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Gennaio 2014

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Esperienza e rappresentazione

«GINGER E FRED» DI FEDERICO FELLINI: I NUOVI MOSTRI

Salvatore Marfella

 

A vent’anni dalla scomparsa di Federico Fellini, quest’articolo propone una rilettura d’una delle ultime opere del grande regista.

 

1. La nuova dittatura

Secondo me la televisione è più forte di tutto […] e la sua mediazione ho paura che finirà per essere tutto […]. I campi di concentramento dell’Unione Sovietica, la schiavitù nelle democrazie orientali, l’Algeria. Questa ferocia all’antica naturalmente permane, ma, oltre a questa vecchia ferocia, c’è una nuova ferocia che consiste nei nuovi strumenti del potere, una ferocia così ambigua, ineffabile, abile, da far si che ben poco di buono rimane in ciò che cade sotto la sua sfera.

Lo dico sinceramente, non considero niente di più feroce della banalissima televisione […]. Tutto viene presentato come dentro un involucro protettore […]. In realtà nulla di sostanziale divide i comunicati della televisione da quelli della analoga comunicazione radiofonica fascista, l’importante è una sola cosa, che non trapeli nulla mai di men che rassicurante […]. Tutto ciò esclude gli spettatori da ogni partecipazione politica [...]. Non va pronunciata una sola parola di scandalo, praticamente non può essere pronunciata una sola parola, in qualche modo, vera[1].

 

Prima ancora della nascita dei canali privati e dell’ampliamento esponenziale dell’offerta della tv cosiddetta generalista, prima ancora dell’era berlusconiana e delle macerie che questa avrebbe lasciato (e il cui inventario è ancora ben lungi dall’essere redatto), Pier Paolo Pasolini individuava con la sua consueta lungimiranza l’irrompere nella società di un nuovo modello dominante, e preconizzava le nefaste conseguenze che esso avrebbe prodotto in termini di sudditanza delle masse e di omologazione culturale. Secondo Pasolini non v’erano dubbi: si trattava di una nuova forma di sfruttamento, persino più potente e pericolosa di quelle del passato perché più subdola e strisciante, più nascosta ma anche più capillare, che avrebbe investito e coinvolto tutti i campi e tutti gli aspetti della vita sociale e collettiva. Insomma, una sorta di fascismo “in camicia bianca”, altrettanto rozzo e volgare, ma dal volto all’apparenza assai meno minaccioso e più bonario, capace di ipnotizzare il suddito-utente grazie al sorriso brandito al posto del manganello.

Il uò forse apparireico atto d'accusa contro la TV e o scelto di 55555555555555555555555555555555555555555555555555555555555555555durissimo e profetico atto d’accusa contro la televisione sferrato dal regista di Accattone ci è sembrato il miglior apripista al nostro tentativo di analizzare alcuni aspetti salienti di Ginger e Fred (1985), il terzultimo lungometraggio di Federico Fellini, a nostro modo di vedere opera paradigmatica della descrizione dell’invasività della tv nel corpo sociale e della metamorfosi antropologica generata dalla cosiddetta “civiltà dei consumi”. Il disgusto e la volgarità preconizzati da Pasolini, dei quali il nuovo medium è il principale portatore, ci sembra trovino nel film di Fellini un perfetto contrappunto visivo, presentando l’immagine di un Paese ormai avviato inesorabilmente verso una profonda deriva culturale. Tuttavia Ginger e Fred riesce ad evitare le trappole del didascalismo moraleggiante grazie all’infusione di una serie di simboli e significati di cui, come si vedrà, i due protagonisti del titolo sono portatori e depositari, in obbedienza all’immaginario del maestro riminese, solitamente poco incline a rinunciare al suo gusto barocco ed al suo sguardo visionario in favore della riflessione politica tout court.

Difatti, rivisto oggi, alla luce delle accelerazioni tecnologiche del nuovo millennio e della nascita di nuovi e potentissimi strumenti di comunicazione ed informazione (il pensiero va ovviamente ad Internet ed allo sviluppo della rete), Ginger e Fred potrebbe apparire agli occhi dei detrattori un’opera un po’ datata, per certi versi addirittura preistorica, validissimo documento e perfetto resoconto sugli anni ‘80 e ‘90, ma anche riflessione invecchiata e dagli schemi un po’ logori su un’Italia televisiva imbarbarita e lobotomizzata dall’onni-presenza ed onnipotenza del tubo catodico. Per questa ragione, come cercheremo di illustrare attraverso l’analisi di alcune scene e la riflessione su alcuni personaggi, la maniera in cui Fellini racconta il “circo televisivo”, e soprattutto la presenza di un abbondante sotto-testo, fanno di Ginger e Fred un film ancora potente, capace di spingersi ben oltre i confini un po’ angusti della semplice satira contro la moderna e debordiana società dello spettacolo.

