13
Maggio 2014

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UNA TEORIA CRITICA DI INTERNET

Massimo Ammendola

 

Considero l’analisi critica non come un programma ideologico

bensì come un’arte manuale necessaria a creare gli stili letterari

e come un invito a impegnarsi in riflessioni radicali,

lontano dai frivoli commentari e dal chiacchiericcio sull’ultimo tweet.[1]

 

La rete Internet è nata per scopi bellici, ci ricorda Geert Lovink, critico della rete. «E cambiare gli scopi del calcolatore digitale per farlo diventare uno strumento umano universale al servizio del nostro ricco e variegato bisogno di informazione e comunicazione sarà un percorso lungo e difficile». In un momento storico in cui per il capitalismo è fin troppo semplice assorbire i suoi avversari, rendendo quasi impossibile evidenziare le sue storture, abbiamo ancora più bisogno di pensiero critico, specialmente quando si tratta di Internet, da molti ritenuto uno degli ultimi luoghi “liberi”. Specialmente «per il fatto che tutte le nostre conversazioni telefoniche private e il nostro traffico internet diventa disponibile pubblicamente»: Google e gli altri cinici colossi della rete (corporations come facebook, Windows, Apple, Amazon, eBay...) hanno come primo obiettivo di monitorare il comportamento dei consumatori per vendere dati di traffico e profili a terze parti interessate. «Benvenuti alla Gerarchizzazione del Reale»[2].

 

Il Web 2.0: controllo e profitti

Il Web 2.0 va giudicato per quello che è: dopo la recessione americana, dopo l’11 settembre e il crollo delle Dot-com della new economy, in linea con l’economia globale, le imprese della rete erano alla ricerca di nuovi profitti.

L’idea allora fu semplice, trarre guadagno dal contenuto generato dagli utenti, dopo il tonfo dell’e-commerce: non guadagnare più dalla produzione, ma dal controllo dei canali. E delle masse.

E così i media diventano social: si produce profitto sfruttando il volontariato e la socializzazione degli utenti, senza che questi se ne rendano neanche conto, anzi spingendoli ad autoschedarsi e ad osannare il culto del libero e gratuito.

Una “rivoluzione” semplice da usare, che facilita la socialità, ed offre piattaforme gratuite per pubblicare i propri contenuti.

Si centralizzano i servizi internet gratuiti, per ricavare così senza fatica un’infinita raccolta di dati, profili, gusti musicali, abitudini e opinioni personali.

 

I cosiddetti “contenuti generati dagli utenti” portano all’aggregazione di profili personali che possono essere rivenduti agli inserzionisti per il marketing diretto, e presto Google si rese conto di poter trarre profitto dalla gran mole di dati che circolava liberamente nell’internet aperta, dai video amatoriali ai siti d’informazione[3].

 

Miliardi di utenti che come tante api volano da un sito all’altro solo per accrescere il valore degli sconosciuti proprietari dell’alveare: e siamo sempre connessi, sempre presenti online, ogni istante di vita viene convertito in «lavoro». Si estende il tempo di lavoro, si estende il tempo libero produttivo, ed il controllo si fa più sottile e pervade totalmente e inconsapevolmente la sfera individuale. Marcuse era ottimista quando diceva che le telecamere sarebbero entrate in camera da letto.

 

Nel 2008 Google ha brevettato una nuova tecnologia che ne accresce la capacità di “leggere l’utente”. L’intenzione è decifrare a quali pagine, aree e argomenti si interessa il visitatore, in base al suo comportamento una volta giunto sulla pagina[4]: solo un esempio delle molteplici tecniche analitiche che l’azienda sta sviluppando per studiare il comportamento dell’utente e sfruttarlo a livello commerciale[5].

 

Ma oltre a monitorare i siti e le app che utilizziamo, e a vendere le informazioni ricavate, le giganti multinazionali del web sono state e sono tuttora complici della National Security Agency (nsa) per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network, come spiegato dalle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal quotidiano britannico «The Guardian»:

 

Non siamo innocenti. Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la nostra dipendenza, consegniamo sempre più la sorveglianza delle nostre vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo consentire di essere tutti sotto controllo?[6].

 

La vita googlizzata

Uno dei problemi che pone Lovink, è che i motori di ricerca indicizzano le fonti in base alla popolarità, non alla Verità. E non solo: secondo una ricerca sulle dimensioni della rete condotta nel 2000 da Bright Planet, il Web è costituito da oltre 550 miliardi di documenti (sconosciuti ai più e di certo al sottoscritto fino a poco tempo fa), mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi, ossia meno dell’uno per cento[7].

