14
Ottobre 2014

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AUTOMAZIONE.

Perché la tecnologia non ci libera, ancora

Alessandro D'Aloia

 

Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria,

la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato

che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro.

(K. Marx, Grundrisse)

 

Umane obsolescenze

Nel 2013 al Festival del cinema di Cannes è stato presentato il film intitolato The congress, che narra la vicenda di un’attrice costretta ad accettare di cedere alla produzione la propria immagine in modo da non dover più recitare nei film che saranno, da quel momento, prodotti. Il pubblico continuerà ad apprezzare una delle sue dive preferite, congelata nello splendore dei suoi anni, mentre la persona in carne ed ossa, separata ormai dal proprio simulacro digitale, sarà affrancata dalla necessità di dover cercare sempre nuovi ingaggi nonostante l’avanzamento dell’età. Tutto ciò è reso possibile da una tecnologia all’avanguardia che, sulla base di una scansione 3D del corpo, permette la sua replica perfetta in una realtà virtuale utilizzata nella produzione dei film. Il contratto tra la produzione e l’attrice è tale da offrire a quest’ultima, ormai disoccupata, una rendita a vita come corrispettivo per i diritti di sfruttamento della sua immagine a fini cinematografici.

Il film viene considerato, negli ambienti cinefili, un riferimento quale denuncia esplicita del problema, già attuale, della progressiva estromissione dell’attore in carne ed ossa dalle produzioni filmiche e della contestuale deriva digitale del cinema di intrattenimento di stampo hollywoodiano.

Al di là però delle implicazioni strettamente correlate al mondo del cinema, la vicenda getta spunti di riflessione di ben più ampia portata, su temi che attengono molto da vicino i più generali rapporti di produzione del capitalismo contemporaneo. La parte più inquietante del groppo di pensieri che il film genera è senz’altro legata a quel sottile senso, andersiano, di obsolescenza dell’umano che si manifesta sempre più evidentemente man mano che la tecnologia di cui disponiamo avanza, conquistando sempre maggiori ambiti di applicazione concreta.

Quest’esempio tratto dal mondo cinematografico serve a rilevare come ormai cominci ad essere evidente che il problema della progressiva sostituzione delle facoltà umane con quelle meccaniche non ha come proprio ambito esclusivo quello della produzione materiale di beni e che perciò non attiene solo le categorie di lavori “manuali” o il destino professionale degli operai, ma travalica ampiamente i limiti tra categorie di lavoro e, ad un altro livello, le distinzioni di classe.

Sin da quando si sviluppò in Inghilterra il movimento dei luddisti, cioè all’inizio del xix secolo, agli operai impiegati nelle grandi manifatture fu chiaro di trovarsi in una posizione di aperto antagonismo con le macchine nella produzione industriale e di conseguenza di essere l’unico polo della dialettica uomo/macchina ad avere problemi di sopravvivenza materiale. Sin da subito, nel ciclo di spettacolare sviluppo capitalistico, il capitale più che presentarsi di fronte agli operai in forma di capitalista, lo ha fatto in forma di capitale fisso, vale a dire in forma meccanizzata. L’operaio nel capitalismo è posto di fronte al capitale stesso e ad esso subordinato[1]. Oggi si osserva in che misura il destino degli operai preconizza quello del lavoro umano inteso complessivamente.

 

Divergenti progressi

La più evidente contraddizione dei tempi moderni è rappresentata dalla difficoltà crescente, e sempre meno dissimulabile da parte del capitalismo, di garantire accanto al progresso tecnologico anche quello civile[2]. Siamo di  fronte ad un inarrestabile processo di raffinamento tecnologico, disponiamo di strumenti sempre più sofisticati ed intelligenti, ma le persone arrancano sempre di più nel raggiungimento di una posizione sociale stabile e in grado di assicurare prospettive di vita serene e questo anche nei paesi a cosiddetto “capitalismo avanzato” ed anche al di là dell’attuale contesto di crisi economica. Insomma il confronto con gli anni sessanta e settanta del secolo scorso offre questo doppio risvolto: da un lato disponiamo di tecnologie neanche paragonabili sul piano tecnico, dall’altro nessuno si sente di poter mettere in discussione il fatto che la condizione di benessere esistente nei paesi occidentali sia regredita a vista d’occhio[3].

D’altra parte non mancano opere di ricerca ed approfondimento a cura di economisti che tentano di mettere a fuoco, disponendo di dati storici circa l’andamento economico degli ultimi tre decenni, la tendenza complessiva del capitalismo attuale[4].

Se questo arretramento, si potrebbe definirlo di civiltà, è il dato di fondo, qualcuno dovrà pur cominciare a mettere in relazione inversa, su un piano più ampio, il progresso tecnologico e quello sociale e cercare di spiegare perché ciò accade.