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2. Benvenuti all’Inferno

La scena iniziale del film mostra l’arrivo di un treno alla stazione. Ne scende una gracile ed anziana donnetta, Amelia Bonetti, interpretata da Giulietta Masina. Ad attenderla, la segretaria del Centro Spaziale Televisivo, il grande studio in cui quella sera si svolgerà la diretta del programma Ed ecco a voi. Come si apprenderà di lì a poco, si tratta di uno show in cui vengono presentati alcuni sosia di personaggi famosi, oltre ad un multiforme bestiario umano capace di stupire il pubblico per le sue caratteristiche a dir poco singolari. La signora Bonetti è stata chiamata perché da giovane, molti anni prima, duettava nei teatri di varietà insieme al compagno Pippo Botticella (Marcello Mastroianni). I due vestivano con grande successo i panni dei grandi attori e ballerini di tip-tap Ginger Rogers e Fred Astaire. Al suo arrivo alla stazione, Amelia è accolta dalla seguente scenografia: un gigantesco zampone di gomma che pubblicizza i prodotti alimentari dell’azienda dell’onnipresente Cavalier Fulvio Lombardoni (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti non è puramente casuale), un manifesto pubblicitario che mostra una ragazza sorridente mentre un würstel sta per infilarsi nelle sue natiche, un altro su cui campeggia la scritta “ROMA PULITA” proprio sopra cumuli di nerissimi sacchetti di rifiuti. Amelia sale sul pulmino che l’accompagnerà all’albergo, accolta da un sorridente gruppetto di sosia di Lucio Dalla mentre alla tv si vede uno spot in cui una marionetta con le fattezze di Dante Alighieri pubblicizza gli orologi “Betrix” (dall’evidente assonanza col nome “Beatrice”). Con la comparsa dell’immagine del Sommo Vate, per di più con le fattezze in un pupazzo che pubblicizza un bene di consumo, il cerchio sembra chiudersi: Amelia è appena arrivata all’Inferno e il pulmino guidato da un invisibile Caronte la sta traghettando verso un viaggio nei vari gironi della Società dello Spettacolo.

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3. L’involucro protettore e i nuovi mostri

All’arrivo in albergo Amelia, sentendosi un po’ persa, chiede notizie del suo partner, ma le viene risposto che non è ancora arrivato. Prende poi possesso della sua camera. La tv mostra significativamente le immagini di un astronauta in crisi di ossigeno, seguite da quelle in cui un’insegnante dall’accento tedesco impartisce lezioni di ginnastica a persone anziane, utili a combattere la vecchiaia, spettro da scacciare via ad ogni costo. Le scene successive mostrano Amelia che fa la conoscenza di alcune persone che saranno tra gli ospiti, insieme a lei, della trasmissione Ed ecco a voi: il sosia siculo di Clark Gable e quelli di Kafka e Marcel Proust, quelli di Ronald Reagan, Brigitte Bardot, Bette Davis, Telly Savalas/Kojak e Woody Allen; un transessuale napoletano la cui missione nella vita è quella di andare nelle carceri a “consolare” i detenuti (ovviamente servendosi degli strumenti del corpo più che di quelli dello spirito); un gruppo di nani artisti (tutti significativamente con accento del Sud); un “vero” mafioso fatto uscire dal carcere apposta per l’occasione («pure isso a modo suo è “nu divo”», suggerisce qualcuno); una “banda musicale di centenari”, dall’età di 620 anni in nove; il “fraticello volante” (un francescano assistito dal dono della levitazione durante la preghiera); un ammiraglio in pensione; l’onorevole Tartina, da settimane in sciopero della fame per protesta contro la caccia agli uccellini; un ingegnere, vittima di un sequestro, cui hanno mozzato un mignolo e che detiene il primato dei giorni di prigionia; l’uomo capace di ingravidare con la sola forza dello sguardo; un imprenditore, fabbricante di mutandine commestibili; una vacca con diciotto mammelle; un gruppo di barboni veri, prelevati dalla strada, ospiti della rubrica “Ai margini della metropoli”.

