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11
Ottobre 2013

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Il Commento

IL COMMENTO II

Guido Cosenza

 

Sulla sinistra e sulla destra

È difficile formulare in modo preciso, univoco e logicamente consistente i termini “destra” e “sinistra”, spesso in tale contesto vengono presentate proposizioni a cui è problematico dare un senso compiuto.

Tuttavia in un testo in cui s’intenda approfondite un argomento è d’obbligo precisare i termini del discorso, cioè l’oggetto della discussione. Nel caso specifico il significato che si dà alle espressioni destra e sinistra.

Bisogna imparare a essere precisi, peraltro la scuola e la pratica corrente hanno svolto un’azione dissuasiva a questa prassi.

Dopo la redazione di un articolo non sarebbe inopportuno analizzare proposizione dopo proposizione e chiedersi se questa o quella frase esprimono compiutamente un qualche concetto.

Riguardo alla definizione del termine “sinistra” nell’articolo Tecno-purgatorio sussistono due riferimenti, nessuno per il termine “destra”, comunque quest’ultimo lo si potrebbe intendere per opposizione al primo.

Iniziamo dal prendere in considerazione la prima indicazione esplicativa dovuta a un autore che non mi è noto, A. Badiou, e che è condivisa dagli autori dell’articolo:

 

Chiamiamo “sinistra” l’insieme del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire un “esito politico” ai “movimenti sociali”.

 

In altri termini la proposizione dichiara che con l’espressione “sinistra” vada inteso l’insieme costituito dai parlamentari che autocertifichino di essere gli unici in grado di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. In definitiva la composizione dell’insieme sarebbe legata all’esito di un sondaggio fra i parlamentari.

A parte che non è chiaro il significato dell’espressione “assumere le conseguenze generali di un movimento politico” e inoltre del termine “singolare”, ciò nonostante è ovvio che tale autocertificazione sia suscettibile d’essere sottoscritta da qualsiasi parlamentare in riferimento al proprio movimento politico. Quindi la proposizione è vuota, salvo che non si voglia intendere che per essere incluso in un insieme denominato sinistra occorra essere eletto al parlamento. Suona bizzarro che la sinistra sia circoscritta alla categoria dei parlamentari.

Anche l’affermazione «capace di fornire un “esito politico” ai “movimenti sociali» non precisa meglio il concetto che si intende esprimere.

Analizziamo la seconda formulazione:

«la sinistra prima ancora di essere organizzazione politica è un sentimento, prima ancora di essere un’appartenenza di classe, è un’empatia con una parte della società».

Questa proposizione appare ancora più emblematica e priva di connotazione univoca. Il termine sinistra sarebbe equivalente alla disposizione a compatire i meno privilegiati, ad augurarsi che settori svantaggiati della società possano migliorare la propria condizione, allora la verifica dell’appartenenza alla sinistra sarebbe di competenza dello psicologo, magari dello psicanalista.

Per affrontare la problematica della sinistra e della destra a me sembra che bisogna procedere oltre la confusa analisi cui spesso siamo stati esposti e partire dalla considerazione che nella dinamica sociale che si è sviluppata all’interno della società capitalista matura si delineò sempre più marcatamente una contrapposizione di classe fra i detentori del capitale e la forza lavoro che entrava nel processo produttivo. Ambedue le classi avevano una rappresentanza politica, spesso sgranata in vari raggruppamenti più o meno validi e coscienti degli interessi di classe da difendere. Un elemento risultava decisivo: la linea di demarcazione che separava chi intendeva preservare la condizione presente di privilegio di un settore della società da chi concepiva un cambiamento radicale di modello produttivo per abolire lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Le due rappresentanze politiche si fronteggiavano in un arco di posizioni che sfumavano dal radicalismo al compromesso.

Radicalismo da una parte significava dittatura, repressione spietata, dall’altra rivoluzione, presa del potere a seguito di uno scontro armato. Compromesso per un verso si esprimeva nella concessione di accesso più o meno limitato alle risorse prodotte, per un altro in accordi di rinuncia almeno temporanea a obiettivi rivoluzionari.