Ed in effetti a voler leggere tra le righe dei documenti ufficiali, tale relazione comincia a fare capolino, ma solo timidamente e senza approfondimenti ulteriori sulle implicazioni di affermazioni quali: «Le indicazioni del rapporto confermano che la crisi e ancor prima le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dalle innovazioni tecnologiche e produttive hanno avuto un impatto drammatico sui sistemi economici e sociali, in particolare sull’occupazione»[5].

Oppure può capitare di leggere, tra i mille articoli sulla crisi economica, qualche osservazione isolata sulla connessione tra sviluppo tecnologico e stagflazione[6].

Gli analisti economici sono più o meno concordi, anche se non lo sventolano ai quattro venti, sul fatto che non si tornerà mai più alle condizioni pre-crisi[7], ma quello che bisognerebbe dire è che le condizioni pre-crisi non erano per niente una bengodi, nel senso che la drastica riduzione dell’occupazione è una tendenza che non sconta solamente il dato della crisi, ma assume caratteri sempre più spiccatamente strutturali. In fin dei conti non si tratta neanche qui di un dato puramente quantitativo. La crisi ha aumentato in modo abnorme la disoccupazione, ma l’essenziale è che dall’inizio degli anni novanta la massiccia introduzione di forme di precarizzazione dei rapporti di lavoro ha innescato un evidente cambio qualitativo nello spirito con il quale si concepisce l’esistenza nelle società dei paesi a capitalismo avanzato[8]. Non si tratta ovviamente solo di posti di lavoro, dal momento che anche laddove buona parte degli occupati riesca a mantenere l’occupazione, ci riesce tendenzialmente solo a scapito delle proprie condizioni materiali. È difficile negare un dato elementare: è da almeno un paio di decenni che chi lavora è costretto a farlo di più pur ottenendo di meno in cambio. In sostanza mentre la tecnologia avanza inequivocabilmente le condizioni lavorative arretrano altrettanto inequivocabilmente.

È questo il dato su cui è necessario porre l’accento per una critica sensata del mondo che viviamo. Come il fatto che il generale regresso delle condizioni di vita non riguarda per niente solo gli operai, ma il lavoro nella sua globalità.

 

L’enorme automa

Bisognerebbe leggere e rileggere più volte quanto scritto da Marx ne I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, anche noti come Grundrisse, o più nello specifico nel cosiddetto “frammento sulle macchine”, per cogliere ap-pieno la vicenda in cui ci dibattiamo, certamente, già da quando ne parlava Marx, ma in modo molto più empirico da almeno un paio di decenni, ovvero da quando l’accelerazione dello sviluppo tecnolo-gico e il, non casualmente contestuale, scardina-mento definitivo dell’idea dell’occupazione fissa hanno prodotto un effetto combinato in grado di mutare sensibilmente la percezione del mondo da parte dell’uomo.

Basti cercare di seguire anche solo le evocazioni di passi come il seguente: «Fabbrica significa la cooperazione di più classi di operai, adulti e non adulti, che curano con accortezza e assiduità un sistema di meccanismi produttivi messi continuamente in azione da un potere centrale [...]. Questo termine, nella sua accezione più rigorosa, implica l’idea di un enorme automa, composto di numerosi organi meccanici e intellettuali che operano in maniera concertata e senza interruzione per produrre un medesimo oggetto, tutti essi essendo subordinati a una forza motrice che si muove spontaneamente»; che Marx elaborava a partire da testi precedenti come quello di A. Ure sulla Filosofia delle manifatture[9]. L’idea di una società che cura con accortezza un sistema di meccanismi produttivi in ossequio ad un potere centrale, non meglio definito, fino a dare vita ad un enorme automa, cioè un’entità dalla doppia natura, meccanica ed organica, sembra davvero fotografare il formicaio di uomini e mezzi che ogni giorno si attiva, spontaneamente, per mandare avanti una produzione di cui non si vede necessariamente il fine.

Se l’ingrediente principale di quanto evocato già da Marx ai suoi tempi era rappresentato sostanzialmente dall’irruzione delle macchine nel processo produttivo, oggi disponiamo di ulteriori elementi che raffinano evidentemente l’abbozzo marxiano dell’enorme automa. Il nostro sistema produttivo è un unicum che ormai straborda dai limiti della fabbrica per coinvolgere le città, le regioni e tutti i luoghi necessari, così come l’intero arco delle competenze che entrano in gioco in un dato processo produttivo, organizzato a rete e capace di attivare di volta in volta i nodi necessari. Si tratta evidentemente di un vero e proprio automa, o corpo senz’organi[10], in cui alle macchine, che rappresentano gli organi “muscolari”, si aggiunge oggi, grazie alla tecnologia informatica e ad internet, un organo fondamentale come il cervello, capace di introdurre un cambio qualitativo notevolissimo nel sistema, in cui gli uomini rappresentano semplicemente la residua parte cosciente di un complesso altrimenti privo di consapevolezza.

