Esperienza e rappresentazione
GUIDA ALLE LETTURE DI GUY DEBORD
Vittorio Lubrano
		1. Dimenticare Guy Debord
		La 
		
		Société du spectacle (1967) 
		ed i 
		
		Commentaires sur la société du spectacle 
		(1988) sono testi rivolti a «coloro che 
		sono nemici dell’ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente 
		a partire da questa situazione». In essi, il lettore trova utili 
		strumenti di decifrazione dello sviluppo che le società del dopoguerra 
		hanno avuto sino ad oggi. Una chiave interpretativa innovativa che 
		scolora quelle differenze scontate negli anni sessanta – tra Est e Ovest 
		del mondo, tra economia pianificata e libero scambio, tra apparato 
		burocratico e democrazia rappresentativa. Al loro posto emerge un cuore 
		comune, inesplorato, in cui vanno a confluire diversi processi della 
		contemporaneità; è questo il bersaglio inevitabile di ogni critica che 
		voglia dirsi rivoluzionaria.
		Cardine di questa svolta prospettica è 
		la categoria di “spettacolo”. In essa convergono quella serie di 
		fenomeni particolari dinanzi ai quali restiamo abitualmente perplessi – 
		l’estetizzazione della politica, le forme di intrattenimento e di 
		informazione, l’abbondanza di consumi inutili e le nuove forme di 
		interazione sociale. Solo allungando lo sguardo oltre quelle che paiono 
		le contraddizioni del presente, l’intero globo si dimostra 
		caratterizzato da uno sviluppo complessivo – universale – delle forze 
		economiche e politiche. È il tratto determinante di una nuova fase, 
		un’epoca storica in cui tutto ciò che si considerava reale e oggettivo 
		de-significa, lasciando il posto al prolificare di immagini e simulacri.
		Una profezia lucida e amara sul mondo 
		che viene, in cui nulla sembra potersi sottrarre a questa forza 
		trasformatrice. Non l’economia, non più paga della produzione materiale 
		con cui soddisfa i nostri bisogni, bensì produttrice essa stessa di 
		nuovi impulsi e desideri. Un’economia del simbolico che lascia intatta 
		la miseria di un’esistenza scandita dai ritmi di lavoro. Non la 
		politica, in simbiosi oramai con forme di intrattenimento e di 
		fascinazione tese a tratteggiare l’immagine vincente del leader di 
		turno. Tutto a discapito di una coscienza politica che dal basso sappia 
		decidere e agire collettivamente. Non la società, rarefatta in monadi di 
		lavoratori-consumatori, condannati all’alternativa di lavorare per poi 
		potersi svagare o di svagarsi per poi tornare a lavorare. Il 
		contrappasso di una vita quotidiana presunta libera e sociale, ma invero 
		isolata e aggregata artificiosamente (e pensare che Facebook non 
		esisteva ancora). Non infine l’informazione, distorta da dispositivi 
		logico-argomentativi che prediligono la sensazionalizzazione 
		dell’effimero e la critica laterale all’emergere della verità, ridotta 
		a «momento del falso». La comunicazione non alimenta più il dibattito 
		nell’opinione pubblica, ma ne diviene l’arma più forte di 
		disciplinamento.
		Sono questi solo alcuni dei temi delle 
		analisi debordiane, che suonano di stringente attualità in Italia, già 
		indicata dall’autore stesso, nel 1979, come terreno di sperimentazione 
		prediletto delle tecniche spettacolari. Chiunque abbia sbirciato tra i 
		libri di Debord comprende come le sue argomentazioni colgano nel segno 
		in nazioni come la nostra, e come il suo pensiero sembra poterci aiutare 
		a orientarci nel presente. È una constatazione che tuttavia cozza con 
		un’altra.
		Debord è un nome poco noto sia dentro 
		che fuori l’università. Le sue opere giacciono abbandonate sul binario 
		morto della dimenticanza o su quello ancor più ingrato della libera 
		reinterpretazione. Un esito paradossale per un intellettuale che pare 
		tanto utile ad una critica dell’esistente, ma che pochi ancora studiano.
		