E invece ci stiamo affidando totalmente a Google, non impariamo più le cose a memoria, preferiamo cercarle online, diventando dipendenti dagli strumenti di ricerca sul web. Un web iper-sovraccarico d’informazioni. Con conseguenze preoccupanti:

 

Il dibattito su sovraccarico e selezione si riduce a questo: la perdita di se stessi. L’individuo occidentale autonomo preferisce delegare competenze e conoscenze a quel che Clay Shirky definisce “l’autorità algoritmica”, Google, facebook o un blog, e anziché acquisire potere, questa delega esterna non fa che indebolire ulteriormente il soggetto[8].

 

Ma questa è solo la punta dell’iceberg:

 

Fin dall’arrivo dei motori di ricerca negli anni Novanta, viviamo ormai nella “società del quesito” che non è poi così lontana da La Société du spectacle di Guy Debord. Scritta nella seconda metà degli anni Sessanta, quell’analisi situazionista era basata sull’avvento delle industrie cinematografica, televisiva e pubblicitaria. Oggi la differenza sostanziale è che ci viene esplicitamente richiesto di interagire. Anziché una massa anonima di consumatori passivi, siamo diventati “attori distribuiti” presenti su una moltitudine di canali. La critica di Debord sul processo di mercificazione in atto non riveste più un carattere rivoluzionario. I piaceri consumisti sono talmente diffusi da aver raggiunto la condizione di diritto umano universale. Siamo tutti innamorati del feticismo dei beni di consumo e delle marche famose, e ci crogioliamo nel luccichio incarnato dalle celebrità per conto nostro. Nessun movimento sociale o pratica culturale, non importa quanto radicale, può sfuggire alla logica di questo processo di mercificazione. Non esiste una strategia per far fronte alla società del dopo-spettacolo[9].

 

Il problema sta quindi nell’uso che si fa della rete non come mezzo tecnologico in generale, ma all’interno di un sistema capitalistico, che vuole solo profitto e controllo, ma non solo: in questa fase consumista e sovra-produttiva, con la tecnologizzazione in atto il capitalismo sta togliendo all’uomo sempre più capacità manuali, poiché ci vuole tutti consumatori passivi e incapaci di fare da soli qualsiasi cosa, uomini senza competenze, in modo da costringerci più facilmente a recarci al centro commerciale a comprare, dipendendo dalla grande distribuzione. E l’informatica è solo uno degli strumenti, che pur migliorandoci la vita, ci sta rendendo più stupidi: tutti a fissare i telefonini smart, non abbiamo più bisogno di leggere, fare una ricerca in biblioteca, né di consultare una carta geografica, chiedere una strada a un passante, fare un calcolo, imparare a memoria un numero. La tecnologia ci sta cambiando il cervello.

 

Non compriamo più i grandi giornali e va bene; ma i più di noi leggono le pagine online di questi stessi giornali, che sono le più sciocche e fatue e superficiali; gli articoli di approfondimento, nemmeno vengono offerti. Siamo informati in tempo reale di vacuità a catena, di notizie e pubblicità, che ci rinchiudono ancor più ermeticamente nel Grande Adesso Cretino in cui ci siamo lasciati occludere, separati dalla storia e dal passato, anche il nostro. Il potere di reagire immediatamente ci abbassa il livello di riflessione, ci rende sempre più adescabili dai primi impulsi. […] tutta questa intelligenza elettronica rende noi più idioti. Meno capaci di acquisire competenze, di imparare, di concentrarci duramente nello studio, nel lavoro, sempre meno adatti ad usare le mani e le gambe[10].

 

Secondo Joseph Weizenbaum, docente del mit e critico informatico, internet è un grande ammasso di rifiuti, un mezzo di comunicazione di massa che per il 95 per cento ha poco senso, come la televisione. Ed è questa la direzione verso cui va inevitabilmente il Web,

 

la cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è disintegrata in un’inondazione di disinformazione. Una delle ragioni primarie è l’assenza di un redattore capo o di un principio editoriale. […] “La possibilità per tutti di pubblicare qualsiasi cosa, online, in sé significa ben poco. Gettarvi dentro cose a caso è inutile tanto quanto pescare a caso” […]. Il problema di internet, secondo Weizenbaum, sta nel fatto che siamo portati a credere che sia l’oracolo di Delfi. Internet fornirà la risposta a tutte le nostre domande e a tutti i nostri problemi. Ma internet non è un distributore automatico in cui inseriamo la monetina per avere il prodotto che ci interessa. Per formulare la domanda giusta è fondamentale apprendere e acquisire le competenze necessarie. Non si riesce a elevare lo standard educativo limitandosi ad ampliare le opportunità di pubblicazione.