Il fatto che i pezzi dell’automa non siano più solo le fabbriche lascia già ben intravedere come il discorso suoi ruoli e dell’uomo e delle macchine nel processo di produzione, considerato complessivamente, vada oggi acquistando una valenza generale, al di là anche delle categorie di lavoro (materiale e immateriale) e quasi al di là di quelle di classe. Di fronte al capitale in sé, e alla sua logica automatica (di cui ormai quasi tutto è pervaso), anche il capitalista, ad esempio, assume un ruolo marginale, di semplice agente funzionale. Persino la sua ideologia di classe, ormai introiettata nel “pensiero automatico” trasversale, rende superflua la figura del capitalista quale predicatore della morale di vita immolata alla produzione.

Ciò che infatti rileva oggi è la sempre maggiore capacità del capitale di organizzare la vita umana in sua funzione, maggiore capacità legata ovviamente allo sviluppo dell’informatica e della sua applicazione “sociale” più vistosa, vale a dire internet.

La rete informatica, non è solo un’applicazione immateriale della tecnologia attuale, ma un aspetto sempre più centrale nella moderna organizzazione della produzione su scala globale. Essa rappresenta un’esplosione della produttività capitalistica, una sorta di epifania dell’automa collettivo. Il fatto è che questo dato, per alcuni versi sbalorditivo, non resta assolutamente senza conseguenze sociali.

E le conseguenze sono esattamente queste: «il valore oggettivato nelle macchine si presenta inoltre come una premessa rispetto alla quale la forza valorizzante della singola forza-lavoro scompare come qualcosa di infinitamente piccolo»[11].

In sostanza, com’è ormai evidentissimo, già Marx rifletteva sul fatto che crescendo la capacità produttiva del sistema industriale in sé, diminuiva necessariamente, in proporzione, la parte umana della “forza valorizzante”, e in ultima analisi, il valore del lavoro umano, nei rapporti di produzione capitalistici. In sostanza con la meccanizzazione del lavoro si viene a creare necessariamente un rapporto, storicamente determinato, tra la parte umana e quella meccanica nella produzione e va da sé che mentre la parte umana di produzione è sempre e solo, al massimo, la quantità di lavoro che l’individuo, funestato dai sui ritmi biologici, può umanamente trasferire nel prodotto, la parte meccanica cresce invece storicamente sempre di più, essendo limitata solamente dallo stato evolutivo della tecnologia di una data epoca. È chiaro che su scala globale non è più solo l’apporto del singolo individuo a rappresentare una parte infinitamente piccola del tutto, ma è l’apporto umano preso complessivamente a rappresentare una parte tendenzialmente decrescente, in rapporto alla capacità produttiva potenzialmente illimitata dell’enorme automa contemporaneo.

 

Il conflitto del valori

C’è però un altro aspetto fondamentale implicito nella situazione descritta. Questo aspetto è individuato nel fatto che essendo, questa capacità produttiva dell’automa, sproporzionata rispetto ai normali bisogni umani, cioè rispetto al fine originario della produzione stessa, essa deve necessariamente trovare un senso al di là dell’uso e vale a dire al di là del valore d’uso: «con la produzione in masse enormi, che è posta con le macchine, scompare altresì, nel prodotto, ogni rapporto al bisogno immediato del produttore e quindi al valore d’uso immediato; nella forma in cui il prodotto viene prodotto, e nei rapporti in cui viene prodotto, è già posto che esso viene prodotto solo come portatore di valore e che il suo valore d’uso è solo una condizione ad esso relativa»[12].

Da qui, l’altrimenti assurda, supremazia del valore di scambio su quello d’uso e la produzione di beni che non conservano più relazione alcuna con il concetto di utilità. L’esuberanza produttiva del sistema rispetto alle immediate necessità dell’uomo è costretta a valorizzarsi indipendentemente dal mondo circostante e a scapito di questo, se necessario.

Accade allora, molto semplicemente, che il capitale fisso, in cui sono stratificati secoli di sviluppo tecnologico e di scienza applicata, chiede a quello variabile di riconoscere i fatti e di sistemare conseguentemente le gerarchie tra lavoro morto e lavoro vivo. La precarizzazione dei rapporti di lavoro è esattamente la contrattualizzazione di questa subordinazione dell’umano al meccanico.

Se si considera il capitale fisso come la condensazione di secoli di sapere tecnico, appare chiaro come sia impossibile pensare alla produzione capitalistica, come a qualcosa di privato. Di privato c’è solo la natura giuridica del capitale stesso, ma la produzione è, non certo da oggi, intimamente sociale, collettiva.