		2. I campi di reimpiego
		Il lettore che voglia approfondire lo 
		sguardo debordiano sui processi socio-economici incontra non poche 
		difficoltà. I suoi testi principali sono stati tradotti da tempo, ma il 
		suo stile risulta complesso: elitario ed essenziale. Non è incredibile 
		allontanarsene scoraggiati dopo un primo assaggio. Le due opere 
		principali, come la filmografia tutta, sono una serie concettosa di tesi 
		in cui occorre rielaborare di continuo il senso ultimo delle parole, con 
		letture e riletture che cuciano i nessi invisibili del discorso. Una 
		prosa diversa può essere rinvenuta negli articoli che scrisse per alcune 
		riviste, dove il tono irriverente o apertamente polemico lascia 
		spiazzati circa la serietà delle proposte[1].
		Se si cercasse supporto nella 
		letteratura secondaria, si resterebbe tuttavia colpiti da quanto 
		l’autore sia sì considerato, ma raramente in quanto filosofo 
		politico. Esiste una selva confusa di libri che prendono a matrice 
		Debord per confezionare prodotti editoriali diversificati. È un campo 
		vasto e poliedrico, riconducibile a tre principali modi di reimpiego 
		dell’autore: il biografico, lo stilistico e l’estetico.
		Il primo di questi può definirsi il 
		campo della medializzazione biografica dell’autore[2]. Da questo 
		fuoriescono ricostruzioni della sua vita, girovago sregolato e 
		intellettuale non convenzionale. Una vita passata tra alcune delle 
		avanguardie artistiche del tempo – l’Internazionale Lettrista e 
		l’Internazionale Situazionista – l’amore per la festa, l’alcool e i 
		suoi eccessi, l’esperienza di regista e i viaggi internazionali sono 
		fonti di prim’ordine per il ritratto di un intellettuale bohemien. 
		Alternativo tanto in teoria quanto in pratica.
		Se a ciò si aggiunge il suicidio finale 
		e le rare pubblicazioni dedicate ai cenni autobiografici – fa eccezione 
		il 
		Panégyrique 
		– si intuisce come il mercato di pubblicazioni abbia potuto prendere 
		questa piega. Un triste epilogo per chi lungo l’intera esistenza s’era 
		opposto alla propria elevazione a icona dell’intelligenza antagonista.
		Un secondo insieme di scritti è invece 
		quello che riprende il modo di scrivere debordiano per emularne la 
		sfacciata attitudine libertina[3]. Si tratta di 
		autori che si vogliono seguaci del defunto situazionismo[4], anime 
		ribelli che condividono il disgusto per la società dello spettacolo. 
		Sono scritti che si concentrano prevalentemente sulla ripresa delle 
		tecniche linguistiche; più sul momento performativo che sui fondamenti 
		teorici. Sembra venir meno quella fatica concettuale che ogni pensiero 
		rivoluzionario richiede. Non si discutono nodi problematici irrisolti in 
		Debord, né si aggiorna la prospettiva critica rispetto ai più recenti 
		avvenimenti storici. I testi oscillano tra opere d’intrattenimento e 
		esercizi di fantasia, combinazioni libere che solo superficialmente 
		collimano col messaggio debordiano. Sono presenti sì l’impulso alla 
		ribellione mediante la creatività ed il richiamo al gioco, condivisi dal 
		comune maestro. Manca tuttavia qualcosa. Sembra di leggere Debord, ma 
		senza Debord.
		Quest’ultimo predilige l’opzione per il 
		ludico, per la sperimentazione linguistica come conseguenza di un 
		preciso programma di retorica politica. La sua è una vera e propria 
		battaglia per il recupero delle parole, consunte nei discorsi che la 
		politica, l’economia o la pubblicità riversano quotidianamente sui 
		canali comunicativi. Dopo averle sottratte alla loro abituale semantica, 
		esse vengono proposte in nuove aggregazioni di senso al fine di 
		rifluidificare una comunicazione democratica altrimenti rattrappita.
		«La teoria critica deve comunicarsi nel 
		proprio linguaggio» è il monito con cui si inaugura la ricerca di uno 
		stile della rivoluzione che ha tra i suoi risultati più pregevoli, le 
		tecniche del détournement[5]. 
		Se viene meno lo sfondo teorico che alimenta tali linguaggi, il recupero 
		di Debord devia verso l’encomio alla stravaganza, alla bizzarria senza 
		pretese. Per quanto molte delle produzioni in quest’ambito siano 
		piacevoli da leggere, poco hanno da dirci sullo stato attuale della 
		società dello spettacolo.
		C’è infine un ultimo terreno in cui 
		l’interesse per Debord ha messo radici. Si tratta degli studi di storia 
		e critica artistica che lo hanno giustamente fatto oggetto di analisi, 
		sia in quanto membro di due avanguardie di metà Novecento, sia per le 
		osservazioni sul ruolo dell’arte, della cultura e dell’urbanistica nella 
		società contemporanea[6]. 
		L’autore ha cercato tutta la vita di combattere il «pensiero 
		specializzato del sistema spettacolare», la settorializzazione delle 
		discipline che, indagando su porzioni ridotte del reale, con linguaggi 
		specifici e circoscritti, non colgono quelle contraddizioni che 
		appartengono ad ogni ambito e qualificano un’epoca storica. Ma la sua 
		appartenenza ai situazionisti e il suo distinguersi quale teorico di 
		spicco, lo hanno reso – suo malgrado – preda appetibile per gli studiosi 
		nel campo dell’arte.
		Questi ultimi approfondiscono le 
		intuizioni debordiane e offrono pregevoli contributi scientifici sia 
		agli epigoni che ai delatori. Resta il pericolo che uno studio mirato al 
		Debord artista, offra poco sul Debord politico.
		Il quadro orientativo che, insomma, si è 
		brevemente delineato, non dà che un magro contributo al lettore 
		affascinato da quelle parole tanto aderenti alla nostra quotidianità 
		quanto perspicaci nella critica. Dinanzi a lui solo tre sentieri, ma 
		nessuno che introduca al terreno della filosofia politica.
		