 

Anziché di Google e Wikipedia abbiamo bisogno di capacità di indagine e pensiero critico, che Weizenbaum «paragona alla differenza fra sentire e ascoltare. Per una comprensione critica dobbiamo prima fermarci ad ascoltare, non limitandoci a sentire, ma imparando a interpretare e a comprendere». Tutt’al contrario di quello che ci spingono a fare i social network, con la miriade di istintivi e impulsivi “mi piace” di facebook, ci lasciamo andare alla sensazione iniziale e superficiale del mi piace o non mi piace, e così crescono in noi le aree della nostra psiche che rafforzano l’inconsapevolezza cieca a sfavore della crescita della nostra coscienza[11]. Lo stesso tempo della rete è il tempo reale, che scorre continuo, non è tempo della riflessione, dell’interiore, della coscienza. «I “figli della rivoluzione del tempo reale” sono interessati soltanto a cosa succederà nei prossimi cinque minuti»[12]. Per formarsi, scambiare idee, ricercare davvero ci vogliono ben altri tempi e altri spazi.

 

Non soltanto leggiamo sempre meno libri, oppure nessuno, ma adesso guardiamo perfino pochi film e mai abbastanza tv. Come dei bambini, non sappiamo star fermi e prestare attenzione a Padre Cinema che ci legge una storia. Stiamo ancora guardando il film e ne abbiamo già sparato il giudizio via Twitter. La “nevrosi moderna” di Freud si manifesta sotto le vesti della mancanza di attenzione nel cyberspazio. L’osservazione e l’ascolto consapevoli cedono il passo al multitasking diffuso. Nel momento in cui ci sediamo dietro il computer, veniamo assaliti dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Mentre seguiamo le video clip online, che mediamente non superano i due minuti e mezzo, saltiamo su e giù, cantiamo e fingiamo di suonare la chitarra. Ci comportiamo come bambini iperattivi che ricevono troppa attenzione, e se qualcosa non ci sta bene, finiamo per lamentarci di un nonnulla, oppure, ribadiscono gli psicologi che studiano il comportamento online, passiamo immediatamente a qualcos’altro[13].

 

Dall’e-mail a facebook: il trionfo del narcisismo

 

Nella sua recensione del film The Social Network (David Fincher, 2010), Zadie Smith disprezza la normalità di facebook per come viene definita dai suoi fondatori, tutti un po’ autistici e computer-nerd. “Forse è l’intera internet a diventare come facebook: gioviale e amichevole in modo finto, teso all’auto-promozione, viscido e insincero”. La generazione Web 2.0 merita di meglio: “Facebook è il Far West di internet addomesticato per adattarsi alle fantasie e all’anima di un quartiere residenziale”. Smith si chiede se non dovremmo opporci a questa pacificazione. “Eravamo destinati a vivere online. Doveva essere qualcosa di straordinario. Eppure, che razza di vita è mai questa? Facciamo un passo indietro e osserviamo per un momento il nostro “Muro” su facebook: non sembra improvvisamente ridicolo? La nostra vita ridotta a un formato come questo?”[14].

 

Fino a circa sei anni fa non usavo ancora facebook. La mia vita era decisamente diversa. E non solo la mia. Oggi questo social network invade la giornata di quasi tutti gli iscritti: crea dipendenza.

All’epoca, nei momenti morti della giornata, quando la noia ti attanagliava, non avevi voglia di fare nulla, volevi perdere solo un po’ di tempo, al massimo controllavi freneticamente la casella di posta elettronica. Era quella la nostra ossessione: la mail. Controllata molte volte al giorno, nella speranza (più o meno) segreta che qualcuno ci scrivesse. Giornali e siti ne parlavano in articoli ed inchieste, citando studi di università di tutto il mondo, si parlava della cosiddetta sindrome da burn out: l’arrivo di una mail, in qualche modo, ci gratifica. Il bisogno che stava dietro a questo gesto meccanico è semplice: l’essere “considerati” da qualcuno, l’essere visti. Proviamo emozioni gratificanti quando siamo osservati, c’è la soddisfazione di impulsi esibizionistici e narcisistici[15]. Fino a qualche anno fa era poi in voga Msn, che lanciò tra le masse la chat, palcoscenico di parole ed emoticon, che già faceva trasparire il meccanismo perverso di ricerca e collezione di indirizzi mail a cui collegarsi e “relazionarsi”.