«Quando la divisione del lavoro è sviluppata, quasi ogni lavoro di un singolo individuo è una parte del tutto, la quale, da se stessa non ha alcun valore o utilità. Non c’è nulla di cui il lavoratore possa impadronirsi, e dire: questo è il mio prodotto, questo lo terrò per me» (T. Hodgskin, Labour Defended against the Claims of Capital. Or the Unproductiveness of Capital proved with Reference to the Present Combinations amongst Journeymen, 1825). [...]. Nel processo di produzione della grande industria, al contrario, come da una parte la subordinazione delle forze della natura all’intelletto sociale è il presupposto della produttività del mezzo di lavoro sviluppato a processo automatico, così d’altra parte il lavoro del singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo soppresso, ossia come lavoro sociale»[13].

Ogni membro della società, partecipa in un modo o nell’altro, al processo produttivo dal momento che questo processo, si giova di qualsiasi contributo, presente o passato che sia. Anche ciò che sembra non entrare nel processo, anche ciò che sembra essere del tutto inutile, finisce per avere una sua funzione. Quando non si analizzino più le relazioni dirette nell’ambito limitato di una sola fabbrica, o unità produttiva, ma si consideri il mondo intero come fabbrica, allora è più semplice capire come mai tutto torni, in ultima analisi, utile. Siamo tutti, in un modo o nell’altro, organi dell’enorme automa.

 

Capitalismo frattale

Una domanda, a questo punto, è d’obbligo: come mai proprio oggi, le “visioni” di Marx risalenti ad un secolo e mezzo fa tornano più attuali che mai?

Bisogna allora cercare di rispondere dicendo che dai tempi di Marx sono intervenute non delle modificazioni, ma degli approfondimenti notevoli, i quali implicano una serie di passaggi qualitativi nel modo di concepire le relazioni umane (rete), il tempo e il lavoro. Marx nei Grundrisse diceva che «Le macchine stesse, per il loro impiego, presuppongono, storicamente […] braccia in sovrabbondanza. Solo dove è presente una sovrabbondanza di forze di lavoro, intervengono le macchine a sostituire lavoro».

È noto come l’industria sin dall’inizio sia stata sinonimo di concentrazione operaia e, di conseguenza, come fosse naturale concepire come strettamente legate le macchine e la presenza di notevoli masse di forza lavoro. Proprio rispetto a questo singolo dato è possibile misurare oggi la distanza che ci separa dai tempi di Marx e dal Novecento. L’irruzione sulla scena di una macchina “personale” come il pc ha infatti scardinato dalle fondamenta il tradizionale rapporto tra individuo e strumento meccanizzato di lavoro, ha trasformato il mondo in una fabbrica. Si dirà che un pc non è esattamente equiparabile ad una pressa, ad esempio, ma si riconoscerà senz’altro che con l’arrivo dei pc non esiste praticamente più ambito di lavoro, concentrato o isolato che sia, concepito al di fuori della mediazione di una macchina e, per proprietà transitiva, delle tecnologia informatizzata. In sostanza oggi, grazie all’informatica articolata nella sua doppia dimensione di “individuale” (personal computer) e “sociale” (Internet) e alla miriade di applicazioni strumentali (hardware e software) che ruotano attorno a queste due dimensioni, cambia totalmente il modo con il quale il singolo entra in rapporto con l’enorme automa. Questo automa non ha più bisogno di concentrare forza di lavoro in luoghi dedicati, essendo ormai presente ovunque grazie ad una tecnologia capillare e, di conseguenza, ogni ambito di attività produttiva è sottoposto, più o meno direttamente, alle medesime modalità dei rapporti di lavoro mediati dalla macchina. La fabbrica ha abbattuto le mura degli opifici esondando dappertutto. Oggi, con il pc tutto il lavoro è “meccanizzato” e con ciò ogni tipo di apporto umano al lavoro si riduce alla capacità di utilizzare una macchina ai propri fini lavorativi, e vale a dire, si riduce ad un’applicazione individuale di un sapere tecnico-sociale condensato nella macchina (o meglio nella capacità sociale di costruire macchine sofisticatissime), nei programmi automatici che essa utilizza e nella rete informatizzata che tutto connette. Oggi ogni tipo di lavoro si trova, di fatto e in linea di principio, nelle medesime condizioni dell’operaio di fronte alle linee automatizzate delle fabbriche, pur non volendo con questo equiparare in nessun modo le diverse condizioni lavorative ancora esistenti.

Ecco perché il capitalismo nella fase della “totalizzazione”[14] piuttosto che relegare le visioni di Marx ad un passato ormai lontano e sepolto, le chiama in causa come analisi di un’attualità universale non più interpretabile, neanche lontanamente, come tematica di una classe.

 

Il tempo del lavoro

La tecnologia è allora un male?

«Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. [...] Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo — in misura crescente — la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato»[15].

Il passo, stupefacente, dimostra come per Marx fosse già chiaro che, stante così le cose, il valore del lavoro “umano” non poteva e non doveva essere più ricercato nel tempo impiegato, dal momento che tutta la tensione tecnico scientifica dell’umanità stessa era, ed è, rivolta, in ultima istanza, alla diminuzione del tempo di lavoro necessario[16].