Di volta in volta si è assistito al prevalere dell’uno o dell’altro aspetto della lotta di classe.

In tale contesto è chiara la distinzione fra destra e sinistra.

Con la vittoria del capitale e sua diffusione a livello planetario la classe operaia è stata sussunta a comprimaria nel modello capitalista, con potere pressoché nullo. La sua rappresentanza politica si distingue ben poco nella partecipazione all’espansione del modello capitalista dagli altri soggetti politici.

Se per sinistra intendiamo, come ai primordi, la rappresentanza politica di una classe che propugna il superamento del sistema capitalista allora, a parte sparuti gruppi d’opinione, la sinistra non esiste più. Esistono solo varie sfumature di destra a partire da i comunisti italiani, rifondazione comunista e via procedendo.

Il cambiamento se avverrà si svolgerà secondo una dinamica diversa da quella congetturata dai primi fondatori della teoria marxista.

Se viceversa per sinistra si vuol intendere una formazione politica che orienta la propria azione per ridurre le immani disparità di accesso alle risorse, allora c’è un’ampia scelta di formazioni e si può discutere per i distinti soggetti politici di una loro più o meno impegnativa propensione ad accordi che sanzionino la salvaguardia dei privilegi inerenti al presente modello di sviluppo in nome di entità apparentemente neutrali come le banche, il pil, lo spread e via cantando.

I grillini possono facilmente essere sistemati nell’arco delle destre secondo il mio primo schema, che poi è quello che propugno, anche se è apprezzabile e condivisibile la loro lotta contro il degrado raggiunto nel nostro paese dal complesso delle forze politiche. Di loro è facile delineare il comportamento. Si sono autoesclusi dalla lotta politica parlamentare pur avendo scelto come strategia la partecipazione alle competizioni elettorali. In definitiva hanno dimostrato loro malgrado l’equivalenza fra votarli e disertare la frequentazione dei seggi elettorali. Allora gli elettori disponibili al voto per quel movimento hanno convenuto per le successive consultazioni elettorali che tanto valga restare a casa e navigare in rete.

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Il capitalismo contro il diritto alla città

Non mi è noto alcun dato da cui si possa evincere che il processo produttivo nel settore edilizio abbia connotati che lo differenzino in modo rilevante dagli altri settori produttivi. La circostanza che si generi un ritardo fra l’operazione di investimento del capitale e la collocazione a destinazione della merce prodotta è comune un po’ a tutti i rami produttivi. L’edificazione di un fabbricato e la messa a punto tecnologica di una struttura manifatturiera hanno tempi paragonabili di ultimazione, col vantaggio per l’impresa edilizia di poter spesso porre il prodotto sul mercato prima ancora di averne terminato la lavorazione.

L’intero articolato produttivo segue la logica ciclica della crisi che riassumerei come segue:

La produzione in espansione in regime capitalista va incontro a crisi di sovrapproduzione. La produzione si esplica nel campo manifatturiero, ma anche in quello edilizio, in quest’ultimo l’eccesso produttivo si presenta nella forma di fabbricati invenduti o sfitti, per coloro che li hanno acquistati e intendono utilizzarli per ricavarne profitti. I prodotti nel campo dell’edilizia fanno parte delle merci immobilizzate. Nel contempo esiste anche una massa di capitale che non riesce a essere valorizzato produttivamente a causa della crisi di sovrapproduzione.

I due aspetti della crisi si sposano perfettamente, per un verso, il capitale produttivo si trasforma in capitale finanziario e va ad alimentare il credito, per un altro, buona parte del flusso creditizio consente lo smaltimento delle merci invendute. In tale operazione nascono investimenti spericolati che alimentano la crisi, il ciclo si chiude riversando le perdite sulle spalle dei cittadini, come si è visto anche nella presente congiuntura.

La caduta del saggio di profitto è legata al processo produttivo e non all’impiego del capitale in forma finanziaria. Al declino del saggio di profitto contribuiscono in maniera molto più rilevante i settori in cui di continuo aumenta la composizione organica del capitale piuttosto che quello edilizio per il quale l’aumento di valore del capitale fisso è meno accentuato.