Altro luogo di esibizione e gratificazione dilagato nel tempo recente, è il blog. La rete pullulava di questi siti personali in cui ognuno scriveva pubblicamente di tutto, anche fatti molto personali. Ma scrivere più di 140 caratteri è una forma di comunicazione non per tutti. E allora è arrivato facebook, con a rimorchio Twitter, Whatsapp e Instagram, le vetrine virtuali per eccellenza.

Facebook, gli altri social network e le app di messaggistica hanno avuto un successo e una diffusione devastanti, poiché concentrano un mix vincente di attività, evolvendo le possibilità di utilizzo e le soddisfazioni prodotte: rimanere in contatto con i propri amici e conoscenti, conoscere nuove persone, chattare, pubblicare stati, foto e video, condividere con la propria platea link e canzoni, reperire informazioni di ogni tipo ed anche giocare. L’avvento degli smartphone ha poi permesso a tutto questo mondo di diventare “perenne”, nel senso che la possibilità di essere sempre connessi ad internet dai dispositivi mobili ci permette di poter navigare e chattare continuamente: la realtà virtuale si estende in quella reale, senza alcuna divisione. Prima l’utilizzo della rete e dei social network era legato all’utilizzo del pc, ed era quindi limitato alla permanenza fisica davanti alla macchina. Ora la macchina è sempre nelle nostre mani, e da qui l’aberrante fenomeno della trasformazione dello smartphone e del tablet come estremità finale dei nostri arti: diventano parte di noi, come se fossimo dei cyborg. In passato c’era meno disponibilità di avere una distrazione a portata di mano. Oggi invece siamo always-on, siamo senza sosta immersi nelle tecnologie, e ciò porta inevitabilmente a dei disturbi di percezione di sé e della realtà. Questa distrazione sempre disponibile ci porta ad essere meno presenti e centrati, anche quando siamo in compagnia; è più difficile concentrarsi, studiare, leggere, meditare, tutte attività che richiedono più impegno, più profondità, più solitudine, più sicurezza. Quest’uso della tecnologia è antispirituale: è tutto veloce, immediato, costante, un magma di informazioni che non immagazziniamo ed elaboriamo, ma che entrano acriticamente, troppo velocemente, e troppo massicciamente. L’alienazione prodotta dai mezzi di comunicazione e dalle attività digitali (non solo smartphone, ma anche tv, computer, videogiochi) è un dato oggettivo di quest’epoca: per fare l’esempio principe, una volta aperto, facebook rischi di non chiuderlo più. Una ammaliante trappola, si salta da un link all’altro, da una bacheca all’altra.

Ma perché stiamo tutto il tempo col telefono in mano, a scorrere la home di facebook, a chattare su Whatsapp, a inviare tweet e pubblicare selfie?

E qui ritorna in ballo la gratificazione di cui parlavamo quando riceviamo una mail: queste attività aumentano la gratificazione e il piacere all’ennesima potenza, ogni messaggio, ogni like e ogni condivisione o commento sono carezze alle nostre personalità insicure e disorientate. Ci fanno sentire importanti, belli, e meno soli. È questa la grande vittoria del social: ci hanno conquistato perché ci permettono di colmare i nostri “buchi” interiori, i nostri dolori, la nostra paura di stare da soli, le nostre insicurezze più profonde, i nostri bisogni di “essere visti”. Ma ci riescono davvero? Pare di no. Valanghe di “mi piace” e persone che ci messaggiano e ci “seguono”, non riescono a riempire davvero il vuoto. Ed infatti non ci accontentiamo mai, è un circolo vizioso, per noi odierni e fragili Narciso.

Basterebbe partire da una semplice domanda per capire l’uso che facciamo di questi strumenti: perché sto pubblicando questa frase? Perché sto pubblicando questa foto? Perché sto scorrendo senza fermarmi la home di facebook?