Allora diventa chiaro come mai, al di là dell’epocale crisi attuale (che è crisi del capitalismo come sistema), sono ormai almeno tre i decenni in cui il valore reale del lavoro continua la sua inesorabile discesa verso l’inferno sociale del capitalismo contemporaneo. La questione del valore reale del lavoro va però intesa nei suoi termini generali e non nei soli termini di remunerazione diretta. Può infatti accadere che chi conservi un’occupazione riesca anche a conservare, tutto sommato, delle accettabili condizioni di vita o addirittura a migliorarle, ma questo solo al prezzo di un restringimento generalizzato, in termini quantitativi, di forza lavoro impiegata complessivamente e vale a dire al prezzo di una tendenziale crescita della disoccupazione o del tempo sociale di “non-lavoro”.

Dal momento che non è realistico, né auspicabile, prevedere un arresto dello sviluppo tecnologico, diventa altrettanto semplice prevedere la generale inarrestabilità della discesa del valore del lavoro nelle condizioni sociali che l’esistenza del capitalismo in quanto tale impone.

Questo chiarisce come lo sviluppo ulteriore dell’andamento descritto renda urgente una conclusione implicita a tutto il discorso: sarà sempre più evidente la necessità di svincolare il reddito dalla quantità di tempo lavorato e di conseguenza ricercare una differente misura del valore del lavoro (o dell’attività umana).

Il paradosso del capitalismo è individuabile precisamente in questo: disporre di una capacità produttiva più che sufficiente alle necessità dell’umanità, ma vincolarne l’utilizzo alla realizzazione del valore di scambio dei beni prodotti, valore che, come noto, necessita di un mercato, il quale non ha, né potrà mai avere (a dispetto dei sogni dei capitalisti), le dimensioni dell’umanità intera. E questo perché l’avanzare della tecnologia, e di conseguenza della capacità produttiva, procede molto più velocemente della formazione di un mercato che sia in grado di tenervi testa. Perciò agli occhi del capitale non rilevano i bisogni dell’umanità in quanto tale, ma solo la capacità economica dell’umanità in quanto consumatrice.

A ben guardare questo fatto condiziona le potenzialità del sistema molto di più della semplice natura giuridica del capitale stesso. Dovendosi realizzare i valori di scambio (l’economia di profitto) dei beni prodotti, poco importa che il capitale investito nella loro produzione sia privato o pubblico. Non che la cosa sia del tutto indifferente, tuttavia non è sostanziale.

L’irruzione sulla scena, ad esempio, delle macchine a controllo numerico, come le stampanti 3D, a costi ormai quasi universalmente accessibili, pur offrendo a molti la possibilità di intraprendere delle attività produttive, non garantirà loro la base economica per avere prospettive stabili di sviluppo, dal momento che non li libererà dalla necessità di vendere i loro prodotti su un mercato che sempre più ricco di beni, anche innovativi, sarà, per lo stesso motivo, sempre più povero di consumatori. È inoltre noto come la sofisticazione dei sistemi produttivi permetta, dall’altro lato, la produzione di beni, anche ad elevato contenuto tecnico, impiegando sempre meno mano d’opera umana. Di conseguenza l’innovazione di cui tanto si parla oggi è essa stessa a postulare la tendenziale autonomia meccanica della produzione, vale a dire, la crescente inutilità di mano d’opera. La domanda che segue è: come è possibile allora immaginare un aumento dell’occupazione in futuro?

Di fronte a questo stato di fatto verrebbe naturale individuare, paradossalmente, nella tecnologia in sé un male per l’uomo, così come accadde già all’epoca del luddismo, ma si tratterebbe di un’ingenuità non perdonabile per la seconda volta. Se il meccanismo descritto è stato reso efficacemente allora è chiaro come il problema alberghi nella modalità con la quale, nel sistema capitalistico, vengono scambiati i beni prodotti e non nel fatto che la tecnologia renda sempre più facile produrli. Allo stesso modo non è possibile pensare che la tecnologia e la produzione di beni siano appannaggio esclusivo del capitalismo, come invece si tende a dare generalmente per scontato.

 

Il tempo del non-lavoro

«Così come l’oro non cesserebbe di avere il suo valore d’uso come oro quando non fosse più denaro. Le macchine non perderebbero il loro valore d’uso quando cessassero di essere capitale. Dal fatto che le macchine sono la forma più adeguata del valore d’uso del capitale fisso, non consegue minimamente che la sussunzione sotto il rapporto sociale del capitale sia il rapporto sociale di produzione ultimo e più adeguato per l’impiego delle macchine»[17].

Il livello tecnologico raggiunto permetterebbe, in altri termini, di realizzare una nuova classicità per il genere umano, una sostanziale liberazione dal lavoro (oppure una generalizzazione del non-lavoro) per tutta l’umanità e non solo per una sparuta manciata di privilegiati, ma la condizione è liberare la capacità produttiva dall’imperativo della realizzazione del valore di scambio, ammettere che la produzione possa avvenire “fuori dal mercato”[18].