C’è dunque posto per tutti all’interno del nuovo medium: tutta la realtà viene immersa dentro le sabbie mobili del pantano televisivo che diventa così un unico, enorme calderone che comprende, ingloba, assorbe e omologa la più ampia gamma possibile di sfaccettature del reale: vi hanno spazio la cronaca, la diversità fisica e quella sessuale, la politica, l’arte, la musica, la letteratura, la religione, la sessualità a partire fin dall’atto procreativo. Infatti, l’uomo che ingravida con lo sguardo assurge a simbolo perfetto del mezzo televisivo, capace di colonizzare la parte più intima dell’individuo senza bisogno di contatto, per una sorta di contagio oculare. Fellini, col suo consueto gusto barocco, presenta allo spettatore lo spettacolo (si fa per dire) di questi “nuovi mostri”, versione distopica e ai limiti dell’horror dell’umanità: volgari e patetici, abbrutiti e ignoranti, gli “ospiti” dello show sono pronti a tutto, persino a mettere in mostra il loro lato più intimo e la più immane tragedia personale, pur di godere del famoso “quarto d’ora di celebrità” profetizzato da Andy Warhol. Se un tempo, per creare un grande affresco in cui raffigurare una molteplicità di figure umane, si ricorreva a tele di grosse dimensioni e si lavorava sulla profondità di campo (il 3d è scoperta pittorica prima ancora che invenzione cinematografica) ora è sufficiente l’inquadratura di un cameraman: l’immagine appiattita dello schermo televisivo ha rimpiazzato i muri intonsi delle grandi cattedrali.

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4. Amelia e Pippo: la Resistenza

Gettati in quest’arena – catapultati in un mondo cui non appartengono sia per motivi anagrafici che, soprattutto, per temperamento – troviamo i due personaggi di Amelia e Pippo, in arte Ginger e Fred, emblemi di un’umanità diversa, ormai prossima a svanire. I motivi che li hanno condotti fino a quel punto sono apparentemente di differente natura. Amelia ha accettato con riluttanza l’invito a comparire in televisione, convinta dall’insistenza di amici e familiari, mentre Pippo è stato spinto a partecipare all’insulso show televisivo da un mero bisogno di danaro. La verità è che i due ex ballerini di tip-tap, che si sono molto amati in gioventù, avevano soltanto una gran voglia di rivedersi. Amelia e Pippo sono molto di più di una coppia di ex artisti di varietà che sta per esibirsi nel nuovo mondo della televisione.

Spingendo la nostra riflessione “fuori” e “oltre” il film, è possibile considerare i due personaggi innanzitutto come un’anomala ed originale riproposizione della famosa coppia formata dal Clown Bianco e dall’Augusto, due celebri figure di pagliacci descritte in maniera particolareggiata in un altro film di Fellini, I clowns (1970), capolavoro sommerso che secondo chi scrive meriterebbe molta più attenzione di quella sino ad oggi ricevuta. Per spiegare la differenza tra i due pagliacci diamo la parola allo stesso Fellini che definiva il Clown Bianco e l’Augusto nel modo seguente:

 

Il Clown Bianco è simbolo d’eleganza, armonia, intelligenza. L’Augusto, al contrario, vive in conflitto con tale perfezione, si ubriaca vivendo una continua ribellione […] è il vagabondo, lo straccione, il bimbo capriccioso. Il Clown Bianco rispecchia le paure del dovere, la repressione. L’Augusto è tutto ciò che un bambino vorrebbe fare e che gli viene vietato: rotolarsi a terra, sporcarsi, insomma tutto ciò che la razionalità tende a vietare: fare boccacce, dire ciò che si pensa e urlarlo a squarciagola[2].

 

Amelia e Pippo sono difatti molto diversi, se non complementari: la prima è una donna della media borghesia, precisa, attenta, responsabile e un po’ vezzosa (con i suoi cappellini e la sua mantella a scacchi); Pippo è un diseredato, un proletario (al punto che, mescolatosi coi barboni dello show, viene scambiato per uno di loro), si definisce un “nomade sessuale”, è fragile (Amelia scopre che è finito in manicomio dopo che lei lo ha lasciato), ingenuamente ribelle e dallo spirito anarcoide, arrivando fino ad elogiare il mafioso perché «è uno che si ribella». Egli si rende conto dello squallore dello show cui sta per partecipare, considera gli italiani dei “pecoroni” e, da buon Augusto, vorrebbe urlarlo sul palco durante la loro esibizione, ma viene dissuaso dal Clown Bianco/Amelia. Anche Amelia, però, ha il suo moto di ribellione quando, alla domanda postagli dal finto Clark Gable su quale sosia ella rappresenti, risponde con fierezza: “Non sono il sosia di nessuno, io!”.

Inoltre non è affatto casuale che il loro mezzo espressivo sia il tip-tap. Questo tipo di danza, prodotta inizialmente dai ceti bassi, possiede infatti un’origine antica e una molteplicità di significati. Come illustra Pippo alla solita giornalista idiota, che rimane tuttavia affascinata dalla sua spiegazione, il tip-tap era lo strumento che gli schiavi neri d’America, impossibilitati a parlare tra loro e a praticare il loro culto religioso, utilizzavano per mettere in atto i loro rituali, battendo ritmicamente le mani ed i piedi ed usandoli in sostituzione delle percussioni. Il tip-tap costituiva quindi in origine il sound degli ultimi, dei diseredati, degli sfruttati, ma anche dei ribelli. Si trattava quindi di una sorta di linguaggio per iniziati come era ad esempio, nel Medioevo, la poesia dei cosiddetti “Fedeli d’Amore”. Amelia e Pippo sono quindi due eretici che contrappongono la verità eterodossa del loro essere e l’autenticità del loro repertorio al mondo dei sosia, dei nani ballerini e della volgarità dentro la quale sono immersi.