Il carattere precipuo del settore edilizio è semmai legato al valore d’uso del prodotto come bene rifugio il che fa sì che pur in regime generale di sovrapproduzione il rallentamento dei consumi si faccia sentire con ritardo rispetto agli altri settori, ma il corso della crisi è comune ed è dovuto alla dinamica disfunzionale del congegno produttivo.

Ciò che complica l’analisi del tema esposto nell’articolo deriva dall’intreccio fra il meccanismo in atto nel ramo edilizio e i fenomeni socio-economici generati dalle anomalie connesse con lo sviluppo delle città. Le contraddizioni di un sistema in espansione libera indefinita si materializzano nel fenomeno patologico rappresentato dalla città, in tale ambito alla crisi della struttura produttiva si sovrappone l’inadeguatezza sempre più dirompente della architettura sociale. Concepire la confluenza delle attività produttive urbane, a cominciare da quella edilizia, in un corpo unitario in cui tutti i protagonisti si presentino alla stregua degli operai della fabbrica tipica del capitalismo primigenio non è realistico. La fabbrica col racchiudere in uno spazio unitario i soggetti subordinati nel processo produttivo ha rappresentato un elemento di coesione e nel contempo un modello organizzativo in cui inquadrare le forze.

L’ambito più ampio della città potrà viceversa offrire lo spunto per la germinazione di areole di tessuto sociale rigenerato. Un processo di trasformazione del modello produttivo inizialmente circoscritto, localmente rilevante, che s’irradi anche dai centri urbani producendo nel propagarsi una profonda mutazione generale.

Non vale ricorrere a forme di lotta mutuate da un passato non più riproponibile, va attuata una strategia congrua a una trasformazione graduale e progressiva come già verificatosi in altre condizioni storiche che talvolta hanno impiegato secoli per giungere a compimento. Lo scontro frontale che fu propizio, anche se non vincente, nel passato non ha più le basi materiali per essere realizzato.

Non bisogna lasciarsi tentare ad assumere acriticamente conclusioni tratte in un differente contesto storico.

Va osservato che la posizione della classe operaia, che si è accresciuta nell’ambito del processo espansivo del sistema capitalista, ha subito un progressivo mutamento. Essa ha ottenuto un accesso, sia pure estremamente esiguo, al prodotto sociale. Il capitale ha acquisito la cognizione che per stabilizzare il sistema sia proficuo puntare sull’operazione di associazione della classe operaia al progetto di espansione della produzione e sul versante opposto le rivendicazioni si sono trasportate dal piano della lotta per la modifica dei rapporti di produzione, un obiettivo rivoluzionario, alla contrattazione per aumentare l’accesso alle risorse prodotte, un obiettivo riformista.

Non si può allora mutuare dal passato il progetto politico che indicò come protagonista  della transizione la classe operaia. La transizione se ci sarà avrà una dinamica differente in cui anche la classe operaia avrà un ruolo, ma in posizione diversa da come fu ipotizzato nel passato. Di questa dinamica si è discusso altrove e ne vanno approfondite le problematiche.

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Migrazioni all’epoca della totalizzazione

Reputo l’articolo interessante anche per la sua copiosa documentazione e vorrei proporre alcune considerazioni nel merito.

La prima riguarda la schiavitù, in particolare l’affermazione in cui si nega che tale rapporto di dipendenza sia inidoneo a realizzare la valorizzazione del capitale e quella per cui si confuta che la sua abolizione sia avvenuta in conseguenza del consolidarsi dell’economia capitalista. Intendo contestare tali asserzioni.

Il capitale per valorizzarsi ha bisogno del lavoro salariato. Lo schiavo se presente nel ciclo produttivo viene assimilato alla macchina (che è molto più efficiente di lui) e con le sole macchine non si produce valore. Lo sviluppo della tecnologia è connesso col tramonto dello schiavismo. C’è tutto un filone di analisi che spiega come mai la tecnologia non si sia sviluppata nel mondo schiavista greco che pure era enormemente avanzato nel campo scientifico.