Altra componente da non sottovalutare è il nostro voyeurismo, ci eccitiamo terribilmente a spiare le vite degli altri: che sia un incidente per strada, la finestra di fronte, la casa del Grande Fratello, o la bacheca facebook di chicchessia. Tutti noi abbiamo la necessità dello sguardo dell’altro, ma a volte si arriva fino alla compiacenza da Grande Fratello: amare l’essere spiati, controllati e dominati.

Ma il tema centrale è senza dubbio il narcisismo di massa dilagante, che anche se presente in minima parte in tutti noi, è moltiplicato, accentuato e stimolato all’ennesima potenza dai social: tutti quelli che li usano, lo fanno per manovrare la percezione di loro stessi agli occhi degli altri mediante la condivisione di stati, commenti e foto, per auto-promuoversi, fino ad essere riconosciuti da altri, mostrando un’immagine ed un’identità di sé univoca, anche se in verità siamo esseri più complessi della nostra personalità “da profilo” che mostriamo in rete.

Il selfie, moda del momento, descrive bene l’esasperazione di quest’epoca: l’attività di scattarsi immagini è da sempre collegata alla dimensione narcisistica, poiché l’uomo era alla ricerca di una gratificazione, anche quando l’autoritratto rimaneva privato; ma con l’introduzione dei social network, l’aspetto narcisistico si è accentuato poiché la condivisione, il farsi pubblicità, spinge l’utente a scattarsi ossessivamente foto, da solo, finché non esce quella giusta, quella che può finire sul web, su cui si condividono gli autoscatti migliori di sé per la ricerca di gratificazione personale, gonfiata come mai prima grazie all’approvazione altrui, espressa dal numero di “mi piace”, commenti e condivisioni, tutte piccole carezze narcisistiche.

«Il narcisismo dilagante è definito come disordine della personalità riguardante la preoccupazione di apparire ed essere percepiti al meglio dagli altri. I narcisisti ricevono gratificazione dalla vanità conquistata tramite l’ammirazione altrui»[16].

Quindi, chi utilizza assiduamente i social network, lo fa per manovrare l’impressione che ha il mondo (virtu-reale) di sé, e proprio ciò è un sintomo dei disordini della personalità legati al narcisismo.

 

C’è un sottile e inebriante piacere nella consapevolezza di essere continuamente letto, commentato e considerato […]. La fase immediatamente successiva alla pubblicazione di un contenuto è aspettare la risposta di chi ti legge […] tendiamo a scrivere post e aggiornamenti per un “pubblico ideale” […]. Sia gli utenti estremamente razionali sia quelli irrazionali sono accomunati dal desiderio umano di piacere[17].

 

Il nostro mondo è talmente basato sull’immagine che alcuni studiosi hanno proposto di eliminare il narcisismo patologico perché ormai siamo tutti molto “narcisi”[18].

 

E livelli più elevati di narcisismo e più bassi di autostima portano ad una maggiore attività di auto promozione sui social: avere molti contatti, accettare amicizie da sconosciuti, cambiare spesso la propria foto di profilo e il proprio stato.

Il delirio di onnipotenza collettivo porta parecchi ad essere incapaci di accettare critiche e responsabilità, superando limiti e regole, andando su di giri fin troppo facilmente, tutti comportamenti distorti.

Facebook e compagni sono diventati ormai il lettino dello psicanalista senza psicanalista: vi affiorano trame coscienti ed inconsce, libere da censure e presenze inibitrici, superando i limiti, perdendo il senso di realtà. Ragazzine e ragazzini che si affacciano appena all’adolescenza si atteggiano a donne e uomini, in pose sexy (o presunte tali), che scatenano ormoni, commenti e mi piace, come in un virtuale quartiere a luci rosse, in cui ci si offre alle masse, senza alcuna educazione sentimentale ed erotica, senza saper come gestire le situazioni che ne scaturiscono. In fondo non c’è nulla di nuovo, è sempre accaduto, gli adolescenti cercano attenzioni, carezze, amore, e scoprono il sesso, più o meno confusamente, ma la novità è la violenza con cui ci si “offre” inconsapevolmente agli altri, e l’età che scende sempre di più.