Quando però si dice “fuori dal mercato” si intende il mercato capitalista nel quale i beni sono scambiati solo dietro transazione monetaria, oggi già potenzialmente insidiato da altre forme di scambio permesse dalle nuove tecnologie[19]. Infatti una produzione improntata al valore d’uso implica ugualmente l’esistenza di uno scambio dei beni e servizi prodotti, semplicemente tale scambio si svincola dal potere d’acquisto dei soggetti.

Se s’inquadrano le cose secondo questo punto di vista, diventa semplice capire come l’istituzione, ad esempio, di un “reddito di cittadinanza”[20] possa risolvere l’urgenza di una disoccupazione enorme e tendenzialmente crescente, e ovviamente innescare anche tutta una serie di miglioramenti qualitativi individuabili nella minore subordinazione del mondo del lavoro al ricatto della produttività ad ogni costo, ma non possa ancora giungere a mettere in discussione l’attuale forma di scambio monetaria e tanto meno ricondurre l’enorme automa ad una logica produttiva non automatica o post-umana (produrre al fine di produrre), ma rispondente a necessità concrete, cosa che richiede un quadro totalmente differente di rapporti sociali di produzione, in grado di dare alla produzione fini ad essa esogeni.

Mentre la questione del reddito di cittadinanza non implica necessariamente un governo cosciente della capacità produttiva complessiva, la rimodulazione della produzione sul valore d’uso dei beni postula un’iniziativa finalmente sociale (in accordo alla sua essenza), o se si preferisce “comune” (e non più pubblico/privata), della produzione. Se non è il valore di scambio realizzabile a decidere per la produzione di beni, la società sarà finalmente costretta ad imparare ad indirizzare la propria capacità produttiva, la qual cosa richiede l’emancipazione culturale della società dai dogmi del consumo e il concepimento di forme di democrazia superiori a quelle fondate sulla rappresentanza (per altro in avanzato stato di deterioramento). Si può dire che la questione della natura pubblica o privata della produzione di beni è sostanzialmente un falso problema, se non si porta il ragionamento sulla modalità con cui i beni vengono infine scambiati, oltre che prodotti.

Si potrebbe anche dire che la necessaria istituzione di un reddito di cittadinanza è una sorta di rivendicazione “sindacale” o “transitoria” per la sopravvivenza dell’uomo nell’epoca dell’automazione capitalistica, mentre la ancor più necessaria virata dal valore di scambio a quello d’uso, racchiude una vera e propria dimensione politica, una sorta di chiave di volta, capace di cambiare la qualità dell’automazione produttiva e la posizione dell’uomo nel moderno processo di produzione, da sussunto sotto il capitale (che si presenta ormai compiutamente nella sua veste di apparato tecnologico fondato sul verbo tecnocratico, il quale rimpiazza le vecchie ideologie dominanti) ad emancipato da esso. Non è superfluo notare come la sorte dell’intera dimensione organica del pianeta sia legata al destino dell’uomo in questa dialettica tra lavoro vivo e lavoro morto.

Bisogna, per il futuro, pensare alla completa riarticolazione del concetto di “lavoro” attorno al nocciolo utilitaristico delle produzioni, quale principale elemento di azione politica possibile in un’epoca in cui mentre il ritiro generalizzato dello Stato post-moderno, o se si preferisce la sua riduzione a light governance dei flussi di capitale, non sembra offrire per il futuro grosse prospettive a concezioni stataliste o keynesiane (in teoria però sempre possibili), si presentano invece oggettive opportunità di coprire, in autonomia, vuoti produttivi localizzati sempre più vasti, generati da una ricerca del profitto privato avvitata su se stessa e tendenzialmente astratta persino dalla produzione materiale, nonché aggravati da una concezione dello Stato sempre meno sociale.

Tutto il ragionamento sulla trasformazione delle modalità di scambio è il presupposto per il mutamento in positivo di un’altro dato sempre più massiccio: quello dell’aumento del non-lavoro. È necessario fare in modo che la diminuzione progressiva del “lavoro necessario”, implicita nell’avanzamento tecnologico, sia un bene e non un disastro sociale. Ma questo sarà possibile solo dal momento in cui sarà accettata anche culturalmente la rottura, che di fatto già opera, della relazione storica tra sussistenza materiale e tempo di lavoro impiegato individualmente in un dato processo produttivo, di beni o servizi che sia. In altre parole se non si accetta che la sussistenza materiale dell’umanità possa non dipendere dalla quantità di tempo lavorato, non ha, in fin dei conti, nessun senso continuare a sviluppare la capacità produttiva sociale[21].