In conclusione il capitalismo non contempla lo schiavismo, non c’è compatibilità fra i due sistemi produttivi. Di più, è il modo di produzione capitalista che ha portato all’eliminazione pressoché totale della schiavitù dal mondo industrializzato e certamente non per ragioni morali ma puramente economiche, sia pure mascherate da intenti etici.

È vero che il capitalismo ha convissuto e magari attualmente in qualche parte del globo convive, con lo schiavismo ma ciò è fenomeno transitorio dovuto alla non completa assimilazione produttiva del territorio in questione. Tipico esempio sono gli Stati Uniti dell’ottocento in cui l’economia agricola del sud impiegava schiavi, ma quando il nord capitalista sconfisse la coalizione ad economia arretrata ecco che immediatamente lo schiavismo fu soppresso.

Il caso del nazismo non fa testo, gioca anzi nella direzione opposta, proprio il tema dello schiavismo fu uno degli argomenti per cui la coalizione capitalista dichiarò di voler combattere quel regime.

Non c’è costituzione di stato capitalista che non classifichi per crimine e persegua lo schiavismo.

In secondo luogo devo contestare la seguente affermazione:

 

la massa e l’efficienza del capitale costante rendono il valore dell’ora di lavoro potenzialmente enorme, ma la concretizzazione nelle merci di questa energia è sempre inferiore alle aspettative, sempre minore dell’estrazione potenziale di valore dal lavoro.

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Il concetto di valore in Marx rappresenta una qualità di origine sociale che inerisce alle merci, la misura della grandezza del valore di una merce è data dal (è proporzione al) tempo medio socialmente impiegato a produrla, per cui non riesco a dare un senso alla frase virgolettata.

L’ora di lavoro rappresenta prima e dopo l’incremento tecnologico del processo produttivo il valore delle merci prodotte in quell’intervallo temporale.

Formulerei come segue il concetto che intuisco si volesse esprimere con quella proposizione:

con l’aumento della composizione tecnica (altre volte indicata nel testo Il Capitale come organica) del capitale, cioè con l’incremento dell’incidenza delle macchine nel processo produttivo, diminuisce il tempo di lavoro per la manifattura della singola merce e quindi cala il valore dell’unità di merce e di conseguenza per sostenere il volume dei profitti occorre produrre sempre più merci, il tasso di profitto poi cade in conseguenza dell’aumento della rilevanza delle macchine, con tutte le conseguenze che sappiamo.

Anche sul concetto di lavoro nero occorre fare chiarezza.

Intanto è opportuno stabilire cosa si intenda con questo termine.

Dopo gli anni del capitalismo selvaggio i principali settori industriali hanno valutato che occorresse devolvere una quota parte dei profitti alla realizzazione di un’azione di stabilizzazione dell’assetto socio-economico.

Le turbolenze sociali oltre a mettere in forse la sopravvivenza del sistema comportavano un’elevata dissipazione di risorse. Conveniva allora destinare parte – ovviamente esigua – dei ricavi per ridurre le tensioni rendendo meno acute e intollerabili le condizioni di indigenza della classe operaia.

Da queste esigenze sono nate le operazioni legislative che hanno regolamentato le retribuzioni, che hanno istituito gli ammortizzatori sociali, che hanno introdotto il regime pensionistico.

Per realizzare tali adempimenti è occorso provvedere alla copertura finanziaria dei provvedimenti posti in atto operando un prelievo fiscale a carico dei datori di lavoro proporzionato al lavoro erogato.

Sottrarsi al prelievo, cioè ricorrere al lavoro nero, conduce a una riduzione dei costi di produzione ed è pertanto considerato un metodo di competizione commerciale sleale, ossia illegale. Tale pratica è nociva al modello di sviluppo vigente, non solo non viene favorita ma è perseguita col pieno consenso della classe imprenditoriale.

La tendenza del capitale è certamente quella di diminuire la quota parte di risorse destinate al lavoro, non più però nell’attuale congiuntura esacerbando le condizioni della classe operaia al limite della sopravvivenza o perfino al di sotto, come ai tempi dell’accumulazione primitiva, ma piuttosto operando sul versante della flessibilità, dell’aumento delle ore lavorative ecc.

 

LUGLIO 2013

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