		3. Debord in filosofia
		Per descrivere l’interessamento che i 
		filosofi hanno riposto su Debord, si potrebbe opportunamente parlare di 
		“rimozione”. Nei manuali universitari, nelle “garzantine”, il suo nome 
		compare raramente o frettolosamente, qualora non sia palesemente omesso. 
		Come racconta Burgio nel suo saggio dedicato a Debord, persino un testo 
		degli anni Settanta dedicato alla filosofia francese di orientamento 
		marxista non ne parla[7]. 
		Ricercare le ragioni della sua eliminazione dagli intellettuali di 
		riferimento con cui valga la pena confrontarsi, potrebbe sviare il 
		discorso sulle sabbie mobili delle infinite supposizioni – ambito di 
		ricerca inesplorato ma decisamente fuorviante rispetto alla mappatura 
		delle sue letture che si sta qui conducendo. Occorre piuttosto 
		interrogarsi su quei pochi che ne hanno parlato e vagliare sommariamente 
		il modo in cui lo hanno fatto.
		In Italia è ormai universalmente 
		riconosciuto il merito di Anselm Jappe che, nel suo
		Guy Debord[8], ha 
		intrecciato sapientemente cenni biografici e retroterra culturale, il 
		periodo nelle avanguardie e gli scritti postumi, l’analisi delle 
		proposte teoriche ed il confronto con le fonti. In particolare 
		quest’ultimo spunto rende pregevole il libro, che non si limita a 
		rintracciare le radici delle proposte debordiane in autori come Lukàcs o 
		Lefebvre, a loro volta autori ormai sempre meno considerati, ma ne 
		evidenzia le differenze che rendono la Società dello Spettacolo 
		un’opera unica. Non manca anche un bilancio critico che sobriamente 
		prova a fare il punto su un testo rivoluzionario quaranta anni fa.
		Un contributo meno conosciuto è invece 
		il saggio 
		Lo scandaloso «pensiero 
		della storia». Guy Debord e la dialettica di Alberto Burgio, rarissimo esempio di universitario italiano che ha 
		tentato di sottrarre dall’oblio la figura di Debord. Nel breve saggio, 
		questi viene riabilitato nel pantheon dei marxisti novecenteschi, 
		ma soprattutto presentato secondo un aspetto sì centrale ma oggi 
		raramente considerato. Debord è esplicitamente riconosciuto quale 
		talentuoso continuatore del pensiero dialettico, erede dello specifico 
		modo di decifrazione della storia che appartenne a Hegel prima e a Marx 
		poi. Un metodo che, partendo da una ricognizione dei fenomeni immediati, 
		li riconduce a determinazioni essenziali seguendo una narrazione di 
		fondo. Un caso recente ed isolato di riabilitare l’autore, ripensandolo 
		a fondo nonostante la generale noncuranza.
		Sia Burgio sia Jappe sono rare eccezioni 
		nel mezzo di una letteratura secondaria che si disinteressa dei temi 
		politici di Debord. Esistono tuttavia casi di anomala attenzione 
		prestata all’autore. Filosofi – tre per la precisione – che non si sono 
		limitati ad uno studio esegetico dei suoi testi, ma che hanno cercato di 
		rielaborare originalmente le sue tesi, con differenti esiti.
		Giorgio Agamben ne è l’esempio più 
		lampante, vista l’affinità filosofica che lo lega al suo maître 
		a penser. A Debord è infatti dedicato il volume Mezzi senza Fine, 
		così come un tributo, sia pur minimo, non può essere evitato 
		nell’introduzione alla celebre opera Homo Sacer. 
		«I libri di Debord costituiscono 
		l’analisi più lucida e severa delle miserie e della servitù di una 
		società – quella dello spettacolo, in cui noi viviamo – che ha esteso 
		oggi il suo dominio su tutto il pianeta»[9]. Tragedie 
		come quelle di Timişoara o di Tienanmen sono conferme tangibili 
		di quello stravolgimento, annunciato con largo anticipo, dei rapporti 
		tra politica e informazione. Agamben riconosce in Debord il merito di 
		aver intuito le forme odierne che la politica assume quando si insinua 
		invadente nella vita quotidiana. Lo spettacolo è la più elevata forma di 
		un dominio che ha le sue radici in dinamiche interne al paradigma di 
		sovranità dell’epoca moderna. In particolare sul piano linguistico lo 
		spettacolo miete i suoi frutti migliori. «Ancor prima delle necessità 
		economiche e dello sviluppo tecnologico, ciò che sospinge le nazioni 
		della terra verso un unico destino comune è l’alienazione dell’essere 
		linguistico»[10].
		La quintessenza di quell’estraniazione 
		che un secolo prima Marx aveva descritto, è di carattere comunicativo. 
		Gli uomini sono spossessati dal proprio potenziale comunitario, sordi 
		gli uni agli altri. Il momento aggregante è solo quello dello 
		spettacolo, che ripristina tramite l’abbondanza di notizie dei media, un 
		finto legame tra le opinioni.
		L’irretimento della coscienza storica in 
		una rete di chiacchiere[11].
		Sono questi i soli accenni a un 