La necessità di affrontare la crisi socio-culturale, oltre che economica, oggi, in un contesto in cui la vita quotidiana è traumatizzata dall’eterno rivolgimento dei modi di vita, con la coscienza di dover agire, da un lato, sulla concezione stessa della giustificazione sociale dell’individuo al di là del lavoro e, dall’altro, sulla capacità sociale di indirizzare la produzione e il suo scambio,  non è conclusione frutto di un ragionamento logico come quello condotto da Marx a suo tempo, ma piuttosto questione posta dalla concretezza dell’attualità, caratterizzata da un’impasse strutturale senza precedenti (i beni da un lato i bisogni dall’altro), che assume i caratteri di un paradosso storico di portata epocale per il futuro dell’umanità e del pianeta, paradosso che è tanto più inaccettabile quanto più grande è la capacità produttiva del sistema nel suo complesso.

 

NOVEMBRE 2014



[1] «Ma non è questa la via per cui le macchine sono sorte come sistema, e meno ancora quella su cui esse si sviluppano in dettaglio. Questa via è l’analisi — attraverso la divisione del lavoro, che già trasforma sempre di più le operazioni degli operai in operazioni meccaniche, cosicché, a un certo punto, il meccanismo può subentrare al loro posto. Qui il modo di lavoro determinato si presenta dunque direttamente trasferito dall’operaio al capitale nella forma della macchina, e la sua propria forza-lavoro, svalutata da questa trasposizione. Donde la lotta degli operai contro le macchine. Ciò che era attività dell’operaio vivo diventa attività della macchina. Così l’appropriazione del lavoro da parte del capitale, il capitale che assorbe in sé il lavoro vivo — «come se in corpo ci avesse l’amore» — si contrappone tangibilmente all’operaio».

K. Marx, I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), edizione digitale a cura del «Collettivo Criticamente», reperibile su:

http://www.criticamente.com/marxismo/grundrisse/Marx_Karl_-_GRUNDRISSE_introduzione.htm.

[2] Basti pensare al corto circuito rappresentato dalla barbarie dell’isis che si diffonde mediante il più avanzato strumento di comunicazione ovvero internet. Del resto si tratta solo della punta dell’iceberg del razzismo che monta in una società sempre più incapace di comprendere le profonde ragioni del proprio malessere.

[3] Si veda a tal proposito il rapporto dell’unicef sull’aumento della povertà nei paesi ricchi, il 12° della serie Innocent Report Card, intitolato Figli della recessione: l’impatto della crisi economica sul benessere dei bambini nei paesi ricchi, scaricabile a questo indirizzo: http://www.unicef.it/doc/5809/rapporto-unicef-figli-della-recessione.htm.

[4] Si potrebbero citare, ad esempio, opere con titoli abbastanza eloquenti come Il grande balzo all’indietro di Serge Halimi, oppure Il Capitale del xxi secolo, di Thomas Piketty, oppure ancora Chi ha cambiato il mondo? di Ignazio Masulli, a proposito del quale Piero Bevilacqua in un articolo su «Il Manifesto» dell’11 ottobre dice: «Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l’innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l’esercito industriale di riserva. Forse l’autore sottovaluta l’innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli usa. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato [...], quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi».

[5] cnel, Presentazione Rapporto sul mercato del lavoro 2013-2014 Roma, 30 settembre 2014: considerazioni conclusive. http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=23514.

Il rapporto è a cura, tra gli altri di T. Treu, che dal 2013 è componente del cnel. Notevole come a trarre alcune conclusioni sull’andamento del mercato del lavoro sia proprio colui che nel 1993 introdusse in Italia le prime forme di precarizzazione dei contratti lavorativi e che oggi ha buon gioco ad additare la globalizzazione e la tecnologia, quasi come se queste fossero in grado persino di scrivere le leggi.

[6] O ancora di ascoltare Stefano Fassina alla trasmissione «Piazza pulita» del 27 ottobre 2014, su La7, affermare che in Europa, riferendosi ai processi decisionali in ambito di politiche monetarie comunitarie, è ormai esplicito che non potendosi svalutare più la moneta, si deve svalutare il lavoro.

[7] Cfr. Crisi, Cnel: bruciati un milione di posti di lavoro. Impossibile tornare ai livelli pre-crisi. http://economia.leonardo.it/crisi-cnel-bruciati-un-milione-di-posti-di-lavoro-impossibile-ritornare-ai-livelli-pre-crisi/;

oppure dello stesso tenore ma con riferimento a dati Istat: Crollano gli occupati under 35: persi 2 milioni dal 2008.

 http://www.repubblica.it/economia/2014/10/18/news/lavoro_crollono_gli_occupati_under35_persi_2_milioni_dal_2008-98397858/?ref=HREC1-24.

[8] Potrebbe sembrare un dato soggettivo, ma sta di fatto che il Gallup Word Poll, ogni anno stila una classifica, intervistando un campione di 1.000 persone in ogni paese, con domande utili a capire come cambia la percezione delle proprie condizioni di vita nel tempo.