Una erotizzazione precoce, spinta anche dalle pubblicità e dagli altri media, che offrono stimoli erotici per vendere anche ai bambini, e che sta convincendo gli adolescenti che il valore di una persona si riduce esclusivamente al suo sex appeal e al suo comportamento sessuale, ricevendo così in cambio attenzioni e successo e diventando ricco e famoso. Si diventa, presto e velocemente, oggetti sessuali, ripetendo precocemente comportamenti e atteggiamenti degli adulti. La sessualità viene concepita come una merce di scambio, a completo discapito della componente relazionale e affettiva. Una preoccupazione costante per l’aspetto fisico che crea inadeguatezza, tensioni, insicurezze e può portare anche a disturbi alimentari, oltre all’ossessione della forma fisica e del giudizio altrui[19]. E sono queste ossessioni ed insicurezze che ci portano poi a cercare narcisisticamente le conferme e le gratificazioni sui social.

 

La repressione della bellezza e la morte della società

 

Il narcisismo è stato descritto da Freud, nel 1922, come un’assenza o un disturbo della “libido oggettuale”, quel desiderio che si protende verso il mondo “là fuori”. Il desiderio fluisce invece all’interno, attivando la nostra soggettività isolata. La bellezza del mondo non possiede alcun fascino, nessun’eco che attiri la nostra attenzione. Siccome la bellezza del mondo non esercita alcun richiamo, io cerco e trovo quella bellezza nello sguardo fisso concentrato su me stesso. Questo è narcisismo e, come rivela la parola stessa, con la sua origine, nel racconto di Ovidio, il narcisismo è “un disturbo della bellezza”: il volto del mondo è trascurato, la libido è priva di oggetto, rivolta verso il soggetto narcisista, disturbando la sua personalità. Narciso era affascinato non da sé stesso, non dal riflesso, ma dalla bellezza.

Se vogliamo essere pratici e terapeutici riguardo a questa che forse è la sindrome prevalente nella popolazione più giovane della società occidentale – questo narcisismo che impedisce la relazione e il comportamento civico, e si manifesta come un’immatura ed egocentrica fuga nell’alcol, nel gioco, nella droga, nel consumismo e nel culto del successo – allora è meglio che consideriamo questa sindrome come un disturbo nell’ambito più generale della bellezza. L’anestesia dell’anima dell’individuo non può infatti essere separata e curata indipendentemente dall’anima del mondo e del Zeitgeist[20].

 

L’anima dell’individuo è quindi anestetizzata, l’inconscio colonizzato, stordito dai flussi di immagini e notizie continue, siamo scansionati dalle apparecchiature elettroniche ed ossessionati dai divertimenti preconfezionati: tutto offusca la realtà dello sfruttamento quotidiano, della scissione tra uomo e natura, dell’inumanità delle relazioni sociali, e si sgretola la possibilità dell’impegno per una trasformazione.

 

Il modello del talk show, la distruzione del libro, l’assenza del confronto, la paura del silenzio, la corsa metropolitana delle grandi città alla ricerca di nuovi e infiniti appuntamenti, una vita già tutta riempita tra impegni, relazioni, continue conversazioni virtuali, sport, nell’asfittica forma della palestre, intrattenimento a disposizione sempre e comunque, ed in più una accurata sapienza tecnica ed una misera esperienza di vita, stanno rendendo loro sempre più impossibile sentire i bisogni essenziali di pensare, di amare, di conoscere[21].

 

Al centro del nostro essere c’è una soggettività distorta, che perde il contatto con la realtà sociale dei problemi e delle contraddizioni individuali, mentre aumenta la diffidenza fra le persone e la loro incapacità di vivere la loro esperienza di vita in relazione. Il mondo corre troppo velocemente, non ha più senso, e allora la nostra attenzione si sta concentrando sulle questioni personali, abbiamo innalzato una corazza che ci fa mettere al centro l’Io. E la comunità non esiste più.

 

Nel lungo periodo del dopoguerra che va dal 1945 al 1989, il sociale è stato neutralizzato, per ricomparire nel xxi secolo come effetto speciale delle procedure tecnologiche, scritto nei protocolli e distinto dalla community. […] Possiamo commuoverci davanti a immagini cattoliche o gramsciane di persone comuni che si radunano nelle piazze per celebrare la loro unità, ma questo sentimento ha breve durata e non può sostituire la sensazione di malcontento sul fatto che la società in quanto tale, come giustamente sosteneva Margaret Thatcher, non esiste più. Possiamo darne la colpa al neo-liberismo, all’individualismo, al consumismo, alla globalizzazione, o ai new media. Tutti elementi che hanno distrutto l’omogeneo sentimento comunitario abbandonato da molti nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale[22].

