione filosofica di questa seconda parte riguarda il tema della vita e dell’univocità del verso del tempo. Mercer, infatti, sostiene come ormai non sia possibile resuscitare i morti, riportarli in vita. Dopo aver perso queste sue capacità sovrannaturali, anche ai suoi occhi il tempo non può che scorrere in un unico verso.

La riflessione che vi propongo si fonda a partire da questi tre termini: sentire, essere ed appartenere. Cercherò di stabilire fra questi una certa relazione, spiegando in quali termini ci sia lecito stabilire fra di essi una relazione di identità. Quando ne ho parlato privatamente due settimane fa con Annelise D’Egidio e Jamil Palumbo, ho sostenuto come ci sono una serie di ragioni per le quali, nella dimensione dell’esperienza umana, fra sentire ed essere, essere ed appartenere, e appartenere e sentire sussista una circolarità di senso, che porta all’identificazione, secondo un certo rispetto, di questi termini.

Credo, tuttavia, che si debba procedere ad una chiarificazione preliminare delle ragioni.

Cominciamo dal termine del sentire, che forse si presenta come quello di più difficile interpretazione. Si tratta, infatti, di un termine che utilizziamo comunemente nella nostra quotidianità, ma su cui abbiamo difficoltà a soffermarci con il pensiero. Cosa vuol dire, infatti, che sentiamo qualcosa? In che modo questo qualcosa si rapporta al nostro essere? In che senso noi siamo implicati in ciò che sentiamo? D’altro canto è il nostro stesso presente che ci conduce a queste riflessioni.

Nella nostra società, infatti, ci troviamo di fronte ad una moltiplicazione dei livelli del sentire nel senso che siamo di fronte alla moltiplicazione del numero di stimoli, immagini, informazioni che giungono ai nostri sensi[9].

Dunque, da questo punto di vista, a chi come me sostiene che ci troviamo di fronte ad un assottigliamento della capacità del sentire, si potrebbe rispondere che viviamo piuttosto una condizione contraria[10].

Il modo in cui vi propongo, tuttavia, di intendere il concetto di sentire, non s’identifica con una mera sensazione[11]. Considero il sentire come qualcosa di connaturato alla vita, ancor prima di essere un’espressione specifica dell’animalità[12]. Dunque il sentire può essere considerato il trovarsi in accordo con quanto è esterno a sé.

Sulla base di ciò, devo adesso proporvi una distinzione che considero importante: la distinzione fra il semplice sentire, ed il sentire di sentire.

Se con il sentire tout court noi possiamo intendere per l’appunto ciò che prima dicevo, con il sentire di sentire dobbiamo orientarci a quella capacità di essere autocoscienti, di ritornare su ciò che si è sentito. Risuonare con ciò che risuona in noi.

Affermare di sentire implica, in verità, il sentire di sentire. Nel secondo caso si tratta di un processo, ovvero dell’effetto della mediazione di sé con il proprio sentire.

In ciascuna delle dimensioni di vita, noi siamo sempre senzienti. Lo siamo ovviamente quando siamo su Facebook, e lo saremo anche quando fra duemila anni saremo così accelerati da essere estremamente diversi da quelli di oggi. Fin quando saremo vivi, e cioè la nostra vita avrà un inizio, noi saremo nella dimensione del tempo. In questo ambito, l’ambito del tempo. Sentire è, infatti, sentire qualcosa nel tempo; la fissazione di qualcosa in modo stabile ha a che fare più con la capacità di rappresentare. Se io mi rappresento un qualcosa ciò può anche rimanere identico a sé, perché la posso fissare, dentro o fuori di me; mentre sentire ha a che fare con la finitezza dell’esperienza in questione. Potrà durare un minuto, un’ora, un giorno, un anno, o anche tutta la vita, ma quell’esperienza rimane comunque legata a dei momenti. Essa sarà sempre in via di trasformazione. Quindi sentire, da un certo punto di vista, è finire.

Se noi, dunque, sentiamo di sentire, ci immettiamo in modo autocosciente nel flusso di sentire. Io riconduco quest’esperienza ad un mondo pre-virtuale (o pre-androide, se vogliamo dirlo con le parole di Dick). Non dobbiamo immaginare l’uomo che verrà come un’entità del tutto scollegata dall’uomo che è stato, bisognerà piuttosto definire l’elemento che sta cambiando di più (rispetto a tanti altri che, invece, non stanno cambiando, come ad esempio le relazioni di parentela, la costituzione della famiglia che, per quanto in crisi, oggi mantiene la sua forma tradizionale). Nella superficie della coscienza degli individui in società, invece, qualcosa cambia; ciò ha a che fare con l’esperienza soggettiva del sentire di sentire, cioè con la possibilità di questa possibilità di riconoscersi per quello che si è nella propria natura. Per quanto ci riguarda, come esseri viventi ed esseri umani, questo significa riconoscerci come essere finiti.