[9] Cfr. A. Ure, Philosophie des manufactures, Bruxelles 1836, t. I, pp. 18-19 [Filosofia delle manifatture, in Bib. Dell’Economista, Serie II voI 3°, p. 23].

[10] Sul tema è molto illuminante il contributo di G. Deleuze e F. Guattari, che nell’Anti-Edipo, ispirandosi al romanzo Erewhon di S. Butler, hanno diffusamente tratteggiato i contorni di questa entità para-umana, capace di assoggettare il nostro inconscio e di utilizzarci come pezzi di un automa, potremmo dire, fatto di uomini e macchine. I due autori suggeriscono anche l’insidiosa idea secondo la quale l’umanità altro non è che l’apparato riproduttivo del genere macchinico.

[11] K. Marx, cit., p. 33.

[12] K. Marx, cit., p. 33.

[13] K. Marx, cit., p. 41.

[14] Si vedano a tal proposito gli articoli di V. Fiano pubblicati su «Città Future» e più nello specifico la straordinaria opera in tre volumi di R. Malinconico, Teoria della totalizzazione, Edizioni Melagrana, Caserta 2012.

[15] K. Marx, cit., p. 39.

[16] Cos’è la tecnologia se non il tentativo umano di dominare la natura con sempre minore sforzo? Come può la tecnica umana, volta a diminuire sempre più lo sforzo umano, essere inquadrata in un sistema di valorizzazione fondato proprio sulla misurazione quantitativa dello sforzo?

[17] K. Marx, cit., p. 35

[18] Cfr. G. Cosenza, Per un’analisi della rivoluzione digitale, in «Città Future» n. 13,

http://www.cittafuture.org/13/04-Per-un'analisi-della-rivoluzione-digitale.html.

[19] Il riferimento non è a e-bay o all’e-commerce che rappresentano solo una modalità ulteriore di concepire il mercato inteso tradizionalmente, ma ad internet in sé, inteso come strumento di scambio, sostanzialmente di informazioni e prodotti immateriali (per ora), che avviene a prescindere da transazioni monetarie e che rappresenta un flusso enorme di valore d’uso capace di circolare senza il presupposto della monetizzazione.

[20] A tal proposito si vedano almeno le Dieci tesi sul reddito di cittadinanza di A. Fumagalli, che poco o niente hanno a che vedere con le proposte del M5S, ad esempio.

http://www.ecn.org/andrea.fumagalli/10tesi.htm#6

[21] Qui la questione ricalca su un differente piano i caratteri che ebbe nel xvi secolo lo scontro teologico tra protestanti e cattolici sulla contrapposizione tra teoria della Giustificazione per sola fede, sostenuta dai luterani  e quella della Salvezza attraverso le opere sostenuta da Roma. Si riporta di seguito un passo esemplificativo: «Come la S.V. sa, i teologi protestanti, facendosi forti di certi passi paolini mal interpretati (Mt 25, 34; Rm 8, 28-30; Ef 1, 4-6), affermano che coloro che Dio ha prescelto come suoi santi fin dall'origine del mondo, e soltanto costoro, si salveranno nell'Ultimo Giorno. Il compimento di opere buone come pegno per guadagnare la salvezza eterna sarebbe dunque una pura illusione. La salvezza sarebbe garantita agli eletti non da azioni meritorie, bensí dal dono divino della fede e da nient'altro. Di conseguenza nessuna buona opera compiuta dal cristiano potrebbe intervenire a mutare questo dono originario ricevuto da alcuni uomini, gli eletti, i predestinati alla salvezza nel disegno di Dio.

Non è necessario ricordare quanto questa dottrina sia pericolosa per il buon ordine cristiano, che invece deve affermarsi proprio sulla base della libera scelta della fede o del rifiuto di quest'ultima da parte degli uomini. Del resto, non esito ad affermare che proprio la dottrina conosciuta come giustificazione per sola fede è il pilastro portante di tutte le nefandezze compiute dai luterani in venticinque anni. Essa è l'architrave della loro teologia rovesciata, nonché ciò che dà loro la forza di scagliarsi contro la Santa Sede senza alcuna umiltà, di mettere in discussione le gerarchie di Santa Romana Chiesa, e tutto questo in nome dell'inutilità d'un giudice per le azioni umane e di un'autorità ecclesiastica che amministri la regola e giudichi appunto chi è degno di entrare nel Regno di Dio e chi non lo è. La S.V. ricorderà senz'altro che una delle prime ardite mosse di Lutero fu proprio quella di non riconoscere al Santo Padre l'autorità della scomunica».

Per approfondire si legga: L. Blisset, Q, Einauidi, Torino 1998 (scaricabile anche direttamente dal sito degli autori: http://www.wumingfoundation.com/giap/?page_id=6338). Qui basti osservare come, riportato il dibattito su questioni più terrene, esso assomigli molto al problema se l’esistenza umana debba essere giustificata dal lavoro (le opere) o dal suo semplice darsi in quanto tale.