 

E con la comunità scompare anche un certo ordine di tempo della vita, il tempo che si misura in mesi, anni e decenni e non quello di minuti, ore e giorni che è invece il tempo dello scorrere della coscienza comune al giorno d’oggi[23].

 

E disinteressarsi sempre più al tempo cronologico di un’azione e agli oggetti dell’esperienza concreta, essendo immersi nel tempo “reale” della rete, ci aumenta la fragilità interiore: «Questa involuzione rappresenta l’esperienza dominante nella società neo-liberista, portando al fatto che un po’ tutti si sentono un fallimento». Il fallimento personale diventa il fallimento di cambiare la realtà:

 

Berardi mi ha raccomandato un libro del 2009, Capitalist Realism, in cui Mark Fisher spiega cosa succede quando il postmodernismo viene naturalizzato e definisce la sua inespressa visione del mondo come “impotenza riflessiva”. “Si sa che le cose vanno male, eppure, quel che è peggio, non ci si può far nulla. Ma questa ‘conoscenza’, questa ‘riflessività’, non è un’osservazione passiva di uno stato delle cose pre-esistente. È una profezia che si autorealizza”. Un ostacolo all’emergere di reazioni a un simile sovraccarico d’informazione è la possibilità di ritirarsi in una posizione d’indifferenza. I giovani sperimentano un mondo che non può essere toccato. Percepiscono che la società sta andando in frantumi e niente potrà mai cambiare. Fisher lega l’impotenza alla diffusa patologizzazione, precludendo l’eventualità della politicizzazione. “Molti degli studenti adolescenti che ho incontrato” scrive Fisher “sembravano vivere in uno stato di edonismo depressivo, costituito dall’incapacità di impegnarsi in qualsiasi altra cosa che non fosse la ricerca del piacere”. I giovani reagiscono alla libertà offerta loro dai sistemi post-disciplinari “non perseguendo dei progetti bensì cadendo nel lassismo edonista: la morbida narcosi, il confortevole cibo dell’oblio che include Playstation, tv e marijuana per tutta la notte”[24].

 

Che fare?

Alfabetizzarci: capire come funziona il web, chi lo controlla, e come usarlo. Ma soprattutto chiederci perché lo usiamo.

È necessario

 

smontare innanzitutto lo stesso desiderio dei consumatori che traina la macchina auto-promozionale. In quest’ambito, il marketing dell’io non riguarda soltanto un’impresa narcisista finalizzata a soddisfare le necessità interiori, ma è sospinta in modo primario dal rapido consumo di oggetti esterni, dall’inarrestabile impulso ad ammassare sempre più cose – da amici e amanti fino a prodotti griffati, servizi e altre brevi esperienze semi-esclusive. […] Un aspetto importante dell’alfabetizzazione è la capacità di andar via dallo schermo. Sapremo padroneggiare gli strumenti non soltanto quando ne avremo appreso l’utilizzo, ma anche una volta capito quando è il caso di metterli da parte. Questo allenamento deve prendere in considerazione quale sia la quantità vitale di email, Twitter e sms, quale il lavoro da rimandare a più tardi, come definire l’intrattenimento e cos’è la distrazione pura[25].

 

Diventiamo consapevoli di cosa significa dipendere dai media del “tempo reale”, della diretta continua: come segno di rispetto e di cura, magari inizieremo a spegnere lo smartphone quando siamo in compagnia di qualcuno!

«Dopo lo slow food, tocca alla slow communication?»[26].

Seguiamo gli spunti del movimento Slow Media[27] (esiste davvero), che sostiene il rifiuto delle piattaforme di social media controllate dalle corporation. Per superare il perpetuo stato di distrazione bisogna rendere meno attraente e universale il culto del multitasking e dell’aggiornamento continuo. Il movimento che propone di «andare offline» non sarebbe perciò qualcosa di anti-tecnologico, bensì soltanto anti-tempo reale: «I media lenti non si rivolgono alla velocità di consumo bensì alla scelta consapevole degli ingredienti e alla preparazione in maniera concentrata»[28].

Diventare quindi più consapevoli. Solo con la consapevolezza, con l’allargamento della coscienza interiore e spirituale possiamo rendere anche le tecnologie di controllo del web uno strumento di crescita: tutto va male se non ci metti la coscienza, anche la rete, quindi dipende come la usi. Sforziamoci di usarle con Amore.