Singolare è il fatto che, ad un certo punto della loro esibizione, si verifichi un black-out che manda nel panico il Centro Spaziale Televisivo ed il mellifluo presentatore. È la scena cruciale del film. La mancanza di illuminazione consente ad Amelia e Pippo di vivere il loro personale momento della verità e di confessarsi il loro reciproco affetto. Amelia chiede a Pippo di essere pronto perché “la luce potrebbe tornare da un momento all’altro”, ma Pippo, sentendosi ormai risucchiato nel buio di un mondo dentro il quale ormai per lui non c’è più posto, si abbandona alla più disperata delle rese: “No, ormai la luce non torna più!”. Provenienti da un’altra epoca, Amelia e Pippo sono consapevoli di essere sostanzialmente due reduci del passato. Nonostante la loro differente estrazione sociale, essi sono entrambi dei reietti, sopravvissuti di età sepolte il cui medium comunicativo è ormai, secondo gli standard, demodè. Oppressi da oscuri presagi e consci di essere fuori posto e fuori tempo massimo i due guitti, una volta tornata la luce, portano tuttavia a termine con successo il loro numero regalando agli ignari spettatori una goccia di verità nell’oceano delle false identità e della contraffazione, prima di ritornare nell’oblio.

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5. Il passaggio del testimone: il “firmo”

Il finale del film merita anch’esso una breve analisi. Ancora una volta, come ne La Dolce Vita (1960), Fellini ha fatto compiere allo spettatore un viaggio dentro la decadenza di una società sempre più in via di decomposizione, una traversata nel mare della volgarità e della barbarie culturale. Entrando nel cuore malato della “banalissima televisione”, ed estraendone le viscere, Fellini ha fatto di essa il simbolo di una società sempre più falsa e putrescente, emblema di stupidità e conformismo.

Terminato il loro compito – cioè quello di porsi come baluardo di resistenza contro l’inautenticità del mondo di cui sono stati, per lo spazio di un giorno, ospiti sgraditi e sgradevoli – Amelia e Pippo sono ora in stazione: la donna sta aspettando il treno che la riporterà a casa, l’uomo ha deciso di restare ancora per un po’. È il momento dei saluti: anche se hanno promesso di rincontrarsi, entrambi sanno che si tratta del loro congedo definitivo. È un momento di struggente malinconia interrotto, però, da un brevissimo intermezzo che sembra aprire uno squarcio di speranza: i due ballerini sono avvicinati da due adolescenti e da un ragazzo di colore che chiedono loro l’autografo. Il ragazzo nero, in particolare, si rivolge a Pippo per farsi mettere “un firmo”. Con questo fulmineo intervallo, con questa richiesta del “firmo”, il regista prova a sfidare la desolazione creando una scena che sembra rappresentare una sorta di passaggio del testimone: la fiaccola della verità e dell’autenticità cambia di mano e viene idealmente consegnata dai due guitti, ormai giunti al capolinea della loro esistenza, a due categorie sociali nel quale è obbligatorio credere per il futuro. La prima categoria è quella dei giovani, la seconda quella degli immigrati, di coloro che stanno ancora imparando la lingua del Paese che li ospita e che per questa ragione potrebbero possedere una minore permeabilità ai modelli dominanti, una sorta di verginità culturale ed intellettuale da custodire e maneggiare con cura.

In realtà, anche questo generoso auspicio sembra nascere più dal famoso ottimismo della volontà che dall’altrettanto famoso pessimismo della ragione. Basterebbe riflettere in particolare (cosa che non è possibile qui, per ovvie ragioni di spazio) sulla prima delle due categorie, quella dei giovani, per osservare come ed in che misura essi siano stati nel corso degli anni sempre più presi d’assalto da una società che, attraverso la continua creazione di nuovi status-symbol, tenta incessantemente di compiere la sua devastante opera di colonizzazione morale e intellettuale.

D’altronde, mentre al termine del suo viaggio negli inferi, l’amato Dante usciva “a riveder le stelle”, nell’ultima sequenza del suo ultimo film – La voce della luna (1989), opera terminale (in tutti i sensi) – Fellini ci presenta la Luna che annuncia con voce stridula che è costretta ad interrompere la sua conversazione col sognatore Ivo (Benigni), perché è arrivato il momento di mandare la pubblicità. Il resto non è più silenzio.

 

DICEMBRE 2013

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[1] P. P. Pasolini, «Corriere della Sera», 9 dicembre 1973.

[2] F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, p.117.