		sodalizio filosofico che può vantare una conoscenza personale dei due 
		(testimoniata dall’epistolario) e una comune irriverenza nei confronti 
		del mainstream filosofico.
		Discorso diverso va fatto per Mario 
		Perniola, studioso e al contempo critico inflessibile dell’opera 
		debordiana. A lui va attribuito l’indubbio merito di non ignorare 
		Debord, ma di fissare con precisione gli aspetti problematici delle sue 
		tesi. Grave errore dell’intero gruppo dei situazionisti è stato – 
		secondo Perniola – quello di concepirsi sin da principio come 
		“soggettività estetica”, un Io artistico-poetico dedito a performance
		sperimentali che solo secondariamente ha trasbordato nel campo 
		dell’analisi storica e della militanza politica. È un modo di 
		concepirsi problematico, che genera una spiacevole conseguenza: il 
		rischio di un narcisismo autoreferenziale, di un elitarismo snob che mal 
		si concilia con i propositi del gruppo, una rivoluzione di massa. 
		Imbrigliato nelle contraddizioni dovute ai suoi stessi presupposti, il 
		testo di Debord risulta pieno di “ambiguità”. Ambiguo è il punto di 
		vista del soggetto rivoluzionario – talvolta identificato nel singolo 
		individuo che sottrae la propria vita quotidiana ai meccanismi del 
		consumo, talvolta descritto secondo la retorica della lotta di classe. 
		Ambiguo è il linguaggio adoperato, lacerato tra un discorso tra esperti 
		– soli detentori della verità – e la necessità di autocritica – che 
		porterà a una serie di purghe all’interno dell’Internazionale 
		situazionista. Infine l’ambiguità tra la teoria e la prassi 
		rivoluzionaria: la tensione tra un gruppo di illuminati, possessori del 
		sapere critico, ma impotenti ad attuare alcun cambiamento, e la massa di 
		individui catatonici – unica possibile protagonista di un mutamento 
		storico, ma al contempo vittima prediletta della riorganizzazione 
		dell’esistenza ad opera dello spettacolo.
		È un verdetto severo nei confronti di 
		Debord – non approfondibile in questa sede – che si spinge in uno 
		scritto recentissimo a considerarlo tra gli ideologi di riferimento di 
		quella deriva della politica italiana conosciuta come “berlusconismo”[12].
		Una rielaborazione critica, ma complice 
		in molti punti, è infine quella svolta da Jean-Luc Nancy nel suo Être 
		singulier pluriel[13]. 
		Debord e i situazionisti hanno avuto l’indubbio merito di intuire con 
		largo anticipo ed in controtendenza ai marxismi novecenteschi l’ultima 
		fase delle logiche espropriative del capitalismo. L’alienazione 
		lavorativa – descritta a suo tempo dal Marx dei Manoscritti – 
		oggi si completa mediante l’appropriazione dell’immaginario operata 
		dallo spettacolo. Questo sottrae all’uomo quel microcosmo finora intonso 
		di desideri, speranze, emozioni, ma anche cultura, inventiva e capacità 
		comunicativa. A ciò sostituisce un immaginario pre-configurato, un 
		serbatoio già pronto di bisogni-consumi, di vogliuzze ed appaganti 
		simulacri, mercificazione ultima di ciò che restava dello spirito. La 
		critica anti-capitalista ha spesso sottovalutato le implicazioni 
		dell’economico nell’ambito del simbolico. Lo spettacolo – e qui è la 
		sua somma pericolosità – si appropria dell’intero essere sociale proprio 
		falsando il rapporto che gli uomini hanno da sempre avuto coi simboli – 
		testimonianze visibili della loro aggregazione. Lo spettacolo al 
		contrario realizza una «simbolizzazione della produzione stessa». 
		Lavoratori-consumatori vengono coordinati tecnicamente secondo i comandi 
		della ragione mercantile. Spariscono frattanto i simboli comunitari, 
		sostituiti da prodotti industriali senza scopo, il cui presunto senso è 
		appioppato loro ex post. 
		Nonostante il riconosciuto valore di 
		Debord, il suo pensiero è tuttavia prigioniero a sua volta delle logiche 
		interne alla tradizione dialettica. Questa, secondo Nancy, non pensa 
		ontologicamente il “con-essere” degli uomini – e su questo tema che 
		insiste l’autore nel corso del libro. La soluzione politica di Debord 
		allo stallo contemporaneo – l’ipotesi della rivoluzione – risulta dunque 
		dalle aporie della dialettica e si rivela infruttuosa.
		Si tratta di una posizione intermedia 
		che, per quanto rivaluti la categoria di “spettacolo” nell’analisi 
		politica, cerca di indicarne i limiti e di smarcarsene.
		Agamben, Perniola e Nancy sono tre 
		riletture filosofiche di Debord, ma finora le uniche. La forte 
		diversità che esiste tra le posizioni rivela l’assenza di un dibattito 
		intento a farle convergere, a confrontarle o smentirle. È un vuoto di 
		pensiero che oggi andrebbe colmato.
		