Tutto ciò che c’è nel web può essere un validissimo strumento di crescita e di comunicazione, ma anche un amplificatore dei nostri sentimenti più bassi e delle nostre malattie psichiche. Queste oggi proliferano come mai prima, e ciò è un male, ma anche un bene, una grande occasione, perché le esperienze negative sono possibilità di crescita positiva: mai come oggi c’è possibilità di sviluppare le nostre coscienze.

 

Buona navigazione!

 

MAGGIO 2014


[1] G. Lovink, Ossessioni collettive. Critica dei social media, Egea (Università Bocconi Editore), Milano 2012, p. 170.

[3] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., pp. 41-42.

[4] Un esilarante esempio: L'autogol di Vittorio Zucconi su Twitter, 12 maggio 2014, http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=7821

[5] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 331.

[6] I. Ramonet, Tutti sotto controllo, 06 aprile 2014, «Le Monde Diplomatique»,

 http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48062

[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Web_invisibile; nello sbalorditivo Deep web si svolgono tantissime attività, anche molte illegali (si vende davvero qualsiasi cosa), poiché ci sono solo siti “nascosti”, che non si trovano facendo delle normali ricerche nei motori di ricerca e che possono essere visitati solo attraverso la rete di anonimizzazione tor (The Onion Router), che nasconde l'indirizzo ip e quindi la propria identità in rete. Pare sia l'unico (enorme) luogo in cui si può essere anonimi. Uno degli ideatori, Jacob Appelbaum, attivista dei diritti umani ed hacker, nonché collaboratore di WikiLeaks, descrive così il mondo googlizzato: «Mi piace Google e mi piace chi ci lavora. Sergey Brin e Larry Page sono tipi in gamba. Ma mi terrorizza pensare alla prossima generazione che ne prenderà il posto. Per quanto benevolente, una dittatura è pur sempre una dittatura. A un certo punto la gente si renderà conto che Google sa tutto di tutti. E quel che più conta, sa i quesiti che poniamo, e lo sa in tempo reale. Può letteralmente leggerci nel pensiero», in Lovink, cit., pag. 332-333.

[8] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 99.

[9] Ibidem, pp. 321-322.

[11] F. Carotenuto, Facebook e l'Anima: mi piace o non mi piace?, 10 novembre 2012,

http://coscienzeinrete.net/spiritualita/item/944-facebook-e-l-anima-mi-piace-o-non-mi-piace.

[12] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 121.

[13] Ibidem, pp. 300-301.

[14] Ibidem, p. 113.

[15] «Il narcisismo è sia un tratto della personalità caratterizzato da un’ammirazione eccessiva di se stessi, delle proprie azioni, ma anche un disturbo della personalità che consiste nell’incapacità di provare empatia verso altri individui e un esagerata percezione della propria importanza e idealizzazione del proprio sé», tratto da #Selfie: l’emblema del narcisismo sui social network, L. Beatrice Moccia,

http://compassunibo.wordpress.com/2014/02/03/selfie-narcisismo-sui-social-network-2/.

[16] A. Giannini, Mi scatto una selfie: la mania del momento, 21 gennaio 2014,

 http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=53627&typeb=0, citando lo studio del prof. Larry Rosen; altro studio interessante quello della prof. Tracii Ryan, anch'essa autrice di studi sul fenomeno del narcisismo da social network, maggiori info qui:

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2012-03-18/narcisismo-facebook-trovati-indizi-153739.shtml?uuid=AbhsOEAF.

[17] Confessione di un like dipendente, 20 marzo 2014, http://www.linkiesta.it/confessione-di-un-dipendente.

[18] R. Lippi aka Koshiro, Sindrome da selfie, il narcisismo nell’era dei social media, 11 gennaio 2014,

 http://www.ninjamarketing.it/2014/01/11/il-narcisismo-e-social/.

[20] J. Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo 2002.

[21] G. Trapanese, I nuovi giovani e il narcisismo di massa, «Città Future» n.0,

 http://www.cittafuture.org/00/06-I-nuovi-giovani-e-il-narcisismo-di-massa.html.

[22] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 44.

[23] G. Trapanese, cit.

[24] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 86.

[25] Ibidem, p. 88.

[26] Ibidem, p. 90.

[28] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 103.