La citazione che vi ho riportato di P. Dick. che l’autore attribuisce a W. Mercer, mi sembra possa essere inserita nel nostro discorso. «Non è possibile resuscitare i morti»: cioè, neanche un nuovo Cristo può resuscitare i morti. Perché? Perché non è nella dimensione umana il resuscitare ciò che è morto, far retrocedere il flusso temporale dell’esistenza delle cose. In altre parole non è possibile astrarre dal sentire che è un flusso temporale. Sentire di sentire è anche un sentire di morire.

Ed è questo, infatti, che i personaggi di Dick non riescono più a fare. Essi non riescono più a sentire la disperazione legata alla fine e all’estinzione della vita e degli animali, alla solitudine.

 

AGOSTO 2013

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[1] Le citazioni del romanzo sono tratte da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? In P. Dick, Visioni dal futuro, Fanucci, Roma 2006.

[2] Dico così, come sottotitolo a questo discorso, che Dick è stato un grande osservatore delle dinamiche di psichiatrizzazione, medicalizzazione, reificazione della malattia mentale, anche, ad esempio, rispetto all’uso degli  psicofarmaci. Va detto, tuttavia, come qui non c’è solo il tema dello psicofarmaco, ma quello più generale, e più subdolo, della manipolazione di sé nella sfera dei sentimenti.

[3] Sottolineo come non si tratti solo di una questione di androidi, quando oggi parliamo di verità e rappresentazione di verità. Si tratta d’una questione che senz’altro riguarda il nostro demandare tutto alla sfera dell’informatica.

In questa riproduzione di umano, quale l’androide, sembra che qualcosa ci sia sufficiente a distinguere cosa sia umano, e cosa non lo sia.

[4] Criterio di discernimento, infatti, è quello della dilatazione della pupilla e dei tempi di reazione delle risposte verbali che vengono date.

[5] Questi criteri sono indubbiamente anche risibili, e tutti interni ad un punto di vista americano di verità, di rappresentazione dell’umano. Il problema,. tuttavia, non è quello. Il problema è se possano esserci dei criteri.

[6] D’altro canto, anche Rick (per quanto solo alla fine del romanzo), sua moglie Iran, lo stesso Isidore sono adepti di questa sorta di nuova religione. Chi segue l’esperienza di Mercer , diviene così presto sintonizzato non più solo sulle frequenze della televisione o della radio, ma anche con quelle che lo conducono, attraverso la scatola, a questo tipo di esperienza collettiva, fondata su di una risonanza emotiva.

[7] La prima parte è tratta dal romanzo stesso, anche se l’ho tradotta con parole diverse, ma il senso rimane quello sostanzialmente. È una frase pronunciata da W. Mercer, riportata da Iran.

[8] Manuale, oltre che prezzario degli animali finti.

[9] Lessi una volta che il numero di informazioni che un uomo del 1820 riusciva ad avere in tutta una vita, noi oggi riusciamo ad averlo in una sola giornata, attraverso la lettura di un giornale. Non so se sia proprio così, tuttavia, mi sembra evidente che assistiamo alla moltiplicazione di informazioni e, dunque, anche di sensazioni in modo più o meno correlato.

[10] Una condizione tale per cui ciò che i nostri nonni impiegavano una vita intera a fare, oggi lo si riesce a fare in un solo mese.

[11] La sensazione, infatti, ha sempre a che fare con degli stimoli ben circoscritti legati a degli oggetti. Il sentire è uno stato d’essere, base soggettiva entro cui si colloca la nostra esperienza.

[12] Da un certo punto di vista, arriverei a dire che se lo intendiamo in qualche modo come l’essere in risonanza con il contesto, anche le pietre, i minerali, avrebbero forse uno spazio nel capitolo nel sentire. La pietra non sente, come intendiamo noi generalmente il sentire, però una pietra si riscalda, si trasforma. In un certo rispetto, essa ha una vita. Non sente come sente un animale, però è ricettiva.