		4. Appunti di viaggio
		I seppur brevi accenni alle riletture di 
		Debord consentono di trarre un bilancio provvisorio. Emerge nel generale 
		disinteresse che la filosofia ha dedicato all’autore solo qualche 
		eccezione alla regola. Debord, ignorato dai settori della ricerca 
		specialistica, è stato facile preda di libere rielaborazioni che lo 
		fanno oggetto di svariate proposte editoriali. Nessuna che però ne 
		valorizzi i contributi politici.
		Gli esempi dell’ultimo paragrafo sono le 
		uniche riflessioni, svolte da filosofi sui testi debordiani, che 
		esplicitamente riconsiderano l’autore. Ma al di fuori di queste non 
		c’è che il deserto.
		Il fascino che le tesi della 
		Société 
		ancora oggi esercitano sui lettori trovano dinanzi a sé una serie di 
		pericoli. C’è il rischio di sviare il pensiero debordiano su binari 
		morbidi che lo presentano quale intellettuale apocalittico, da 
		leggiucchiare con moderazione, senza esagerare. Un pensiero 
		intransigente il suo, lamentoso, da non prendere sul serio.
		Alla neutralizzazione banalizzante si 
		aggiunge talvolta la confusione. La sua analisi è spesso rimescolata 
		grossolanamente a cupi ritratti della contemporaneità, su tutti quello 
		baudrillardiano, con cui pur esistono elementi in comune, ma anche 
		divergenze radicali[14].
		Un ulteriore pericolo è infine che 
		quanto predetto più di quaranta anni fa sia stato sì un’accurata 
		previsione, ma che sia oggi un’inutile predica ridondante, poiché le 
		dinamiche sociali che vennero colte sul nascere sono ormai affermate ed 
		evidenti a tutti. Si coglie in questo modo solo un lato di Debord – 
		l’incredibile lungimiranza – ma si ignorano in blocco le indicazioni su 
		una via altra possibile per la nostra società, alternativa 
		all’«ideologia materializzata» dello spettacolo. Una via di 
		emancipazione, consapevolezza e ludica socialità che per noi, lettori 
		postumi, resta una sfida ancora aperta.
		
		DICEMBRE 2013
		
		
		
				
				
				
				[1] 
				M. Lippolis (a cura di), Potlach, Nautilus, Torino 1999.
				
				
				
				
				[2] Cfr. A. Merrifield, 
				
				Guy Debord, Reaktion Books, London, 2011; V. 
				Kaufmann, 
				Guy 
				Debord: Revolution in the Service of Poetry, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006; C. 
				Bourseiller, 
				Vie et mort de Guy Debord, Pascal Galodé Editions, Saint-Malo 2002.
				
				
				
				
				[3] 
				Cfr. C. Guilbert, 
				Pour Guy Debord, 
				Gallimard, Paris, 1996; Toulouse-la-Rose, 
				
				Debord contre Debord, Nautilus, Paris, 2010; ma anche 
				alcuni dei lavori di P. Bertelli, 
				Apologia del 
				plagio o 
				
				Elogio dell’imbecille che si fece primo ministro, da 
				http://www.pinobertelli.it/index.php?pb=situazionismo.
				
				
				
				[4] 
				Ultimo, F. Abate col suo movimento politico “Situazionismo e 
				Libertà”. Lo stesso Gabriele Paolini si è definito talvolta un 
				situazionista.
				
				
				
				[5] 
				Cfr. G. Debord, Istruzioni per l’uso del détournement
				
				in Potlach, 
				cit., oltre a A. Burgio, 
				
				Lo scandaloso «pensiero della 
				storia». Guy Debord e 
				la dialettica 
				in M. L. Lanzillo e S. Rodeschini, 
				Percorsi della 
				dialettica nel Novecento, 
				Carocci Editore, Roma 2011, cap.6.2.
				
				
				
				
				[6] 
				Cfr. M. Perniola, 
				I situazionisti, 
				cit.; M. Bandini, 
				L’estetico, il politico. Da 
				Cobra all’Internazionale situazionista, Costa & Nolan, 
				Ancona 1999; F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica 
				estetica, Einaudi, Torino 2006.
				
				
				
				[7] 
				O. Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo fra 
				dialettica e struttura, Feltrinelli, Milano 1972.
				
				
				
				
				[8]
				A. Jappe,
				Guy Debord, 
				Manifestolibri, Roma 1999, anche nuova ed. 2013.
				
				
				
				[9] 
				G. Agamben, Mezzi senza 
				fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, 
				p.60.
				
				
				
				[10]
				Ibidem, p.69.
				
				
				
				
				[11] 
				A queste considerazioni va aggiunto anche il prezioso confronto 
				con il Debord artista politico, camuffatore di una poetica 
				d’assalto non assimilabile alla banale sperimentazione. 
				
				Cfr. 
				G. Agamben, 
				Difference and Repetition: on 
				Guy Debord’s films 
				trad. ing. di B. Holmes in T. McDonough, 
				Guy Debord and the situationist International, The MIT Press, Cambridge 2004.
				
				
				
				[12] 
				M. Perniola, 
				Berlusconi o il ‘68 realizzato, 
				Mimesis, Milano, 2011. Per una critica al tardo Debord, noioso 
				narcisista, si veda anche:
				
				
				
				
				[13] 
				J. L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, 
				anche in trad. it di Davide Tarizzo, Essere singolare plurale, 
				Einaudi, Torino 2001.
				
				
				
				[14] Cfr. R. Gilman-Opalsky, 
				Spectacular Capitalism, Minor Compositions,